(di Sabrina di Carlo e Joshua Evangelista)
Zaki,
tutto è cominciato con il tuo arresto, il 7 febbraio del 2020…
Allora e
ormai da 10 anni stavo lavorando nel campo dei diritti umani. La situazione in
quel momento era veramente terribile in Egitto. Mi sono preparato come al
solito, perché avevo viaggiato molto negli ultimi 10 anni, e non mi avevano mai
fermato. Mi avevano monitorato, avevo ricevuto chiamate per minacciarmi rispetto
al mio lavoro, ma non erano mai arrivati al punto di arrestarmi. Anche per
questo ho deciso di tornare. Quando, una volta atterrato, sono arrivato ai
controlli, mi hanno fermato e mi hanno chiesto: «Il tuo nome è Patrick?». Non
ci sono migliaia di Patrick in Egitto e lì ho capito che sarebbe successo
qualcosa. Ho avuto qualche secondo per avvisare la mia famiglia e poi sono
stato sequestrato da un ufficiale dell’intelligence e mi hanno portato in una
stanza all’interno dell’aeroporto per interrogarmi: mi hanno fatto delle
domande per circa 24 ore. Lì ho subito violenza e non mi hanno fatto dormire;
poi mi hanno portato all’esterno dell’aeroporto in una delle strutture dell’intelligence, mi hanno
bendato, utilizzato l’elettricità per torturarmi, sottoposto a umiliazioni
fisiche e psicologiche. Sono sparito per 36 ore prima di apparire davanti alla
prima investigazione ufficiale. Non troppo tempo, grazie alla pressione fatta
dalle persone, a cominciare dall’Università di Bologna, che erano scese in
piazza in Italia per chiedere la mia libertà. Queste persone mi hanno salvato
la vita, perché in Egitto alcuni spariscono per 9-10 anni e nessuno sa dove
sono. Cercavo di stare calmo, di risparmiare energia, perché ho documentato per
tanti anni casi di fermo in aeroporto, casi di tortura e quindi la mia mente
cercava di ripassare i casi che avevo studiato per capire come potevo
cavarmela. Poi mi hanno messo in una macchina, mi hanno ammanettato e
nuovamente bendato e mi hanno messo in una piccola stanza per tre ore. Ero
spaventato. In Egitto sai quando entri in prigione ma chissà quando ne uscirai:
tra 5 o 10 anni? E perché mi hanno fermato, quale sarà l’accusa per cui mi
manderanno in carcere? Forse per il mio lavoro, il mio essere un difensore dei
diritti umani?
La prigione
è un luogo fisico, ma è anche un luogo mentale. Come hai vissuto la
detenzione?
La tortura
psicologica è stata sicuramente quella più dura. Ovviamente ho subìto anche
torture fisiche, però dopo un po’ le ferite guariscono, il dolore passa, mentre
è più difficile superare la tortura psicologica. Prima sono stato messo in una
cella da solo, poi con un’altra persona e poi alcune volte mi hanno rimesso di
nuovo da solo. Quella è stata la parte più dura del carcere e l’esperienza più
difficile da immaginare: non puoi parlare con nessuno, hai solo la tua mente,
spesso ci litighi, hai tante domande, nessuna risposta. Una delle cose più
terribili che ho visto sono le persone impazzite. Alcune non riescono a
resistere all’interno della cella per 23 ore al giorno, senza accesso alla luce
del sole. La prima prigione in cui sono entrato era quella di Mansura, il luogo
dove sono cresciuto, e qui ero in cella con un ragazzo di 18 anni. Il primo
giorno, mentre stavo andando a dormire, l’ho sentito parlare ma era voltato
verso il muro e mi sono sorpreso, non capivo se stesse parlando con me, poi ho
scoperto che c’erano alcuni disegni sul muro e che lui stava parlando con quei
disegni che aveva fatto perché non aveva avuto nessun compagno di cella
nell’ultimo anno. Resistere in queste condizioni, nella prigione in Egitto, tra
le peggiori del mondo, resistere per due anni e uscire, sopravvivere, è stato
un miracolo. A volte sono stato davvero giù. Pensavo che non volevo svegliarmi
il giorno successivo, volevo solo che tutto finisse… Per affrontare tutto ciò
cercavo di farmi una routine all’interno della prigione: mi
svegliavo, lavavo i vestiti ogni giorno, cercavo di tenere pulita la cella,
pensavo a cosa avrei potuto mangiare. È una battaglia, cerchi di ammazzare il
tempo. Ogni giorno lotti contro i minuti, addirittura contro i secondi.
