(Redazione Clarissa)
Destabilizzare
l’ordine pubblico, creando insicurezza e paura, è una strategia dimostratasi vincente,
quando è rivolta a spingere l’opinione pubblica a raccogliersi per reazione
intorno allo Stato, dando così stabilità e continuità alle istituzioni di un
regime.
Nel caso
dell’Italia, la strategia della tensione ha pienamente ottenuto il risultato
che si prefiggeva, che non era quello di sovvertire le istituzioni, ma al
contrario di perpetuarle nella loro forma, nonostante la pochezza delle nostre
classi dirigenti e la loro endemica corruzione, per assicurare l’allineamento
dell’Italia al mondo occidentale atlantico ad egemonia
anglosassone.
Chi ha
attuato questa strategia, attraverso stragi, terrorismo e depistaggi,
sfruttando una manovalanza volta a volta nera, rossa, delinquenziale, mafiosa,
può oggi rivendicare una piena vittoria: quel sistema politico, che sembrava
ricorrentemente sul punto di collassare, governa ancora oggi l’Italia.
Dimostrazione
di questo fatto, di cui purtroppo non vi è ancora una consapevolezza
collettiva, nonostante l’impegno profuso da storici di valore e da magistrati
onesti, è nelle parole che in queste ore, in occasione del quarantacinquesimo
anniversario della strage del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di
Bologna, hanno enunciato i massimi esponenti delle istituzioni e dei partiti
italiani: affermazioni tutte che convergono nell’allontanare il nostro popolo
dalla verità.
Una verità
che, se diventasse coscienza di popolo, toglierebbe di per se stessa ogni legittimità alla
classe dirigente al potere nel nostro Paese.
La parola ai
politici
Dal vertice
dello Stato viene ripetuta per l’ennesima volta, la comoda
favoletta del disegno eversivo “neofascista”, nonostante migliaia di pagine di
atti giudiziari mostrino in tutte le più sanguinose vicende italiane, compresa
la strage di Bologna, l’intervento massiccio e incontrastato di organismi dello
Stato, pienamente in grado di infiltrarsi e manovrare esecutori, controllare
indagini, indirizzarle o deviarle, attuando quindi una vera e propria regia di
questi eventi, operando poi per un’accurata e costante copertura della verità.
Dal vertice
della destra al governo si toglie invece l’aggettivazione “neofascista”: anche
in questo caso non certo per amore della verità, né per affermare la
responsabilità degli apparati dello Stato democratico e antifascista nelle
stragi.
Troppo
ampiamente è documentata infatti la collaborazione che la destra italiana,
di ogni partito e di ogni sfumatura, ha prestato costantemente agli apparati di
sicurezza atlantico, statunitense, britannico, NATO: apparati che hanno
sfruttato a fondo questa servile dipendenza.
Il silenzio
su queste verità è ciò che ha consentito a questa destra, nel corso degli
ultimi decenni, di uscire dall’emarginazione in cui era confinata per diventare
forza di governo, redenta dalle ripetute affermazioni di antifascismo, insieme
al perpetuarsi del suo pieno allineamento ai desiderata statunitensi,
atlantici, e da ultimo israeliani.
Penosa
infine la farsa ancora recitata dalla sinistra italiana.
Quella sinistra che negli anni della strategia della tensione, negli anni di
piombo, ha continuato, come continua ancora a fare, a parlare di eversione
neofascista: mentre i suoi vertici ed i suoi apparati di informazione erano
pienamente consapevoli che quanto accadeva nel nostro Paese era frutto di un
concorde impegno statunitense e sovietico affinché l’Italia restasse
stabilmente nel campo occidentale.
Per tale
ragione la sinistra doveva tacere sulla vera matrice dei sanguinosi eventi che
sono avvenuti nel Paese; per poi rinunciare via via anche alle proprie velleità
rivoluzionarie. Doppio inganno a quegli elettori di convinzione comunista che
per anni hanno continuato a votare e a scendere in piazza dietro stinte
bandiere rosse.
Questo
tradimento di ideali ha però consentito il pieno ingresso nell’area di governo
anche al partito comunista: fino alla sua completa dissoluzione in un’ibrida
entità simil-democristiana, la cui identità, a parte ovviamente la retorica
antifascista, appare inconsistente.
