venerdì 8 agosto 2025

‘O compri o ti bombardo’: il commodoro Perry prima di Trump - Giovanni Punzo

 

L’8 luglio 1853 una squadra navale americana al comando del commodoro Matthew Perry si schierò nella rada di fronte ad Edo (l’antica capitale), oggi la baia di Tokyo. E ai rappresentanti dello ‘shogunato’, il consiglio di alti ufficiali e feudatari che governava il Giappone, consegnò un ultimatum: o l’apertura del paese ai commerci – primi quelli con gli Stati Uniti –, o il bombardamento navale.

La facile analogia con l’attualità

Benché oggi il gesto possa sembrare decisamente forzato, pensando alle diverse ritualità politiche del mondo 150 anni dopo, la guerra dei dazi di Trump sembra il logico seguito di quell’episodio. Gestito forse in maniera persino meno volgare. Peggio, le conseguenze della politica della forza. Un decennio prima, sconfiggendo la Cina nella prima ‘guerra dell’oppio’, la Gran Bretagna aveva in pratica assoggettato il paese asiatico e si era insediata saldamente ad Hong Kong creando uno snodo fondamentale per i proprii commerci. Iniziò anche l’ascesa del Giappone come potenza asiatica, l’Impero Nipponico che meno di un secolo dopo restituì agli Stati Uniti e al mondo la sua versione della potenza nazionalistica.

«Quando il 7 dicembre 1941 i giapponesi bombardarono la base americana di Pearl Harbor, non sappiamo quanti americani si siano ricordati della visita del commodoro Perry nella baia di Edo avvenuta meno di un secolo prima»

Il Giappone a metà Ottocento

Dagli inizi del XVII secolo alla metà dell’Ottocento il Giappone non era cambiato per nulla ed alcuni degli strumenti per fermare qualunque innovazione erano stati il divieto all’ingresso di stranieri e le rigide norme nei commerci con l’estero. Sebbene formalmente il potere risiedesse nelle mani dell’imperatore che sedeva con la sua corte a Kyoto, di fatto esso era esercitato da un consiglio di notabili: al vertice lo shogun, il generale Tokugawa Ieyasu, capo della casta guerriera, che si avvaleva di suoi delegati per l’amministrazione dei territori.
Nel frattempo, nonostante i valori guerrieri sembrassero ancora dominare la società, i samurai – impiegati nell’amminstrazione dello shogunato – erano lentamente in declino anche per il fatto di ricevere gli stipendi in riso, che dovevano poi rivendere ai mercanti per ottenere monete spendibili. All’ultimo livello di questo rigido sistema sociale si trovavano i contadini, che non si trovavano affatto in buone condizioni dato che nell’ultimo secolo del governo shogun si contarono almeno duemilacinquecento rivolte nelle campagne tutte crudelmente represse.
Il commercio internazionale era inesistente o regolato da norme complesse e contorte, mentre in Giappone valeva sempre la regola della più rigida autarchia (‘sakoku’, termine con cui si indica il periodo, significa infatti ‘paese chiuso’): l’unico paese occidentale di fatto autorizzato a commerciare erano i Paesi Bassi nel solo porto di Nagasaki e per questo, battendo esclusivamente bandiera olandese e su autorizzazione dei Paesi Bassi, pochi altri mercanti avevano potuto concludere affari con il Giappone.

Perry e la risposta giapponese

Prima di Perry i pochi e isolati tentativi di contatto col Sol Levante erano finiti male, o meglio a cannonate. Perry, d’intesa con il governo degli Stati Uniti, organizzò una vera e propria spedizione con quattro navi, tra le quali un vascello a vapore che impressionò particolarmente i giapponesi, tanto che da quell’episodio in poi per designare le navi occidentali si disse le “navi nere”.
Perry cercò subito un contatto con lo shogunato, ma rifiutò di andare a Nagasaki, il solo porto consentito agli stranieri, minacciando un bombardamento navale. Raggiunse così un altro porto nelle vicinanze, anche quasto interdetto, e depositò infine la lettera da parte del presidente degli Stati Uniti Millard Fillmore. Lasciò infine le coste giapponesi, promettendo tuttavia di ritornare.
Tornò davvero nel febbraio del 1854 – nel frattempo con una squadra navale più forte – e questa volta trovò un trattato già pronto: la convenzione di Kanagava conteneva tutte le richieste americane. Ad esso seguì un accordo con la Russia e in breve altri convenzioni con Francia e Gran Bretagna.
Il trattato con gli Stati Uniti, negoziato da Perry con lo shogunato, ma non con il potere imperiale, finì per irritare l’imperatore e l’alta aristocrazia contro la casta militare e ben presto i feudatari e proprietari terrieri ripristinarono la dinastia mettendo sul trono il quindicenne Meiji. Se gli europei ebbero così libero accesso al mercato giapponese, è altrettanto vero che cambiò anche una situazione politica stagnante che durava da secoli.

Le conseguenze in Giappone

La restaurazione imperiale fu definitiva dopo una sanguinosa guerra civile, ma il Giappone nel breve volgere di pochi anni era passato dal medioevo al secolo XIX, un salto che si rivelò tutt’altro che facile. Un importante fattore in questo processo di trasformazione accelerata fu la fondazione nel 1858 dell’università di Keio secondo un’impostazione del tutto occidentale: alla fine del secolo il Giappone ebbe così schiere di propri tecnici, medici, insegnanti, dirigenti e anche alti ufficiali soprattutto di marina.
Al contrario di altri paesi extraeuropei, che sotto la minaccia del colonialismo respinsero completamente i diversi modelli occidentali, i giapponesi dimostrarono una notevole resilienza che – sorretta dal tradizionale nazionalismo e dal senso di superorità sugli altri paesi asiatici – si trasformò in una spinta imperialista e in una rincorsa con le potenze occidentali.
Il primo paese asiatico a farne le spese fu la Cina: sconfitta dal Giappone nel 1894, la Cina dovette cedere una parte significativa della Corea, della Manciuria e tutta l’isola di Formosa. L’altro grande paese sconfitto dai giapponesi fu la Russia zarista nel 1905: per la prima volta in un secolo dominato dall’Occidente colonialista un paese europeo fu infatti sconfitto sul campo da uno asiatico.

La corsa del Giappone verso nuovi mercati e la disperatata ricerca di materie prime condussero però in ultima analisi alla sconfita nella Seconda guerra mondiale e al tragico epilogo nucleare.

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