mercoledì 20 agosto 2025

L’Occidente, i diritti umani, la democrazia. Intervista con Patrick Zaki

(di Sabrina di Carlo e Joshua Evangelista)


Zaki, tutto è cominciato con il tuo arresto, il 7 febbraio del 2020…

Allora e ormai da 10 anni stavo lavorando nel campo dei diritti umani. La situazione in quel momento era veramente terribile in Egitto. Mi sono preparato come al solito, perché avevo viaggiato molto negli ultimi 10 anni, e non mi avevano mai fermato. Mi avevano monitorato, avevo ricevuto chiamate per minacciarmi rispetto al mio lavoro, ma non erano mai arrivati al punto di arrestarmi. Anche per questo ho deciso di tornare. Quando, una volta atterrato, sono arrivato ai controlli, mi hanno fermato e mi hanno chiesto: «Il tuo nome è Patrick?». Non ci sono migliaia di Patrick in Egitto e lì ho capito che sarebbe successo qualcosa. Ho avuto qualche secondo per avvisare la mia famiglia e poi sono stato sequestrato da un ufficiale dell’intelligence e mi hanno portato in una stanza all’interno dell’aeroporto per interrogarmi: mi hanno fatto delle domande per circa 24 ore. Lì ho subito violenza e non mi hanno fatto dormire; poi mi hanno portato all’esterno dell’aeroporto in una delle strutture dell’intelligence, mi hanno bendato, utilizzato l’elettricità per torturarmi, sottoposto a umiliazioni fisiche e psicologiche. Sono sparito per 36 ore prima di apparire davanti alla prima investigazione ufficiale. Non troppo tempo, grazie alla pressione fatta dalle persone, a cominciare dall’Università di Bologna, che erano scese in piazza in Italia per chiedere la mia libertà. Queste persone mi hanno salvato la vita, perché in Egitto alcuni spariscono per 9-10 anni e nessuno sa dove sono. Cercavo di stare calmo, di risparmiare energia, perché ho documentato per tanti anni casi di fermo in aeroporto, casi di tortura e quindi la mia mente cercava di ripassare i casi che avevo studiato per capire come potevo cavarmela. Poi mi hanno messo in una macchina, mi hanno ammanettato e nuovamente bendato e mi hanno messo in una piccola stanza per tre ore. Ero spaventato. In Egitto sai quando entri in prigione ma chissà quando ne uscirai: tra 5 o 10 anni? E perché mi hanno fermato, quale sarà l’accusa per cui mi manderanno in carcere? Forse per il mio lavoro, il mio essere un difensore dei diritti umani?

La prigione è un luogo fisico, ma è anche un luogo mentale. Come hai vissuto la detenzione?

La tortura psicologica è stata sicuramente quella più dura. Ovviamente ho subìto anche torture fisiche, però dopo un po’ le ferite guariscono, il dolore passa, mentre è più difficile superare la tortura psicologica. Prima sono stato messo in una cella da solo, poi con un’altra persona e poi alcune volte mi hanno rimesso di nuovo da solo. Quella è stata la parte più dura del carcere e l’esperienza più difficile da immaginare: non puoi parlare con nessuno, hai solo la tua mente, spesso ci litighi, hai tante domande, nessuna risposta. Una delle cose più terribili che ho visto sono le persone impazzite. Alcune non riescono a resistere all’interno della cella per 23 ore al giorno, senza accesso alla luce del sole. La prima prigione in cui sono entrato era quella di Mansura, il luogo dove sono cresciuto, e qui ero in cella con un ragazzo di 18 anni. Il primo giorno, mentre stavo andando a dormire, l’ho sentito parlare ma era voltato verso il muro e mi sono sorpreso, non capivo se stesse parlando con me, poi ho scoperto che c’erano alcuni disegni sul muro e che lui stava parlando con quei disegni che aveva fatto perché non aveva avuto nessun compagno di cella nell’ultimo anno. Resistere in queste condizioni, nella prigione in Egitto, tra le peggiori del mondo, resistere per due anni e uscire, sopravvivere, è stato un miracolo. A volte sono stato davvero giù. Pensavo che non volevo svegliarmi il giorno successivo, volevo solo che tutto finisse… Per affrontare tutto ciò cercavo di farmi una routine all’interno della prigione: mi svegliavo, lavavo i vestiti ogni giorno, cercavo di tenere pulita la cella, pensavo a cosa avrei potuto mangiare. È una battaglia, cerchi di ammazzare il tempo. Ogni giorno lotti contro i minuti, addirittura contro i secondi. All’interno della prigione il tempo passa molto lentamente, un secondo sembra durare un anno. Ho fatto tante battaglie per ottenere ciò che chiedevo, ciò che doveva essere un mio diritto, per esempio i giornali. Ho fatto uno sciopero della fame per ottenere una radio. Mi battevo per tutto, anche per aver la possibilità di poter leggere un libro.