La verità
storica
Ben venga
quindi la lettura pubblica degli atti giudiziari, invocata dalle associazioni
dei familiari delle vittime: purché si leggano con accanto libri di storia,
documenti pubblicati dai governi cosiddetti alleati, studi di chi ha saputo
collegare quei documenti ai fatti di casa nostra.
Per questo,
per pura volontà di verità, la sola che ci anima, ci permettiamo di riprodurre,
a distanza di cinque anni, un articolo qui pubblicato in occasione dei
quarant’anni dal 2 agosto 1980: lo riproponiamo per coloro che magari non
leggevano ancora clarissa.it, ma soprattutto perché, come tutte le analisi
lucide e documentate, non ha perso una virgola della sua attualità, dato che
espone i fatti nella loro evidenza. Ci auguriamo che tutti lo leggano.
Bologna 2
agosto 1980: la memoria non basta
di Ga. Si.
Quaranta
anni dopo, ricordare la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 ha
senso solo se sappiamo dare a questo assassinio di nostri innocenti
concittadini un significato per l’Italia: ma dargli un significato è possibile
solo se arriviamo a comprendere perché esso è avvenuto.
Verità e
memoria
Il mero
esercizio della memoria, di cui ci si riempie la bocca in ogni occasione, non
basta e non serve, se è disgiunto dalla verità: parliamo per prima cosa di una
verità storica, poiché quella giudiziaria non potrà mai più essere sufficiente,
dato il tempo trascorso. Il fatto che non si sia arrivati per tempo ad una
completa verità giudiziaria fa parte di questa verità storica, che anche per
questo è l’obiettivo primario da raggiungere.
Altrimenti
l’esercizio della memoria diventa sterile rituale, del quale col tempo non sarà
più possibile far comprendere il valore a chi non ha vissuto le ore di quei
giorni, e le menzogne raccontate in tutti questi anni.
Senza verità
la memoria diventa ipocrisia, soprattutto quando a celebrare questa memoria
sono gli uomini di una classe dirigente interrottamente al potere da ben prima
di allora fino ad oggi, al di là dei cambiamenti di nomi e di sigle di partito:
la stessa classe dirigente che non ha mai aperto i cassetti in cui si sarebbero
potuto trovare almeno spezzoni di quella verità.
Quanto hanno
detto in proposito i familiari delle vittime nelle ultime ore è assai
istruttivo: le grandi promesse del premier Renzi di aprire gli archivi nel 2014
si sono dimostrate l’ennesimo bluff, poiché i documenti venuti fuori si sono
oramai dimostrati ben poco utili.
In realtà se
lavoriamo seriamente, alla maniera di un Vincenzo Vinciguerra,
di un Guido Salvini, di un Aldo Giannuli, su
quanto sappiamo, ricostruire una verità storica è possibile: a condizione che
non ci siano partiti da difendere, scheletri negli armadi da nascondere, comodi
slogan da riaffermare.
Il primo
inganno purtroppo è scritto nella lapide eretta a Bologna, dove si parla di
“strage fascista”. Cioè si adopra, come etichetta che copre tutto, l’utile
fantasma di una storia tragicamente conclusasi nell’aprile del ’45. Poiché
oramai gli studi più seri sulla strategia della tensione confermano,
con dovizia di documenti e di accurate ricostruzioni, che l’estremismo di
destra italiano non è nato per ridestare né il fascismo regime né il fascismo
repubblichino.
Si è
trattato, fatta salva doverosamente la buona fede di quei tanti giovani che vi
hanno lealmente militato, di uno strumento utilizzato dal mondo atlantico con
due obiettivi primari: primo, fermare la diffusione del comunismo in occidente;
secondo, impedire che si affermassero tendenza neutraliste nei Paesi inseriti
in uno dei blocchi.
Questo è il
senso storico di quanto per primo Vincenzo Vinciguerra nel
1989 illustrò con dovizia di riferimenti, accresciutisi e mai smentiti nel
tempo, in Ergastolo per la libertà, il concetto del “destabilizzare per stabilizzare”: che potremmo anche
tradurre, con un’espressione ben nota ai circoli che contano del potere
internazionale mondiale, ex Chaos Ordo, dal caos l’ordine.
