Ventisei
anni di dolore e depistaggi, 140 morti, 2 inchieste, 3 processi e nessun
colpevole.
La strage
del traghetto Navarma Moby Prince, entrato in collisione con la petroliera Agip
Abruzzo nella notte del 10 aprile 1991 e lasciato bruciare fino al giorno
seguente, si è svolta in un particolare contesto: ''un incidente frutto di
numerose contingenze, forse evitabili'' – come sottolineato dall'Assessore
Regionale dei Trasporti della Sardegna, Massimo Deiana – succedutesi
nell'affollato porto di Livorno, un porto delle nebbie (e non
certo atmosferiche, giacché è stato ampiamente appurato il fatto che quella
tragica notte il cielo fosse limpido), come da titolo di una celebre puntata de
''La Storia siamo noi'' di Giovanni Minoli.
Dopo più di
vent'anni di silenzio pressoché assoluto sia da parte delle autorità – basti
ricordare le affermazioni , datate 2007, di Andreotti e Cossiga, all'epoca
rispettivamente Presidente del Consiglio e della Repubblica, i quali sostennero
di ''non ricordare niente di quella storia'' – sia da parte di una larga
fetta di mass media nazionali, la tragica vicenda torna alla ribalta
con tutti i suoi chiaroscuri, gli stessi che l'hanno contraddistinta sin dal
principio.
Infatti, a
distanza di così tanti anni e nello stesso giorno, il 7 aprile, si sono
verificati due eventi importanti: mentre a Cagliari si inaugurava la Piazza
Vittime del Moby Prince, a Livorno la cordata di armatori capitanata dal Gruppo
Onorato si è aggiudicata l'appalto per la gestione della società che opera nel
settore traghetti e crociere, amministrando il terminal, la stazione marittima,
i servizi informativi, i parcheggi e il trasporto passeggeri all'interno dello
scalo toscano.
Mentre le
compagnie del Gruppo Onorato Armatori – Moby, Tirrenia-CIN e Toremar –
esprimevano ''grande soddisfazione per il risultato raggiunto'', i familiari
delle vittime della strage della Moby Prince, il più grave incidente sul lavoro
della storia italiana per numero di lavoratori morti, ben 74 membri
dell'equipaggio (le altre 66 vittime erano passeggeri) che hanno lottato
stoicamente restando a bordo fino a sacrificare la propria vita per salvare
quelle altrui, hanno celebrato la giornata del ricordo nel capoluogo sardo, in
Piazza Deffenu nello spazio antistante la Capitaneria di Porto, con la
cerimonia d'intitolazione della Piazza alle vittime e, successivamente, con
l'incontro e la proiezione del documentario del giornalista Paolo Mastino
''Buonasera, Moby Prince'' tenutisi nell'Aula del Consiglio Regionale della
Sardegna.
A bordo del
traghetto – che la famiglia Onorato aveva acquistato nel 1986, in servizio per
la compagnia Nav.Ar.Ma, distrutto da un incendio nel 1991 e avviato alla
demolizione nel 1998 in Turchia, dopo essere stato lasciato affondare nel porto
di Livorno durante il periodo del sequestro da parte della Magistratura
italiana – viaggiavano 141 persone. Si salvò solo uno di loro, il mozzo
napoletano Alessio Bertrand, uno dei primissimi a dare versioni quantomeno
contraddittorie del tragico accaduto (parlò di sopravvissuti a bordo, per poi
ritrattare sostenendo che fossero tutti morti) [1].
Il
''miracolato'' non fu certo il comandante della nave Ugo Chessa, indicato però
a livello processuale, di fatto, come unico responsabile della tragedia. Nessun
uomo di mare, tantomeno un esperto come Chessa e gli altri professionisti della
navigazione che erano in plancia comandi con lui, avrebbe commesso gli errori
che, anche a causa di perizie a dir poco fallaci, sono stati loro attribuiti.
Attorno alla
vicenda permangono dubbi e misteri, nonostante le pressanti richieste dei
familiari delle vittime e il loro attivismo, soprattutto grazie alle attività
delle associazioni 140 e 10 Aprile - Familiari Vittime
Moby Prince, un dettagliato sito internet e le pagine social, tra le quali
quella sempre aggiornata del gruppo pubblico ''Moby Prince: Quelli che esigono
la verità''.
Da circa due
anni a questa parte, come sostenuto da Luchino Chessa, uno dei figli del
comandante e della moglie Maria Giulia Ghezzani, anch'ella deceduta nella
tragedia, il lavoro di divulgazione e sensibilizzazione compiuto sta dando i
suoi frutti: dalla campagna #iosono141 ai sempre più numerosi
incontri pubblici, passando per i documentari sul tema fino ad arrivare, nel
2015, all'istituzione di una Commissione Parlamentare d'Inchiesta, ultima
speranza di avere una verità che sia tale e non di comodo per i familiari, gli
amici, i conoscenti delle vittime e ''per tutti i cittadini che chiedono a
gran voce una giustizia necessaria ad un Paese che voglia dirsi veramente
democratico'', come sottolineato sempre da Chessa.
