L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il
patriarcato scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe
attuale non è inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e
sperimentare con fatti che dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno
bisogno di imparare dalle concrete resistenze all’olocausto capitalista che
oggi emergono dentro, contro e oltre il suo perimetro asfissiante.
Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a
modelli basati su generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o
etiche che cercano di afferrare il significato delle azioni degli altri?
Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto
imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno
che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa
consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista:
“consumiamo tutto ciò che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”,
consoliamoci guardando come altri già vivono in questa catastrofe con la
speranza di poterle sfuggire”.
È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei
loro mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a
mantenersi vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono
gli afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i
discendenti degli schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una
naturalizzazione di un’identità brutalmente forzata – a manifestare
nella pratica la propria volontà di continuare a essere differenti e liberi per
conferire forma al loro proprio mondo?
Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le
espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi,
questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”.
Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva,
necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione. La collaborazione nei
compiti che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come
coltivare la terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente
trasforma la necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione
possono trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi
fondamentali. Solo per fare un esempio: il Mutirão in
Brasile (parola con radici nella lingua tupí guaraní) è un
processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e che si basa
sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone senza terra e
senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta che produce
nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga
ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che
celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse
rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione
di cura con la terra (Stavrides, 2024).
Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima
(condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda,
emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali
basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve
essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo
usare il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di
cooperazione che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si
pone la questione dell’accesso equo e della distribuzione del potere,
questione inevitabile oltre al come la ricerca della sopravvivenza collettiva
affronti questa questione. Se la catastrofe smaschera le differenze
spesso accuratamente nascoste, gli sforzi della sopravvivenza collettiva fanno
emergere forme di convivenza basate sulla mutua dipendenza. Gli sforzi
individuali, specialmente tra coloro che sono i più vulnerabili e ignorati (a
meno che non li si consideri dall’esterno come inutili) si rivelano ogni volta
più sterili.
Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche
collettive e le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica
nascono nella intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione
sociale. Forse in un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi
delle regole predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità
degli atti che apparentemente seguono le tipologie predominanti del
comportamento se distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello.
Questa possibilità la suggerisce Giorgio Agamben:
“… un paradigma implica un movimento che
passa di singolarità in singolarità e, senza mai abbandonare la singolarità,
trasforma ogni caso singolare in un esempio di una regola generale che non può
mai enunciarsi a priori” (2009:22).
Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente
la generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo
per presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una
comparazione analogica. I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio
la vita del fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie
vite, uniche come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare
questa pratica imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti
comparati. La base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri
nell’altro.
La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa
di molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il
paradigma, come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare
sospensione della propria specificità del suo significato. La sua singolarità,
in un certo senso, rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la
coniugazione del verbo “amare” per mostrare la regola della coniugazione di
verbi simili). Un gesto paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola
si formi a partire da tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E
l’esempio è certamente uno di quelli. Agamben conclude:
“Il caso paradigmatico si converte in
ciò nel sospendere e, allo stesso tempo, nell’esprimere la sua appartenenza al
gruppo, in modo che non sia mai possibile separare il suo modello dalla sua
singolarità” (ibid. 31).
Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in
questa maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo
perché identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre
l’unicità dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione
di differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni
delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di
schemi dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano
regole che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi.
In questo senso, ogni azione è un esempio.
In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto
differente o un insieme di pratiche differenti possono considerarsi
controesempi se li paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non
come un’eccezione: l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di
essa come un verbo “irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si
assomigliano nel non seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste
nel dire che l’eccezione non sta al di fuori della regola, bensì ne è solo la
sua sospensione. Per questo, le eccezioni rilevano gli elementi costitutivi
della regola dalla quale si separa ogni eccezione particolare. Il detto
popolare che recita che l’eccezione conferma la regola sembra rivelare più di
quanto appare in un primo momento.
Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano
esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la
norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando
si trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I
controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono
arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui
servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le
caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in
incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma
specifica.
Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non
dovrebbero descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole
dominanti o espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una
delle maniere di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia,
più che una condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di
sopravvivenza quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli
immediati della catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri
verso l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è
necessariamente integrata in queste tattiche.
Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente
proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La
loro forza risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi
sociali organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma
anche grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare
questi atti come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire
delle teorie di emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto
importante: il ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a
confronto una molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In
altre parole, l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in
circostanze specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel
rispettare il carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata,
abbiamo quindi la necessità di considerare l’emancipazione sociale come il
trionfo dell’inventiva collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati
di inventiva possono emancipare sé stessi.
Stavros Stavrides è professore alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica
Nazionale di Atene, si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo sostegno.
Nell’archivio di Comune, altri suoi articoli sono
leggibili qui.
Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la
castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino
fratello di Comune.
Traduzione di Massimo Zincone.
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