Federico
Umberto D’Amato, servitore atlantico
Continuare a
parlare di “stragi fasciste” è dunque il primo attacco alla verità.
Il coraggio
di cambiare questo aggettivo spetta oggi ai familiari delle vittime,
soprattutto ora che emerge dalle carte processuali un nome che è sufficiente a
confermare nella maniera più flagrante possibile l’esattezza
dell’interpretazione “dal caos l’ordine” della strategia stragista: quello
di Federico Umberto D’Amato.
Ci
soffermeremo quindi un poco su questo personaggio. Questo super-poliziotto
nasce il 4 giugno 1919 a Marsiglia, da genitori socialisti.
Entrato in
polizia, l’8 settembre ‘43 è vice-questore aggiunto a Roma: “riuscii a
penetrare la più vasta rete di spionaggio militare dei tedeschi in Italia in
modo che già nelle prime ore del 4 giugno [1944, data di entrata degli Alleati
a Roma] e nei giorni successivi fui in grado di arrestare decine di spie dei
tedeschi” – racconta lui stesso.
Nell’aprile
1944, aveva infatti reclutato Luigi Danese, un italiano
entrato a far parte di un’organizzazione spionistica tedesca in Italia, il
quale diventerà un suo fedele collaboratore anche nel dopoguerra.
Luglio 1944,
D’Amato dirige in Campania e in Puglia una nuova operazione di
controspionaggio, che porta all’arresto di Arturo Cembi, che a
Napoli operava a favore della Rsi: il maresciallo Cembi decide di collaborare,
e rilascia così a D’Amato un elenco di trecento nomi di collaboratori dell’Abwehr,
ciò che permette a D’Amato di eliminare la rete filo-tedesca nel Sud Italia.
D’Amato,
forte di questo eccellente risultato spionistico, entra in contatto con Jesus James Angleton, figura di spicco dell’OSS in
Italia, probabilmente nel novembre 1944:
«Jesus James
Angleton [su ordine dell’ammiraglio Usa Stone, responsabile militare
dell’Italia occupata], incaricò un nucleo dei suoi fidati agenti (italiani e
statunitensi) di recarsi segretamente nei territori di Salò per prendere
contatto con Guido Leto, ormai divenuto il
maggiore dirigente Ovra nella Rsi. (…) Tra gli uomini che vennero scelti da
Angleton per questa missione si trovava [oltre al capitano di vascello Carlo Resio, dei servizi segreti della Marina italiana
del Sud] anche il giovane commissario di nome Federico Umberto D’Amato, fin da
allora in strettissimo contatto con i servizi americani. (…) Leto, dopo il 25
luglio 1943, avvicinò segretamente alcuni ufficiali statunitensi (tra cui il
colonnello Bay e il capitano Baker), facendo loro sapere di essere disposto a
fornire all’Oss l’intero archivio dell’Ovra, composto da oltre seimila
documenti che teneva gelosamente custoditi in quel di Valdagno (sede del
Dipartimento di pubblica sicurezza della Repubblica di Salò), nonché a Venezia
e Vobarno. Il 26 aprile 1945, poi, si pose ufficialmente a disposizione del Cln
con il quale, leggiamo, collaborava clandestinamente da alcuni mesi» (G.
Pacini, Il cuore occulto del potere, Nutrimenti, Roma, 2010, p.
31.)
Non si
tratta solo del già goloso boccone dei seimila documenti, mai resi pubblici
dalla Repubblica democratica e anti-fascista: si tratta del ben più articolato
e complesso Plan Ivy, un’operazione
politico-spionistica di fondamentale importanza per comprendere quello che
sarebbe poi accaduto in Italia nell’immediato dopoguerra.
È l’attiva
partecipazione ad essa che giustifica e fonda la brillante carriera di Federico
Umberto D’Amato, la base del suo potere, in quanto D’Amato, come attestano
alcuni documenti d’archivio americani, coinvolge nell’operazione, grazie ai
suoi contatti, numerosi dirigenti della polizia che stanno al Nord, pur non
essendo affatto di sentimenti repubblichini.