All’interno della prigione il tempo passa molto lentamente, un secondo sembra
durare un anno. Ho fatto tante battaglie per ottenere ciò che chiedevo, ciò che
doveva essere un mio diritto, per esempio i giornali. Ho fatto uno sciopero
della fame per ottenere una radio. Mi battevo per tutto, anche per aver la
possibilità di poter leggere un libro.
Hai parlato
di quanto la lettura sia stata importante nella tua detenzione: quali sono
stati i libri che più ti hanno aiutato nel sopportare quei lunghi mesi?
All’inizio
cercavano di evitare che avessi qualcosa da leggere, perché vogliono che tu sia
sempre sotto pressione e che non possa dimenticare dove sei. In prigione ho
letto 100, 120 libri; prima leggevo quasi solo testi legati allo studio della
politica e della legge, ma in prigione era meglio la narrativa, dei libri che
potevano farmi evadere, immaginando di essere nelle storie, dimenticando le
condizioni in cui mi trovavo. Per me è stata importante Elena Ferrante con il
suo L’amica geniale. Avevo iniziato il libro a Bologna e l’ho
finito in prigione: la descrizione dei dettagli, di Napoli, le sue strade… In
prigione ti sembra di dimenticare i colori e lei, con le sue descrizioni, me li
faceva rivedere. Un altro libro importante è stato Cecità di
Saramago. Poi ho capito che poteva anche aiutare gli altri prigionieri: quando
scoprivamo che era arrivato uno nuovo, facevamo di tutto per fargli avere dei
libri e scambiarseli era una forma di resistenza collettiva. Le guardie
impazzivano per questi scambi che erano un modo per supportarci a vicenda.
Anche aver
scritto un libro è stato terapeutico? Nel libro parli
della speranza come forma di resistenza.
Sono stato
in carcere 20 mesi e 8 giorni. La battaglia è stata molto difficile e la
speranza è stato l’unico motivo per cui sono rimasto vivo. Sapere cosa stava
succedendo nelle piazze, la grande mobilitazione intorno al mio caso, gli ha
dato valore: ha costretto i paesi occidentali e la Commissione europea a
rendersi conto del comportamento dell’Egitto e questo mi ha dato speranza. Una
delle paure più grandi dei prigionieri è quella di essere dimenticati dietro le
sbarre. Quindi, è importante sentire che ci sono persone fuori che pensano a
te. Vi racconto un’altra storia. In prigione c’è un sistema per cui la tua
famiglia può mandarti un po’ di soldi e tu puoi prendere dei coupons per
mangiare qualcosa alla mensa. Un giorno ho sentito chiamare un uomo a cui hanno
detto che gli avevano inviato circa 30 sterline egiziane – che sono circa 60
centesimi, quindi non ci si poteva comprare nulla. Ma quando ha ottenuto il suo
denaro ha sorriso perché ha sentito che la sua famiglia, anche se non poteva
andare a trovarlo, pensava a lui e quei 60 centesimi gli hanno dato la forza di
resistere, pensando che un giorno sarebbe uscito e ci sarebbe stato qualcuno ad
aspettarlo.
Oggi la tua
storia ha oltrepassato i confini e ha ispirato diverse persone. Chi era Patrick
prima di essere conosciuto dal pubblico e chi è Patrick ora? ?
Non c’è una
gran differenza. Prima della prigione ero uno studente tra gli altri, anche se
quando sono arrivato a Bologna per il master lavoravo già nel campo dei diritti
umani. Certo, quando mi hanno arrestato, tutto è cambiato. La prigione mi ha
lasciato una cicatrice, è stata un’esperienza traumatica, ma mi ha anche dato
moltissima visibilità per poter parlare di diritti umani a festival e in
programmi tv. Dico spesso che il libro che ho scritto non è su Patrick Zaki, ma
è la storia di 40.000 prigionieri di opinione in Egitto. E mi sento anche un
po’ in colpa per quelli che sono ancora in prigione mentre io sono fuori, viaggio,
cerco di fare progressi. L’unica cosa che è cambiata è che ora riesco a stare
seduto su una sedia per un’ora o due, mentre prima non stavo fermo un attimo.
Questa
esperienza ha cambiato anche la percezione del tuo lavoro?
