è un incubo o un salto spazio/temporale, o la realtà, non importa per chi legge.
ci si affeziona a quest'uomo che non può comunicare con nessuno, nessuno capisce una qualche lingua, se non quella di quello strano paese, sconosciuta al linguista, e a noi, naturalmente.
è una città da cui non si può andare via, impossibile scappare, si cerca di vivere giorno per giorno, aspettando una salvezza che non arriverà.
solo con Epepe, se si chiama così, ci sarà un flebile contatto, se lo si interpreta così.
abbandonate per qualche ora qualsiasi cosa stiate facendo, e dedicate un po' del vostro tempo a un viaggio senza paragoni, in un posto che manca nelle guide turistiche.
vogliatevi bene, non perdetevi questo libro, dopo saprete perché era necessario leggerlo, buon viaggio.
…Bello.
Una storia affascinante e magnetica, fa sorridere e pensare, gran libro.
Ci sono libri che hanno
la prodigiosa, temibile capacità di dare, semplicemente, corpo agli
incubi. Epepe è uno di questi. Inutile, dopo averlo letto,
tentare di scacciarlo dalla mente: vi resterà annidato, che lo vogliate o no.
Immaginate di finire, per un beffardo disguido, in una labirintica città di cui
ignorate nome e posizione geografica, dove si agita giorno e notte una folla
oceanica, anonima e minacciosa. Immaginate di ritrovarvi senza documenti, senza
denaro e punti di riferimento. Immaginate che gli abitanti di questa sterminata
metropoli parlino una lingua impenetrabile, con un alfabeto vagamente simile
alle rune gotiche e ai caratteri cuneiformi dei Sumeri – e immaginate che
nessuno comprenda né la vostra né le lingue più diffuse. Se anche riuscite a
immaginare tutto questo, non avrete che una pallida idea dell'angoscia e della
rabbiosa frustrazione di Budai, il protagonista di Epepe. Perché
Budai, eminente linguista specializzato in ricerche etimologiche, ha
familiarità con decine di idiomi diversi, doti logiche affinate da anni di
lavoro scientifico e una caparbietà senza uguali. Eppure, il solo essere umano
disposto a confortarlo, benché non lo capisca, pare sia la bionda ragazza che
manovra l'ascensore di un hotel: una ragazza che si chiama Epepe, ma forse
anche – chi può dirlo? – Bebe o Tetete.
…mi sembra che Epepe sia
proprio un raffinato ed ambizioso apologo sul totalitarismo, potendo perciò
essere classificato a pieno titolo nella prima categoria. E allora, forse,
l’incomunicabilità cui accennavo, non è tanto legata alle difficoltà
linguistiche, quanto piuttosto alla paura di tutti che, dietro quell’uomo
disperato e gesticolante, si nasconda un trucco, un inganno, una trappola.
Insomma la mancanza di comunicazione, direi anzi il rifiuto di comunicare, è lo
strumento scelto dall’Autore per rappresentare l’egoismo e l’abbrutimento
morale di chi sia costretto a praticare quotidianamente la logica del mors
tua, vita mea. E anche la resistenza furiosa e pervicace di Budai, non è
altro che la metafora della ragione impotente di fronte all’ottusità violenta e
pervasiva di una dittatura che, invece, prospera proprio sull’assoluto e
ricercato sovvertimento di qualsiasi logica che non sia funzionale ad
autoalimentare il proprio potere. Senza questo collegamento alla biografia di
Karinthy e, per suo tramite, alla biografia collettiva degli ungheresi (e non
solo), il giudizio finale sull’opera sarebbe meno benevolo.
Anche così, tuttavia, Epepe non
convince del tutto. La scrittura di Karinthy, infatti, mi sembra priva dello
spessore e della vivacità necessari a sviluppare per oltre duecento pagine
l’idea alla base del romanzo: insomma un’opera la cui ambizione e il cui valore
“politico” sono forse superiori al valore letterario.
E su questo non ho altro da dire.
…Se la burocrazia terrorizzante del ‘Processo’ fosse semplicemente
trasposta in architetture, edifici costruiti senza sosta, luoghi, code infinite
di esseri senza futuro, grandi magazzini inutilmente affollati, strade e
stazioni che conducono ovunque tranne che altrove?
È questa, credo, l’essenza dell’incubo di Karinthy, e il motivo per
cui a mezzo secolo dalla stesura risulta ancora così pungente: come si scappa
da una prigione in cui nessuno ti comprende? È il terrore del perfetto
isolamento da ciò che ci circonda che assale quando visitiamo luoghi
radicalmente alieni alla nostra cultura e abitudini, ma è anche tutto sommato
una riedizione perfino più spietata dell’orwelliana riscrittura della storia.
Cos’è il passato se non abbiamo un modo condiviso per dirlo? Cosa in un luogo
che attraverso la lingua – e dunque la base del pensiero – è perfettamente
isolato non solo dal resto del mondo, ma perfino da se stesso? Budai lo annota
ripetutamente, nei suoi tentativi di decifrare una lingua che, come la storia
di Orwell, sembra continuamente cangiante, diversa, mutevole nonostante intenda
lo stesso: perfino gli abitanti di quello strano paese sembrano non capirsi tra
loro, parlare tante lingue quanti sono gli individui.
È questa forse una delle risorse più terribili per un potere che
fosse in grado di comandare quella Babele: l’incomprensibilità è un modo per
riscrivere l’umano, riprogrammare i sentimenti, redirigere i passi e mutare
ogni gesto quotidiano. In molte narrazioni antiutopiche, l’amore è la salvezza
– e la figura femminile, sempre compromessa con il difforme, ne è il
disvelamento. ‘Epepe’ non fa eccezione: la donna dal nome incerto – Pepe,
Bebe, Edede, Epepe – che accompagna Budai al piano, in ascensore, è l’unica
persona che definiremmo comunemente tale. Cerca di interessarsi al suo
spaesamento, prova a porvi rimedio con lunghe soste al diciottesimo piano,
riesce perfino a scatenare in lui reazioni irrazionali – l’attrazione, la
violenza. Ma non basta a salvarci, sembra suggerire Karinthy. Nemmeno ciò che
non si esprime a parole ha senso, senza parole che significano.
…Può
darsi che Karinthy volesse denunciare l’anonimo inferno di ogni metropoli
contemporanea, come forse interpretarono i primi traduttori della novella in
lingua inglese (Metropole). Un luogo costruito su
paradossi, come quello di sperimentare una profonda solitudine in mezzo a una
folla, di non riuscire a comunicare nonostante sovrabbondanza di lingue, di non
riuscire a identificarsi di fronte alla coesistenza di molteplici identità
in un singolo centro urbano. Può dunque esser vero, come ipotizza Budai, che in
quella città “esistono tanti linguaggi quante sono le persone”.
Una lettura politica potrebbe invece
interpretare Epepe come una critica della
condizione dell’intellettuale nella società moderna. In un contesto
metropolitano caratterizzato da una collettiva solitudine e da una marcata
incomunicabilità, il talento di Budai e le sue conoscenze si rivelano inutili.
Per sopperire ai propri bisogni è invece costretto a svolgere un lavoro manuale
che lo consuma, debilitandolo.
Quale che sia l’interpretazione che
preferiamo, Epepe incide la fantasia del
lettore come un incubo svanito alle prime luci del mattino, e che tuttavia
rimane incastonato nella coscienza come un presagio, o come la traccia di una
verità impronunciabile.
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