I meriti
così acquisiti lo collocano in una posizione chiave proprio nel pieno della
riorganizzazione dei servizi segreti italiani, che si verifica in totale
dipendenza dai desiderata alleati:
«In un
messaggio segreto inviato il 10 febbraio 1949 dall’ambasciatore americano in
Italia al Dipartimento di Stato Usa, si legge che «l’Italia sta istituendo
un’organizzazione di polizia segreta anticomunista sotto il ministro
dell’Interno con elementi dell’ex polizia segreta fascista». Uno dei primi
agenti di questa organizzazione sarà Costantino Digilio» (G. Ferraro, Enciclopedia
dello spionaggio, voce James Jesus Angleton, p. 37). Capiamo meglio ora
quanto fossero fascisti questi funzionari di polizia, messisi a disposizione
per il doppio gioco richiesto dal Plan Ivy.
Nel 1952 un
altro passo importante: D’Amato è collocato alla guida dell’Ufficio Politico
della Questura di Roma, dunque della capitale d’Italia, nel cuore del potere
democratico e antifascista.
Nel 1957, a
seguito di un contrasto con Tambroni, si noti,
di cui sono ad oggi ignote le ragioni, viene trasferito a Firenze, alla squadra
buon costume. Un capitolo da approfondire, ma che denota una caratteristica
fondamentale di D’Amato: sapere scegliere il cavallo vincente. Tambroni non lo
era, come si vide ben presto.
Non a caso,
nel novembre 1960, si noti, dopo i fatti di Genova, che segnano la fine
politica di Tambroni, il balzo decisivo: passa all’Ufficio Affari Riservati del
Viminale. Qui, dopo che il 22 febbraio 1962 Paolo Emilio Taviani è
diventato Ministro degli Interni, è sempre D’Amato che, nel settembre 1962,
gestisce una delicatissima missione segreta in relazione al fermo dell’ex
premier francese Georges Bidault, uno dei capi dell’OAS,
fermato in Italia e poi fatto uscire in Svizzera, ovviamente senza informare la
magistratura italiana.
Chi conosce
il quadro internazionale di quel momento, i delicati rapporti con la Francia impegnata nella guerra d’Algeria e poi
nella lotta contro il terrorismo dell’OAS, e il rilievo
che quest’ultima ha avuto nell’influenzare l’estrema destra italiana, capirà
bene che anche in questa occasione è D’Amato il master mind, non
certo la vittima di una strumentalizzazione!
Dicembre
1963, governo di centro-sinistra, primo ministro Aldo Moro: D’Amato diventa
capo della sesta sezione dell’Ufficio Affari Riservati, con il compito di
coordinamento delle squadre periferiche e con il centro intercettazioni di Monterotondo, all’avanguardia
per quei tempi. Stiamo parlando del controllo di tutte le comunicazioni che
interessavano al Ministro degli Interni. Siamo nel pieno della formazione del
nuovo centro-sinistra, passaggio delicatissimo per la conservazione del
sistema, per “cambiare tutto in modo che non cambi nulla”.
1965, su
indicazione di Taviani, pilastro dell’antifascismo democristiano e atlantico,
D’Amato diviene il rappresentante italiano, unico civile, nel cosiddetto Ufficio sicurezza interna del Patto Atlantico (Uspa),
abilitato alla concessione dei Nulla Osta Sicurezza (Nos) in Italia. In
seguito, in data da individuare, divenne anche capo della delegazione italiana
presso il Comitato di Sicurezza della Nato. Ecco D’Amato diventare niente meno
che il fiduciario della Nato per la sicurezza in Italia.
Dato il
livello di questo incarico, dato il passato bellico di D’Amato, dato il suo
ruolo nell’Uar, dobbiamo considerarlo se non l’effettivo numero uno, almeno il
numero due di questo servizio, ma solo perché nel settembre 1968, Elvio Catenacci, ex questore di Venezia, diventa
direttore dello Uar, con D’Amato suo vice.
Fine anni
Sessanta: D’Amato è il promotore, promotore si noti, della creazione del
cosiddetto Club di Berna, organismo di
coordinamento di tutte le polizie europee. È lui che parla quindi di intelligence
non solo con la Nato ma anche con i servizi segreti civili di tutta l’Europa
occidentale, e con quelli nordamericani.