La prigione
è stata un fattore chiave nella mia riflessione sui diritti umani. In questo
momento quello che mi preoccupa di più è quanto sta accadendo in Palestina. Il
genocidio a Gaza ha già ucciso più di 55.000 civili. Mi chiedo se davvero
esistono i diritti umani nel mondo attuale e se sono per tutti o riguardano
solo le persone bianche. Oggi un criminale di guerra come Netanyahu può
continuare a viaggiare verso gli Stati Uniti, è il benvenuto da Trump e altri
fascisti che stanno discutendo apertamente di quando occuperanno Gaza uccidendo
altri palestinesi. Forse dovremmo ripensare al senso dei “diritti umani” se non
valgono per tutti nel mondo. E lo dico con una certa tristezza essendo
l’oggetto dei miei studi e la mia passione. È cambiata la prospettiva con cui
pensiamo ai diritti umani. Siamo passati da una priorità per tutti a qualcosa
che è messo in discussione continuamente. Quando la gente parla di diritti
umani negati si riferisce sempre a paesi poveri dell’Africa, o dell’Asia,
l’Iran, l’Arabia meridionale, l’Egitto, e non si preoccupa di paesi europei e
occidentali. La cosa è quasi ironica. In Germania arrestano ogni giorno
manifestanti, negli Stati Uniti, all’Università di Columbia, arrestano gli
studenti che si vedono cancellare persino la laurea o il permesso di soggiorno.
Anche qui in Italia la libertà di espressione e di manifestazione è sotto
attacco.
Recentemente
hai visitato i luoghi legati alla memoria della Shoah. Oggi non possiamo non
vedere una recrudescenza degli atti di antisemitismo come in un eterno ritorno
della storia. Quanto è importante oggi che le posizioni non si polarizzino, che
si distinguano i governi dai popoli e la religione dai fondamentalismi?
Andare in
Polonia e vedere il luogo dove il genocidio è accaduto per me è stata
un’esperienza importante. Mi ha fatto pensare a molte cose. Il problema è che
non dovremmo avere un doppio standard. Dovremmo trattare ogni forma di
oppressione, ogni genocidio nello stesso modo. Oggi chi supporta la Palestina o
cerca di ascoltare la voce dei palestinesi è tacciato di antisemitismo. Per
altro verso, non tutte le persone ebree sono israeliane e non tutti gli
israeliani hanno le stesse idee. Ci sono molte persone ebree, alcune delle
quali mie amiche, che sono contro il Governo di Israele e dovremmo ricordarci
di loro, mentre la propaganda censura le loro voci. Viviamo in un’era di
propaganda sistematica per cui i musulmani sono tutti terroristi. Alcuni,
quando sentono parlare in arabo, pensano che la persona sia un terrorista solo
per quello… Questa discriminazione è una tortura per gli arabi. Anche se sei
una persona molto consapevole, ti condiziona. La stessa propaganda cerca di
raccontare la guerra in Palestina come una guerra tra ebrei e musulmani,
dimenticando che in Palestina vivono molti cristiani che a Gaza hanno perso le
loro famiglie. Uno dei miei amici ha perso suo padre, ucciso da un cecchino
mentre era nascosto all’interno di una chiesa. Sapete quante chiese sono state
bombardate a Gaza? Sapete quanti cristiani sono stati uccisi a Gaza? Non credo,
perché deve sembrare una guerra tra i terroristi di Gaza e gli ebrei. Invece
questa è una guerra tra gli israeliani, gli occupanti, il Governo di Netanyahu
e la popolazione di Gaza. E la storia non è iniziata il 7 ottobre, ma nel 1945,
ed è una lunga storia di colonizzazione, di oppressione e di violenza verso i
palestinesi. Anche di questo dovremmo essere consapevoli per non avere doppi
standard: quello perpetrato nei confronti degli ebrei è stato un genocidio e
ciò che sta succedendo in Palestina è un genocidio. Se vogliamo raggiungere la
pace, dobbiamo riconoscere a tutti gli eventi la stessa importanza e lavorare
affinché i diritti umani siano di tutti.
In Egitto,
un altro simbolo di questa battaglia è Alaa Abd el-Fattah, la cui vicenda
continua a suscitare preoccupazione internazionale. Sua madre, Laila Soueif, ha
condotto una battaglia instancabile per la sua liberazione. Qual è il tuo
pensiero su Alaa, sulla sua storia e sul coraggio delle madri come Laila?
La storia di
Alaa Abdel-Fattah ha sempre occupato un posto speciale nel mio cuore. Non è
solo una storia politica, è profondamente personale. È cominciatata molto
presto nella mia vita, quando stavo iniziando a esplorare la politica. Già da
ragazzino riflettevo sulla Palestina, sulla guerra americana in Iraq e sull’ingiustizia.
