L’8 luglio 1853 una squadra navale americana al comando del commodoro
Matthew Perry si schierò nella rada di fronte ad Edo (l’antica capitale), oggi
la baia di Tokyo. E ai rappresentanti dello ‘shogunato’, il consiglio di alti
ufficiali e feudatari che governava il Giappone, consegnò un ultimatum: o
l’apertura del paese ai commerci – primi quelli con gli Stati Uniti –, o il
bombardamento navale.
La facile
analogia con l’attualità
Benché oggi
il gesto possa sembrare decisamente forzato, pensando alle diverse ritualità
politiche del mondo 150 anni dopo, la guerra dei dazi di Trump sembra il logico
seguito di quell’episodio. Gestito forse in maniera persino meno volgare.
Peggio, le conseguenze della politica della forza. Un decennio prima,
sconfiggendo la Cina nella prima ‘guerra dell’oppio’, la Gran Bretagna aveva in
pratica assoggettato il paese asiatico e si era insediata saldamente ad Hong
Kong creando uno snodo fondamentale per i proprii commerci. Iniziò anche
l’ascesa del Giappone come potenza asiatica, l’Impero Nipponico che meno di un
secolo dopo restituì agli Stati Uniti e al mondo la sua versione della potenza
nazionalistica.
«Quando il 7
dicembre 1941 i giapponesi bombardarono la base americana di Pearl Harbor, non
sappiamo quanti americani si siano ricordati della visita del commodoro Perry
nella baia di Edo avvenuta meno di un secolo prima»
Il Giappone
a metà Ottocento
Dagli inizi
del XVII secolo alla metà dell’Ottocento il Giappone non era cambiato per nulla
ed alcuni degli strumenti per fermare qualunque innovazione erano stati il
divieto all’ingresso di stranieri e le rigide norme nei commerci con l’estero.
Sebbene formalmente il potere risiedesse nelle mani dell’imperatore che sedeva
con la sua corte a Kyoto, di fatto esso era esercitato da un consiglio di
notabili: al vertice lo shogun, il generale Tokugawa Ieyasu, capo della casta
guerriera, che si avvaleva di suoi delegati per l’amministrazione dei
territori.
Nel frattempo, nonostante i valori guerrieri sembrassero ancora dominare la
società, i samurai – impiegati nell’amminstrazione dello shogunato – erano
lentamente in declino anche per il fatto di ricevere gli stipendi in riso, che
dovevano poi rivendere ai mercanti per ottenere monete spendibili. All’ultimo
livello di questo rigido sistema sociale si trovavano i contadini, che non si
trovavano affatto in buone condizioni dato che nell’ultimo secolo del governo
shogun si contarono almeno duemilacinquecento rivolte nelle campagne tutte
crudelmente represse.
Il commercio internazionale era inesistente o regolato da norme complesse e
contorte, mentre in Giappone valeva sempre la regola della più rigida autarchia
(‘sakoku’, termine con cui si indica il periodo, significa infatti ‘paese
chiuso’): l’unico paese occidentale di fatto autorizzato a commerciare erano i
Paesi Bassi nel solo porto di Nagasaki e per questo, battendo esclusivamente
bandiera olandese e su autorizzazione dei Paesi Bassi, pochi altri mercanti
avevano potuto concludere affari con il Giappone.
Perry e la
risposta giapponese
Prima di
Perry i pochi e isolati tentativi di contatto col Sol Levante erano finiti
male, o meglio a cannonate. Perry, d’intesa con il governo degli Stati Uniti,
organizzò una vera e propria spedizione con quattro navi, tra le quali un
vascello a vapore che impressionò particolarmente i giapponesi, tanto che da
quell’episodio in poi per designare le navi occidentali si disse le “navi
nere”.
Perry cercò subito un contatto con lo shogunato, ma rifiutò di andare a
Nagasaki, il solo porto consentito agli stranieri, minacciando un bombardamento
navale. Raggiunse così un altro porto nelle vicinanze, anche quasto interdetto,
e depositò infine la lettera da parte del presidente degli Stati Uniti Millard
Fillmore. Lasciò infine le coste giapponesi, promettendo tuttavia di ritornare.
Tornò davvero nel febbraio del 1854 – nel frattempo con una squadra navale più
forte – e questa volta trovò un trattato già pronto: la convenzione di Kanagava
conteneva tutte le richieste americane. Ad esso seguì un accordo con la Russia
e in breve altri convenzioni con Francia e Gran Bretagna.
Il trattato con gli Stati Uniti, negoziato da Perry con lo shogunato, ma non
con il potere imperiale, finì per irritare l’imperatore e l’alta aristocrazia
contro la casta militare e ben presto i feudatari e proprietari terrieri
ripristinarono la dinastia mettendo sul trono il quindicenne Meiji. Se gli
europei ebbero così libero accesso al mercato giapponese, è altrettanto vero
che cambiò anche una situazione politica stagnante che durava da secoli.
Le
conseguenze in Giappone
La
restaurazione imperiale fu definitiva dopo una sanguinosa guerra civile, ma il
Giappone nel breve volgere di pochi anni era passato dal medioevo al secolo
XIX, un salto che si rivelò tutt’altro che facile. Un importante fattore in
questo processo di trasformazione accelerata fu la fondazione nel 1858
dell’università di Keio secondo un’impostazione del tutto occidentale: alla
fine del secolo il Giappone ebbe così schiere di propri tecnici, medici,
insegnanti, dirigenti e anche alti ufficiali soprattutto di marina.
Al contrario di altri paesi extraeuropei, che sotto la minaccia del
colonialismo respinsero completamente i diversi modelli occidentali, i
giapponesi dimostrarono una notevole resilienza che – sorretta dal tradizionale
nazionalismo e dal senso di superorità sugli altri paesi asiatici – si
trasformò in una spinta imperialista e in una rincorsa con le potenze
occidentali.
Il primo paese asiatico a farne le spese fu la Cina: sconfitta dal Giappone nel
1894, la Cina dovette cedere una parte significativa della Corea, della
Manciuria e tutta l’isola di Formosa. L’altro grande paese sconfitto dai
giapponesi fu la Russia zarista nel 1905: per la prima volta in un secolo
dominato dall’Occidente colonialista un paese europeo fu infatti sconfitto sul
campo da uno asiatico.
La corsa del Giappone verso nuovi mercati e la disperatata ricerca di materie prime condussero però in ultima analisi alla sconfita nella Seconda guerra mondiale e al tragico epilogo nucleare.
Nessun commento:
Posta un commento