Meriterebbe
capire come, con quali motivazioni, intese, supporti politici, D’Amato riesca
brillantemente in questa fondamentale operazione, che è politica prima che
poliziesca, e coinvolge un Paese di cui si parla poco, ma che è fondamentale
per capire le dinamiche della sicurezza in Europa, la Svizzera, cuore pulsante del capitalismo finanziario
internazionale, centro spionistico fondamentale durante le due guerre mondiali.
Da recenti
acquisizioni di una brillante studiosa elvetica (Aviva Guttmann),
sappiamo che il Club di Berna, operando dietro determinante impulso tecnico e
politico dei servizi segreti dello Stato di Israele, ha
di fatto dettato la linea, tuttora vigente, dell’anti-terrorismo europeo.
D’Amato era lì, nei furenti anni Settanta, e oltre.
Febbraio
1969. D’Amato stila un appunto, interamente dedicato alla questione dei
movimenti della sinistra extra-parlamentare in Europa, a margine di un incontro
del Club di Berna nel quale i rappresentanti tedeschi hanno avanzato il
sospetto che la loro origine sia in operazioni dei servizi segreti
nordamericani (Pacini, cit., p. 86).
Questa è una
prova regina, che conferma il ruolo di D’Amato nella ben nota operazione “manifesti cinesi”, la cui importanza è stata per la
prima volta rilevata da Vincenzo Vinciguerra. Fondamentale: uno, per i rapporti
con Mario Tedeschi, cui fanno adesso riferimento i magistrati di Bologna
indicandolo tra i mandanti nell’ultima inchiesta sulla strage del 2 agosto;
due, per i rapporti con l’estrema destra di Ordine Nuovo e Avanguardia
Nazionale, che forniscono in questa operazione la manovalanza. Prova mai
smentita del fatto che è D’Amato a dare carne e sangue al delicato,
rischiosissimo ma fondamentale gioco delle stragi, da una parte; e, dall’altra,
dell’extra-parlamentarismo di sinistra, poi evolutosi in “partito armato”, con
tutto quello che ne è derivato.
Giugno 1969:
decreto del Consiglio dei Ministri di riordino dello Uar, che, diviso, diventa
Sigop (servizio informazioni generali e ordine pubblico), a sua volta ripartito
in Siig (sicurezza interna e informazioni generali) guidato da D’Amato, e Dops
(divisione ordine pubblico e ufficio stranieri), affidata a Antonio Troisi e
Mauro Saviani. Siamo nel pieno della stagione della strategia della tensione,
D’Amato mantiene la posizione chiave che gli permette un’operatività globale
nel nostro Paese.
Agosto
1970, Elvio Catenacci diventa
capo della Polizia: Sigop passa a Ariberto Vigevani,
già capo dell’ufficio politico della questura di Milano.
Novembre
1971, Sigop viene sciolto e le due divisioni diventano autonome. La Dops cambia
nome in Sops (Servizio Ordine pubblico e stranieri); la Siig diventa Sigsi (Servizio
informazioni generali e sicurezza interna), dove, si noti, resta D’Amato.
Sorge
spontanea la domanda: perché questi cambiamenti nel pieno del periodo delle
stragi e dei “golpe”? Qualcuno ha approfondito questa dinamica? Ma intanto
D’Amato resta al comando.
Il fatto che
D’Amato lavori su tutte e due i fronti degli opposti estremismi, in funzione di
provocazione, è confermato, nel 1975, dalla proposta che D’Amato fa, chissà
perché, ad Adriano Sofri di uccidere membri dei Nap. Dell’incontro con D’Amato
a casa di Sofri, quest’ultimo darà notizia in due articoli del 26 e del 28
maggio 2007, su Il Foglio!
A fine anni
Settanta, al militante di Lotta Continua Alberto Capriotti viene
trovato il numero di telefono diretto di D’Amato, compreso quello di casa: Capriotti
era stato denunciato nel 1969 per avere dato rifugio a Marco Pisetta, infiltrato nelle Brigate Rosse.
Bene, perché
annoiare il lettore con questo breve profilo biografico?