E questo mi ha portato a cercare voci al di là della narrazione tradizionale
egiziana. La prima voce che ho trovato veramente indipendente, audace e diversa
è stata quella di Alaa. Il suo blog, una delle prime forme di giornalismo
indipendente in Egitto, offriva un modo radicalmente nuovo di discutere di
politica e di diritti umani. Attraverso le sue parole, ho scoperto un nuovo
linguaggio politico, uno spazio in cui il dissenso non era solo possibile, ma
necessario. La sua piattaforma non si è limitata a informare, ma è stata di
ispirazione. Ha dato vita a un’ondata di altri blogger e pensatori che, come
lui, volevano parlare di politica da sfondi e con obiettivi diversi. Durante la
rivoluzione, Alaa è stato più di un semplice commentatore. Era presente. Era
attivo. Stava costruendo idee e comunità. Uno dei concetti più brillanti che ha
introdotto è stato il “Tweet Nadwa” (Tweet Talk), un incontro in cui le persone
discutevano di questioni politiche e sociali twittando in diretta, creando uno
spazio collettivo di dialogo, resistenza e immaginazione. Questo tipo di
innovazione mi ha lasciato un segno indelebile. Uno dei momenti più emozionanti
della mia vita è stato in tribunale, durante una delle mie udienze. Alaa era
lì, anche lui imprigionato. Ho sentito la sua voce. Gli ho gridato e lui ha
risposto. Ma poi ho sentito il walkie-talkie di un ufficiale
che emetteva l’ordine: “Non fate incontrare Patrick e Alaa”. Avevano paura di
due prigionieri che si scambiavano idee. Ma la storia di Alaa è anche la storia
della sua straordinaria famiglia, e soprattutto di sua madre. La dottoressa
Laila Soueif non è solo una brillante accademica e docente di matematica
all’Università del Cairo. È anche un’attivista di lunga data, che è stata in
prima linea nella protesta fin dagli anni ’70. La sua determinazione non ha mai
vacillato. Oggi, a quasi 70 anni, è impegnata in uno dei più lunghi scioperi
della fame della storia moderna: chiede il rilascio di suo figlio, che ha
superato da tempo la sua condanna e continua a essere detenuto ingiustamente.
Ha perso oltre il 35% del suo peso corporeo. Il mondo guarda altrove, distratto
da nuove tragedie, ma lei si rifiuta di lasciare che il silenzio prenda il
sopravvento. Quando parla, non inizia parlando di suo figlio. Parla di tutti i
prigionieri di coscienza in Egitto. Solo dopo parla di Alaa. Perché la sua
lotta non è solo per lui. È per ogni “Alaa” in una cella di prigione del Paese.
Mi ricorda le madri di Plaza de Mayo in Argentina, quelle donne coraggiose che
hanno marciato per decenni alla ricerca dei loro figli scomparsi. Per me è un
idolo, un esempio, un’eredità vivente di resistenza.
Alaa è uno
dei tanti prigionieri politici in Egitto…
Sì. In
Egitto ci sono ancora circa 40.000 prigionieri politici. Ma non parliamo solo
del Medio Oriente: anche negli Stati Uniti, negli ultimi mesi, tantissimi
studenti sono stati arrestati. Persino in Germania vediamo derive pericolose.
Quando si abusa della legge per mettere a tacere chi esprime la propria
opinione, la democrazia muore, ovunque accada.
Parlare oggi
di democrazia sembra più complicato di qualche anno fa. Perché?
Perché dopo
quanto accaduto negli ultimi anni, in tanti si chiedono se quella che viviamo è
davvero una democrazia. O se non è solo una narrazione, una propaganda
dell’idea di democrazia. Basta guardare alla Palestina: i doppi standard dei
Paesi occidentali sono evidenti. Si paragona spesso la reazione europea alla
guerra in Ucraina con quella a fronte di Gaza, e si nota come non c’è coerenza.
I “due pesi e due misure” non possono stare al centro della democrazia.
Quindi
cos’è, per te, la vera democrazia?
Per me è
semplice: democrazia significa dare priorità ai diritti umani, alla libertà
d’espressione, a tutte le forme di libertà. Ma onestamente, non vedo tutto
questo nemmeno in Italia. Pensiamo alle politiche sui rifugiati.
C’è stato un
momento in cui hai sentito crollare la fiducia nella democrazia?
Sì, la
guerra in Palestina ha fatto cadere tante maschere. Politici che parlano sempre
di diritti umani, democrazia, femminismo… e poi restano in silenzio. Un esempio
su tutti: l’Ungheria che accoglie Netanyahu nonostante il mandato di arresto
della Corte Penale Internazionale. È un tradimento dei valori di cui ci diciamo
custodi. E ci costringe a chiederci che tipo di democrazia vogliamo.
Un’ultima
domanda. In questo momento di grave difficoltà, cosa può fare la società
civile?
Dobbiamo
smettere di guardare agli altri con l’atteggiamento del “salvatore coloniale”.
Basta pensare di dover “andare ad aggiustare il mondo”. No. Aggiustiamo prima
noi stessi. La democrazia in Europa è in pericolo. Siamo in uno dei momenti più
bui della sua storia. Solo dopo aver rimesso ordine in casa nostra potremo
pensare davvero a come aiutare altri Paesi. Prima dobbiamo guardarci allo
specchio.
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