domenica 27 agosto 2017

Epepe - Ferenc Karinthy

un linguista parte per Helsinki, per un congresso, arriva in un posto totalmente sconosciuto.
è un incubo o un salto spazio/temporale, o la realtà, non importa per chi legge.
ci si affeziona a quest'uomo che non può comunicare con nessuno, nessuno capisce una qualche lingua, se non quella di quello strano paese, sconosciuta al linguista, e a noi, naturalmente.
è una città da cui non si può andare via, impossibile scappare, si cerca di vivere giorno per giorno, aspettando una salvezza che non arriverà.
solo con Epepe, se si chiama così, ci sarà un flebile contatto, se lo si interpreta così.
abbandonate per qualche ora qualsiasi cosa stiate facendo, e dedicate un po' del vostro tempo a un viaggio senza paragoni, in un posto che manca nelle guide turistiche.
vogliatevi bene, non perdetevi questo libro, dopo saprete perché era necessario leggerlo, buon viaggio. 










…Bello. Una storia affascinante e magnetica, fa sorridere e pensare, gran libro.

Ci sono libri che hanno la prodigiosa, temibile capacità di dare, semplicemente, corpo agli incubi. Epepe è uno di questi. Inutile, dopo averlo letto, tentare di scacciarlo dalla mente: vi resterà annidato, che lo vogliate o no. Immaginate di finire, per un beffardo disguido, in una labirintica città di cui ignorate nome e posizione geografica, dove si agita giorno e notte una folla oceanica, anonima e minacciosa. Immaginate di ritrovarvi senza documenti, senza denaro e punti di riferimento. Immaginate che gli abitanti di questa sterminata metropoli parlino una lingua impenetrabile, con un alfabeto vagamente simile alle rune gotiche e ai caratteri cuneiformi dei Sumeri – e immaginate che nessuno comprenda né la vostra né le lingue più diffuse. Se anche riuscite a immaginare tutto questo, non avrete che una pallida idea dell'angoscia e della rabbiosa frustrazione di Budai, il protagonista di Epepe. Perché Budai, eminente linguista specializzato in ricerche etimologiche, ha familiarità con decine di idiomi diversi, doti logiche affinate da anni di lavoro scientifico e una caparbietà senza uguali. Eppure, il solo essere umano disposto a confortarlo, benché non lo capisca, pare sia la bionda ragazza che manovra l'ascensore di un hotel: una ragazza che si chiama Epepe, ma forse anche – chi può dirlo? – Bebe o Tetete.

…mi sembra che Epepe sia proprio un raffinato ed ambizioso apologo sul totalitarismo, potendo perciò essere classificato a pieno titolo nella prima categoria. E allora, forse, l’incomunicabilità cui accennavo, non è tanto legata alle difficoltà linguistiche, quanto piuttosto alla paura di tutti che, dietro quell’uomo disperato e gesticolante, si nasconda un trucco, un inganno, una trappola. Insomma la mancanza di comunicazione, direi anzi il rifiuto di comunicare, è lo strumento scelto dall’Autore per rappresentare l’egoismo e l’abbrutimento morale di chi sia costretto a praticare quotidianamente la logica del mors tua, vita mea. E anche la resistenza furiosa e pervicace di Budai, non è altro che la metafora della ragione impotente di fronte all’ottusità violenta e pervasiva di una dittatura che, invece, prospera proprio sull’assoluto e ricercato sovvertimento di qualsiasi logica che non sia funzionale ad autoalimentare il proprio potere. Senza questo collegamento alla biografia di Karinthy e, per suo tramite, alla biografia collettiva degli ungheresi (e non solo), il giudizio finale sull’opera sarebbe meno benevolo.
Anche così, tuttavia, Epepe non convince del tutto. La scrittura di Karinthy, infatti, mi sembra priva dello spessore e della vivacità necessari a sviluppare per oltre duecento pagine l’idea alla base del romanzo: insomma un’opera la cui ambizione e il cui valore “politico” sono forse superiori al valore letterario.
E su questo non ho altro da dire.

…Se la burocrazia terrorizzante del ‘Processo’ fosse semplicemente trasposta in architetture, edifici costruiti senza sosta, luoghi, code infinite di esseri senza futuro, grandi magazzini inutilmente affollati, strade e stazioni che conducono ovunque tranne che altrove?
È questa, credo, l’essenza dell’incubo di Karinthy, e il motivo per cui a mezzo secolo dalla stesura risulta ancora così pungente: come si scappa da una prigione in cui nessuno ti comprende? È il terrore del perfetto isolamento da ciò che ci circonda che assale quando visitiamo luoghi radicalmente alieni alla nostra cultura e abitudini, ma è anche tutto sommato una riedizione perfino più spietata dell’orwelliana riscrittura della storia. Cos’è il passato se non abbiamo un modo condiviso per dirlo? Cosa in un luogo che attraverso la lingua – e dunque la base del pensiero – è perfettamente isolato non solo dal resto del mondo, ma perfino da se stesso? Budai lo annota ripetutamente, nei suoi tentativi di decifrare una lingua che, come la storia di Orwell, sembra continuamente cangiante, diversa, mutevole nonostante intenda lo stesso: perfino gli abitanti di quello strano paese sembrano non capirsi tra loro, parlare tante lingue quanti sono gli individui.
È questa forse una delle risorse più terribili per un potere che fosse in grado di comandare quella Babele: l’incomprensibilità è un modo per riscrivere l’umano, riprogrammare i sentimenti, redirigere i passi e mutare ogni gesto quotidiano. In molte narrazioni antiutopiche, l’amore è la salvezza – e la figura femminile, sempre compromessa con il difforme, ne è il disvelamento. ‘Epepe’ non fa eccezione: la donna dal nome incerto – Pepe, Bebe, Edede, Epepe – che accompagna Budai al piano, in ascensore, è l’unica persona che definiremmo comunemente tale. Cerca di interessarsi al suo spaesamento, prova a porvi rimedio con lunghe soste al diciottesimo piano, riesce perfino a scatenare in lui reazioni irrazionali – l’attrazione, la violenza. Ma non basta a salvarci, sembra suggerire Karinthy. Nemmeno ciò che non si esprime a parole ha senso, senza parole che significano.

…Può darsi che Karinthy volesse denunciare l’anonimo inferno di ogni metropoli contemporanea, come forse interpretarono i primi traduttori della novella in lingua inglese (Metropole). Un luogo costruito su paradossi, come quello di sperimentare una profonda solitudine in mezzo a una folla, di non riuscire a comunicare nonostante sovrabbondanza di lingue, di non riuscire a identificarsi di fronte alla coesistenza di molteplici identità in un singolo centro urbano. Può dunque esser vero, come ipotizza Budai, che in quella città “esistono tanti linguaggi quante sono le persone”.
Una lettura politica potrebbe invece interpretare Epepe come una critica della condizione dell’intellettuale nella società moderna. In un contesto metropolitano caratterizzato da una collettiva solitudine e da una marcata incomunicabilità, il talento di Budai e le sue conoscenze si rivelano inutili. Per sopperire ai propri bisogni è invece costretto a svolgere un lavoro manuale che lo consuma, debilitandolo.
Quale che sia l’interpretazione che preferiamo, Epepe incide la fantasia del lettore come un incubo svanito alle prime luci del mattino, e che tuttavia rimane incastonato nella coscienza come un presagio, o come la traccia di una verità impronunciabile.


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