Perché non
vi è persona dotata di semplice e puro buon senso che, letta una simile
biografia, possa pensare che è il superpoliziotto D’Amato ad essere
strumentalizzato da presunti neo-fascisti. Sembra evidente esattamente il
contrario: un esercizio professionale cui tutti i poliziotti di un certo
rilievo degli Stati moderni, a partire dall’Ochrana zarista, si
sono dovuti dedicare: infiltrazione, provocazione, strumentalizzazione dei
movimenti antagonisti rispetto allo Stato di cui è al servizio.
Questo è il
lavoro, se vogliamo lo sporco lavoro, dei D’Amato, oggi come allora. Serve a
questo, in età contemporanea: come avvenuto negli Usa con la strage di Haymarket (Chicago, 1° maggio 1886) o in
Russia con l’uccisione del primo ministro Stolypin (Kiev,
18 settembre 1911), per consolidare un potere minacciato di cambiamento.
Neutralizzando gli anarchici americani, nel caso di Haymarket; impedendo le
radicali riforme al potere del latifondo nella Russia zarista, nel caso di
Stolypin. In entrambi i casi, operazioni di difesa del sistema. Questo il
lavoro demandato ai D’Amato, la base anche del loro potere, i veri pretoriani
degli Stati moderni, compresi quelli democratici.
Licio Gelli, un “redento”
Anche su
Licio Gelli pensiamo sia tempo di valorizzare acquisizioni storiografiche che
forte e chiaro ci parlano di un fascista di quelli che, in molti casi per
salvare la pelle, sono stati da taluno chiamati “i redenti”, vale a dire coloro
che hanno opportunamente voltato gabbana: avvenne nel 1944, rendendo possibile
con la sua presenza in divisa da repubblichino la liberazione dal carcere di un
gruppo di partigiani arrestati a Pistoia.
Licio Gelli
avrebbe dato più di una volta un concreto aiuto alle formazioni partigiane: per
questa ragione, secondo alcuni, nell’estate del 1944 sarebbe stato costretto a
nascondersi per paura di rappresaglie dei tedeschi o dei fascisti. Ma leggiamo.
«1. Licio
Gelli, nel luglio del 1944, si era fatto partigiano nella “Gugliano”, una
piccola formazione che operava tra la Torbecchia e il Vincio di Montagnana, a
un tiro di schioppo dal luogo dove Scripilliti fu ucciso;
2. Gelli e
la sua formazione erano in contatto con alcuni dirigenti comunisti.
Infatti, Giuseppe Corsini (dirigente del Pci e, nel
dopoguerra, sindaco di Pistoia e senatore) dichiarò:
“[Scoperto]
del suo doppio gioco e taglionato, fu incaricato di reclutare e organizzare
delle squadre Partigiane. Infatti il Gelli operava sotto la sigla G.U. [la
formazione “Gugliano” -. N.d.A] nei pressi di Pian di Casale-Ponte S. Giuseppe
(…)
Italo
Carobbi (dirigente
comunista e presidente del Comitato Pistoiese di Liberazione Nazionale), a sua
volta, il 20 maggio 1946 concludeva una sua dichiarazione al PM presso la
Sezione speciale di Corte d’Assise di Pistoia, Umberto Petrucci, riferendo che
Gelli, dopo il 21 giugno 1944 (data dell’azione alle Ville Sbertoli compiuta
dalla “Silvano Fedi” con l’aiuto di Gelli), scoperto e con sulla testa una
taglia di 150.000 lire [sic]: […] dovette allontanarsi e da allora, verso la
fine di luglio, andò ad assumere il comando di una formazione partigiana in
montagna. Alla Questura di Pistoia e alle altre autorità tutto questo non
risulta perché gli accordi intercorsi tra noi sono stati tenuti sempre segreti.
(I. Aiardi, R. Aiardi, Agguato a Montechiaro – Considerazioni
sulla morte del comandante partigiano Silvano Fedi, Centro Documentazione
di Pistoia, 2014, passim).
Tutto questo
gli avrebbe valso in prima battuta la copertura del Partito Comunista che, nell’ottobre del ’44 e poi
nel febbraio ’45, rilascia a Gelli un’attestazione della sua attiva
collaborazione con i partigiani, confermata anche dal giornale del Cln
pistoiese nel ’45.