Hai parlato di quanto la lettura sia stata importante nella tua detenzione: quali sono stati i libri che più ti hanno aiutato nel sopportare quei lunghi mesi?

All’inizio cercavano di evitare che avessi qualcosa da leggere, perché vogliono che tu sia sempre sotto pressione e che non possa dimenticare dove sei. In prigione ho letto 100, 120 libri; prima leggevo quasi solo testi legati allo studio della politica e della legge, ma in prigione era meglio la narrativa, dei libri che potevano farmi evadere, immaginando di essere nelle storie, dimenticando le condizioni in cui mi trovavo. Per me è stata importante Elena Ferrante con il suo L’amica geniale. Avevo iniziato il libro a Bologna e l’ho finito in prigione: la descrizione dei dettagli, di Napoli, le sue strade… In prigione ti sembra di dimenticare i colori e lei, con le sue descrizioni, me li faceva rivedere. Un altro libro importante è stato Cecità di Saramago. Poi ho capito che poteva anche aiutare gli altri prigionieri: quando scoprivamo che era arrivato uno nuovo, facevamo di tutto per fargli avere dei libri e scambiarseli era una forma di resistenza collettiva. Le guardie impazzivano per questi scambi che erano un modo per supportarci a vicenda.

Anche aver scritto un libro è stato terapeutico? Nel libro parli della speranza come forma di resistenza.

Sono stato in carcere 20 mesi e 8 giorni. La battaglia è stata molto difficile e la speranza è stato l’unico motivo per cui sono rimasto vivo. Sapere cosa stava succedendo nelle piazze, la grande mobilitazione intorno al mio caso, gli ha dato valore: ha costretto i paesi occidentali e la Commissione europea a rendersi conto del comportamento dell’Egitto e questo mi ha dato speranza. Una delle paure più grandi dei prigionieri è quella di essere dimenticati dietro le sbarre. Quindi, è importante sentire che ci sono persone fuori che pensano a te. Vi racconto un’altra storia. In prigione c’è un sistema per cui la tua famiglia può mandarti un po’ di soldi e tu puoi prendere dei coupons per mangiare qualcosa alla mensa. Un giorno ho sentito chiamare un uomo a cui hanno detto che gli avevano inviato circa 30 sterline egiziane – che sono circa 60 centesimi, quindi non ci si poteva comprare nulla. Ma quando ha ottenuto il suo denaro ha sorriso perché ha sentito che la sua famiglia, anche se non poteva andare a trovarlo, pensava a lui e quei 60 centesimi gli hanno dato la forza di resistere, pensando che un giorno sarebbe uscito e ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo.

Oggi la tua storia ha oltrepassato i confini e ha ispirato diverse persone. Chi era Patrick prima di essere conosciuto dal pubblico e chi è Patrick ora? ?

Non c’è una gran differenza. Prima della prigione ero uno studente tra gli altri, anche se quando sono arrivato a Bologna per il master lavoravo già nel campo dei diritti umani. Certo, quando mi hanno arrestato, tutto è cambiato. La prigione mi ha lasciato una cicatrice, è stata un’esperienza traumatica, ma mi ha anche dato moltissima visibilità per poter parlare di diritti umani a festival e in programmi tv. Dico spesso che il libro che ho scritto non è su Patrick Zaki, ma è la storia di 40.000 prigionieri di opinione in Egitto. E mi sento anche un po’ in colpa per quelli che sono ancora in prigione mentre io sono fuori, viaggio, cerco di fare progressi. L’unica cosa che è cambiata è che ora riesco a stare seduto su una sedia per un’ora o due, mentre prima non stavo fermo un attimo.

Questa esperienza ha cambiato anche la percezione del tuo lavoro?