Riparato a
Roma con mezzi forniti dal Cln, si sposta a la Maddalena in Sardegna presso la
sorella ed il cognato, sottufficiale di marina, sotto sorveglianza dei
carabinieri, il 24 gennaio 1945.
Arrestato
dai carabinieri nel settembre ’45, su denuncia del figlio di un collaboratore
dei partigiani, è detenuto prima a Sassari e poi a Cagliari, e qui, negli
interrogatori a suo carico, avrebbe fatto i nomi dei collaborazionisti
repubblichini da lui conosciuti, a suo dire per proteggerli dalla furia
popolare.
Rilasciato
in libertà provvisoria, nuovamente arrestato, su denuncia di un ufficiale
dell’aviazione per aver organizzato rastrellamenti di prigionieri inglesi,
durante la detenzione a Roma conosce il principe Junio Valerio Borghese.
Le accuse
contro di lui si ridimensionano, e nel 1947 si trova libero da qualsiasi
addebito penale e ottiene il passaporto.
Riprende
l’attività politica con orientamento monarchico, in vista del referendum, e
diventa segretario provinciale del Partito Nazionale del Lavoro. Da qui,
seguendo la traiettoria di molti ex-fascisti, lo spostamento finale a favore
della Democrazia Cristiana:
«Nel 1948,
alla vigilia delle elezioni politiche, in un clima di acceso anticomunismo,
iniziò a lavorare per Romolo Diecidue che
era candidato per la circoscrizione Firenze-Pistoia, nelle liste della
Democrazia cristiana, e aveva il suo bacino elettorale in Valdinievole.
Diecidue, romano di origine e preside di scuola media superiore nella città
termale, era stato presidente del Cln di Montecatini: dopo avere militato nella
Dc, sarebbe passato ai demoliberali filo-monarchici. La collaborazione tra i
due durò per circa un decennio» (M. Francini, “Il periodo pistoiese di Licio
Gelli”, Quaderni di Farestoria, Anno XI, 1, Gennaio-Aprile 2009, p.
50 e ss.).
Perché
dunque continuare a parlare di Gelli come di un nostalgico neo-fascista e non
classificarlo, come si è fatto per intellettuali di chiara fama, come
“redento”, oramai conquistato alla causa della democrazia, tanto da iniziare
una brillante carriera come “faccendiere”, che, grazie al supporto
massonico-cattolico, lo avrebbe portato a far parte di un centro di potere come
la Loggia P2?
Ci
limitiamo, per chi ancora non la conoscesse, a consigliare la lettura di
quel Piano di Rinascita Democratica, ritrovato a Gelli nel 1981
quando scoppia l’affaire P2, ma sicuramente
risalente alla fine degli anni Settanta. Lo si ponga poi accanto al celebre
testo di M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of
Democracy, Report on the Governability of Democracies to the Trilateral
Commission, New York University Press, 1975. Confrontando i due testi,
chiunque può rendersi conto che il documento attribuito alla P2 non è altro che
l’adattamento politico al contesto italiano di un progetto di ben più vaste
dimensioni, in atto nell’Occidente capitalista a fine anni Settanta, in vista
della riorganizzazione dei sistemi a democrazia parlamentare col vittorioso
procedere della mondializzazione nel segno del liberismo economico-finanziario.
Fascisti
questi? Neo-fascisti anche quelli della Trilateral? Fior di democratici, magari
di una democrazia diversa da come la intendeva Mazzini: ma sono gli uomini e e
le forze che hanno combattuto e vinto la guerra contro il fascismo. Gelli e la
P2 stavano dalla loro parte.
E la strage di Bologna?
Probabilmente
la strage di Bologna non è una strage come quelle degli anni Sessanta e
Settanta. Non rientra nella sanguinosa routine del “destabilizzare per
stabilizzare”, in quanto non si collega probabilmente ad un tentativo golpista,
più o meno gestito strumentalmente, come nel caso dei vari golpe Borghese e dei
golpe “bianchi”.
Crediamo che
anche in questo caso, Vinciguerra stia in questi mesi fornendo sul suo
blog I Volti di Giano la chiave di lettura più credibile, a sostegno
della quale egli, come sempre, fornisce un’articolata analisi di elementi
finora mai valorizzati in questo senso.
La strage
del 2 agosto probabilmente nasce quindi come un’estrema operazione di copertura
per impedire la verità sulla strage di Ustica. Su questa questione vedremo cosa
accadrà nei prossimi mesi, visto che già qualcuno rispolvera palestinesi e
libici, come già fecero i servizi israeliani subito dopo la strage, nell’agosto
del 1980.
Se, come
pensiamo, strage copre strage, il movente è sufficientemente chiaro e grave per
spiegare l’eccezionalità di Bologna. Una verità che, se fosse stata conosciuta
all’epoca, avrebbe portato alla luce la presenza di qualcosa come 21 velivoli da combattimento nei cieli estivi
d’Italia, uno scenario di guerra non dichiarata di cui il nostro Paese fu e
rimane all’oscuro – se tutto questo fosse venuto alla luce allora, nonostante
il Pci avesse da poco aperto alla Nato, probabilmente l’indignazione popolare
avrebbe travolto la classe dirigente italiana, avrebbe rimesso in discussione
la presenza dell’Italia nella Nato, proprio in un momento critico per il
confronto fra i blocchi, come fu quello che seguì ai molti eventi epocali del
1979, dall’invasione dell’Afghanistan alla rivoluzione khomeinista in Iran.
Ricordiamoci
cosa avvenne a Milano e Roma all’inizio di Mani Pulite: Craxi in fuga fra lanci
di monetine. Ricordiamoci cosa avvenne a Palermo ai funerali di Borsellino: un
presidente della Repubblica in fuga, inseguito dalla folla inferocita.
Cosa sarebbe
accaduto, nel mentre infuriavano ancora le uccisioni delle Br, se si fosse
scoperto quello che nessuno ha ancora il coraggio di ammettere, vale a dire che
l’Italia è stata ed è su di una linea di guerra, dopo la perdita della sua
sovranità nazionale con lo sfascio dell’8 settembre? Non c’era antifascismo che
potesse reggere: i politici di allora sarebbero stati cacciati a furor di
popolo, come del resto meritavano.
Per questo
D’Amato e altri con lui mettono in moto un meccanismo ben collaudato, che porta
al massacro della stazione del 2 agosto: non per una strategia del terrore
“fascista”, che non trova addentellati nella realtà, ma per la solita strategia
di difesa dello Stato democratico e antifascista; ma usando manovalanza pescata
nei vivaio tenuto in vita nell’estrema destra, a furia di infiltrazioni e di
attacchi mirati a creare ragazzini pronti a tutto. Un domani sempre
scaricabili, quindi, o eliminabili.
Ragazzini
che, oggi diventati uomini, tacciono perché sanno di essere stati parte di un
gioco troppo più grande di loro, come hanno taciuto i Freda, i Ventura,
eccetera, eccetera. Pagano così il prezzo per la loro libertà e per la loro
sopravvivenza fisica.
Guardiani della memoria
L’Italia non
ha bisogno di guardiani della memoria, che vengano a ripetere i vecchi slogan a
base di antifascismo e di un atlantismo che la caduta del Muro di Berlino
avrebbe dovuto seppellire.
I segreti
dietro le stragi, compresa quella di Ustica, di Bologna, e le altre che le
hanno seguite, sono sempre stati noti ai vertici della classe politica,
militare e poliziesca italiana, comprese le forze della cosiddetta opposizione,
poi divenute anch’essa forze di governo, senza che nulla sia mutato in termini
di verità sui “misteri” italiani.
Come
giustamente ha sottolineato Vinciguerra, non ci sono “misteri”, ci sono
“segreti”: di questi segreti è tuttora detentrice la classe dirigente del Paese.
Da loro è
però oramai vano aspettarsi la verità, cosa questa che forse i familiari delle
vittime non hanno ancora capito.
Eppure
questa verità, grazie al sacrificio personale di qualcuno, al coraggio di
pochi, all’onestà di altri, mai come ora è straordinariamente vicina.
I familiari
delle vittime hanno compreso l’importanza del momento e comprensibilmente
chiedono la vicinanza del Paese. Questa vicinanza noi la testimoniamo qui con
queste poche righe, sperando di contribuire alla verità che le 81 vittime, i
cui nomi sono incisi sulla lapide di Bologna, attendono da quarant’anni.
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