La prigione è stata un fattore chiave nella mia riflessione sui diritti umani. In questo momento quello che mi preoccupa di più è quanto sta accadendo in Palestina. Il genocidio a Gaza ha già ucciso più di 55.000 civili. Mi chiedo se davvero esistono i diritti umani nel mondo attuale e se sono per tutti o riguardano solo le persone bianche. Oggi un criminale di guerra come Netanyahu può continuare a viaggiare verso gli Stati Uniti, è il benvenuto da Trump e altri fascisti che stanno discutendo apertamente di quando occuperanno Gaza uccidendo altri palestinesi. Forse dovremmo ripensare al senso dei “diritti umani” se non valgono per tutti nel mondo. E lo dico con una certa tristezza essendo l’oggetto dei miei studi e la mia passione. È cambiata la prospettiva con cui pensiamo ai diritti umani. Siamo passati da una priorità per tutti a qualcosa che è messo in discussione continuamente. Quando la gente parla di diritti umani negati si riferisce sempre a paesi poveri dell’Africa, o dell’Asia, l’Iran, l’Arabia meridionale, l’Egitto, e non si preoccupa di paesi europei e occidentali. La cosa è quasi ironica. In Germania arrestano ogni giorno manifestanti, negli Stati Uniti, all’Università di Columbia, arrestano gli studenti che si vedono cancellare persino la laurea o il permesso di soggiorno. Anche qui in Italia la libertà di espressione e di manifestazione è sotto attacco.

Recentemente hai visitato i luoghi legati alla memoria della Shoah. Oggi non possiamo non vedere una recrudescenza degli atti di antisemitismo come in un eterno ritorno della storia. Quanto è importante oggi che le posizioni non si polarizzino, che si distinguano i governi dai popoli e la religione dai fondamentalismi?

Andare in Polonia e vedere il luogo dove il genocidio è accaduto per me è stata un’esperienza importante. Mi ha fatto pensare a molte cose. Il problema è che non dovremmo avere un doppio standard. Dovremmo trattare ogni forma di oppressione, ogni genocidio nello stesso modo. Oggi chi supporta la Palestina o cerca di ascoltare la voce dei palestinesi è tacciato di antisemitismo. Per altro verso, non tutte le persone ebree sono israeliane e non tutti gli israeliani hanno le stesse idee. Ci sono molte persone ebree, alcune delle quali mie amiche, che sono contro il Governo di Israele e dovremmo ricordarci di loro, mentre la propaganda censura le loro voci. Viviamo in un’era di propaganda sistematica per cui i musulmani sono tutti terroristi. Alcuni, quando sentono parlare in arabo, pensano che la persona sia un terrorista solo per quello… Questa discriminazione è una tortura per gli arabi. Anche se sei una persona molto consapevole, ti condiziona. La stessa propaganda cerca di raccontare la guerra in Palestina come una guerra tra ebrei e musulmani, dimenticando che in Palestina vivono molti cristiani che a Gaza hanno perso le loro famiglie. Uno dei miei amici ha perso suo padre, ucciso da un cecchino mentre era nascosto all’interno di una chiesa. Sapete quante chiese sono state bombardate a Gaza? Sapete quanti cristiani sono stati uccisi a Gaza? Non credo, perché deve sembrare una guerra tra i terroristi di Gaza e gli ebrei. Invece questa è una guerra tra gli israeliani, gli occupanti, il Governo di Netanyahu e la popolazione di Gaza. E la storia non è iniziata il 7 ottobre, ma nel 1945, ed è una lunga storia di colonizzazione, di oppressione e di violenza verso i palestinesi. Anche di questo dovremmo essere consapevoli per non avere doppi standard: quello perpetrato nei confronti degli ebrei è stato un genocidio e ciò che sta succedendo in Palestina è un genocidio. Se vogliamo raggiungere la pace, dobbiamo riconoscere a tutti gli eventi la stessa importanza e lavorare affinché i diritti umani siano di tutti.

In Egitto, un altro simbolo di questa battaglia è Alaa Abd el-Fattah, la cui vicenda continua a suscitare preoccupazione internazionale. Sua madre, Laila Soueif, ha condotto una battaglia instancabile per la sua liberazione. Qual è il tuo pensiero su Alaa, sulla sua storia e sul coraggio delle madri come Laila?

La storia di Alaa Abdel-Fattah ha sempre occupato un posto speciale nel mio cuore. Non è solo una storia politica, è profondamente personale. È cominciatata molto presto nella mia vita, quando stavo iniziando a esplorare la politica. Già da ragazzino riflettevo sulla Palestina, sulla guerra americana in Iraq e sull’ingiustizia. E questo mi ha portato a cercare voci al di là della narrazione tradizionale egiziana. La prima voce che ho trovato veramente indipendente, audace e diversa è stata quella di Alaa. Il suo blog, una delle prime forme di giornalismo indipendente in Egitto, offriva un modo radicalmente nuovo di discutere di politica e di diritti umani. Attraverso le sue parole, ho scoperto un nuovo linguaggio politico, uno spazio in cui il dissenso non era solo possibile, ma necessario. La sua piattaforma non si è limitata a informare, ma è stata di ispirazione. Ha dato vita a un’ondata di altri blogger e pensatori che, come lui, volevano parlare di politica da sfondi e con obiettivi diversi. Durante la rivoluzione, Alaa è stato più di un semplice commentatore. Era presente. Era attivo. Stava costruendo idee e comunità. Uno dei concetti più brillanti che ha introdotto è stato il “Tweet Nadwa” (Tweet Talk), un incontro in cui le persone discutevano di questioni politiche e sociali twittando in diretta, creando uno spazio collettivo di dialogo, resistenza e immaginazione. Questo tipo di innovazione mi ha lasciato un segno indelebile. Uno dei momenti più emozionanti della mia vita è stato in tribunale, durante una delle mie udienze. Alaa era lì, anche lui imprigionato. Ho sentito la sua voce. Gli ho gridato e lui ha risposto. Ma poi ho sentito il walkie-talkie di un ufficiale che emetteva l’ordine: “Non fate incontrare Patrick e Alaa”. Avevano paura di due prigionieri che si scambiavano idee. Ma la storia di Alaa è anche la storia della sua straordinaria famiglia, e soprattutto di sua madre. La dottoressa Laila Soueif non è solo una brillante accademica e docente di matematica all’Università del Cairo. È anche un’attivista di lunga data, che è stata in prima linea nella protesta fin dagli anni ’70. La sua determinazione non ha mai vacillato. Oggi, a quasi 70 anni, è impegnata in uno dei più lunghi scioperi della fame della storia moderna: chiede il rilascio di suo figlio, che ha superato da tempo la sua condanna e continua a essere detenuto ingiustamente. Ha perso oltre il 35% del suo peso corporeo. Il mondo guarda altrove, distratto da nuove tragedie, ma lei si rifiuta di lasciare che il silenzio prenda il sopravvento. Quando parla, non inizia parlando di suo figlio. Parla di tutti i prigionieri di coscienza in Egitto. Solo dopo parla di Alaa. Perché la sua lotta non è solo per lui. È per ogni “Alaa” in una cella di prigione del Paese. Mi ricorda le madri di Plaza de Mayo in Argentina, quelle donne coraggiose che hanno marciato per decenni alla ricerca dei loro figli scomparsi. Per me è un idolo, un esempio, un’eredità vivente di resistenza.

Alaa è uno dei tanti prigionieri politici in Egitto…

Sì. In Egitto ci sono ancora circa 40.000 prigionieri politici. Ma non parliamo solo del Medio Oriente: anche negli Stati Uniti, negli ultimi mesi, tantissimi studenti sono stati arrestati. Persino in Germania vediamo derive pericolose. Quando si abusa della legge per mettere a tacere chi esprime la propria opinione, la democrazia muore, ovunque accada.

Parlare oggi di democrazia sembra più complicato di qualche anno fa. Perché?

Perché dopo quanto accaduto negli ultimi anni, in tanti si chiedono se quella che viviamo è davvero una democrazia. O se non è solo una narrazione, una propaganda dell’idea di democrazia. Basta guardare alla Palestina: i doppi standard dei Paesi occidentali sono evidenti. Si paragona spesso la reazione europea alla guerra in Ucraina con quella a fronte di Gaza, e si nota come non c’è coerenza. I “due pesi e due misure” non possono stare al centro della democrazia.

Quindi cos’è, per te, la vera democrazia?

Per me è semplice: democrazia significa dare priorità ai diritti umani, alla libertà d’espressione, a tutte le forme di libertà. Ma onestamente, non vedo tutto questo nemmeno in Italia. Pensiamo alle politiche sui rifugiati.

C’è stato un momento in cui hai sentito crollare la fiducia nella democrazia?

Sì, la guerra in Palestina ha fatto cadere tante maschere. Politici che parlano sempre di diritti umani, democrazia, femminismo… e poi restano in silenzio. Un esempio su tutti: l’Ungheria che accoglie Netanyahu nonostante il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale. È un tradimento dei valori di cui ci diciamo custodi. E ci costringe a chiederci che tipo di democrazia vogliamo.

Un’ultima domanda. In questo momento di grave difficoltà, cosa può fare la società civile?

Dobbiamo smettere di guardare agli altri con l’atteggiamento del “salvatore coloniale”. Basta pensare di dover “andare ad aggiustare il mondo”. No. Aggiustiamo prima noi stessi. La democrazia in Europa è in pericolo. Siamo in uno dei momenti più bui della sua storia. Solo dopo aver rimesso ordine in casa nostra potremo pensare davvero a come aiutare altri Paesi. Prima dobbiamo guardarci allo specchio.

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