Alla
cerimonia di inaugurazione della Piazza, così come alla proiezione del
documentario di Paolo Mastino, giornalista della redazione Tgr Sardegna, hanno
partecipato personalità istituzionali di spicco quali Massimo Zedda, sindaco di
Cagliari, il Presidente della Commissione Parlamentare sopra menzionata,
senatore Silvio Lai e Luciano Uras, senatore anch'egli membro della stessa, il
Presidente del Consiglio Regionale sardo Gianfranco Ganau e il prima citato
assessore regionale ai trasporti Massimo Deiana. Ma gli occhi erano tutti
puntati su Luchino Chessa e sugli altri familiari, sempre presenti insieme alle
loro famiglie, sviluppatesi nel corso di questi lunghi e dolorosi anni: la vita
sfida sempre il dramma della morte, gli anni di attesa e speranze, di illusioni
di giustizia, di depistaggi e mistificazioni.
La
''funzione catartica'' della Piazza, situata in una zona centralissima e perciò
molto trafficata ma, allo stesso tempo, affacciata verso il mar Mediterraneo,
come affermato da Chessa, l'ha sortita anche il documentario proiettato
nell'aula del Consiglio Regionale, a pochi passi dalla Piazza stessa. Il
pubblico, sia familiari che scolaresche e giornalisti, ha assistito con
attenzione, a tratti inevitabilmente commosso dinnanzi alle interviste a Loris
Rispoli, Angelo Chessa, fratello di Luchino e Stefania Giannotti, ed alle crude
immagini del ritrovamento dei corpi a bordo di quella bara di fuoco a
cielo aperto.
La rabbia
che resta – tanto forte da far piangere mentre si ode la registrazione
del Mayday e la disperata constatazione del marconista (''… Stiamo aspettando
qui'', si dispera, ''… Ma nessuno viene ad aiutarci eh!'') – come sostenuto da
Luchino Chessa, ''non è divenuta rassegnazione, ma resistenza contro una verità
giudiziaria mendace che copre le reali responsabilità, i dati oggettivi, la
realtà dei fatti, numerosi, drammaticamente concomitanti''. Parafrasando
l'affermazione del marconista dell'Agip Abruzzo, Livorno ed una parte
del nostro Stato non vollero vedere, vedere con gli occhi, quanto davvero
accadde tra il 10 e l'11 aprile 1991 e negli anni successivi.
Gli
interrogativi aperti, le nebbie processuali che la
Commissione sta cercando di dipanare, sono molteplici: fermi restando punti
ormai assodati quali l'assenza di nebbia, la non eccessiva velocità del
traghetto e la concentrazione del comandante e del resto del personale di bordo
– basti ricordare il celeberrimo depistaggio che li vedeva
tutti impegnati a guardare la semifinale di Coppa tra Juventus e Barcellona,
compreso il comandante che, per stessa ammissione dell'ex nostromo Ciro Di
Lauro, ''non capiva niente di calcio'' – , quale fu la reale causa della
collisione? O, per la precisione, quale evento straordinario costrinse
il comandante ad una manovra di rientro in porto? E quale ostacolo improvviso
portò la Moby Prince ad una virata ed allo schianto con la petroliera? La causa
dell'avaria ai sistemi di governo e dell'accensione dei fari del ponte di
manovra (e non, come erroneamente scritto nella richiesta di archiviazione del
2010, dei fari cercanaufraghi) può essere l'esplosione di un ordigno nel
locale eliche di prua del traghetto?
Cosa stava
accadendo nell'affollatissima rada di Livorno la sera del 10 aprile 1991, quali
traffici stavano avvenendo e quale può essere stato il ruolo delle navi le cui
comunicazioni sono rimaste incise nei nastri di comunicazione di Livorno Radio?
Perché non si è indagato su di loro e per quale ragione la base americana di
Camp Derby, dalla quale provenivano ed erano dirette le navi militarizzate e
che, già da allora, era dotata di sofisticatissimi satelliti, si è sempre
rifiutata di collaborare alle indagini (così come i carabinieri i quali
avevano, all'interno della base, una loro caserma)? Per quale motivo il nastro
registrato dalla videocamera della famiglia Canu è stato tagliato e per quale
ragione i passeggeri, così come buona parte dell'equipaggio, erano radunati nel
Salone Deluxe con indosso i giubbotti di salvataggio e le valigie pronte,
nell'estenuante attesa di soccorsi che non arrivarono mai?
A tal
proposito un punto fermo, che mette d'accordo tutte le parti in causa, è legato
proprio ai soccorsi: perché si concentrarono interamente sulla
petroliera Agip Abruzzo e non sulla nave passeggeri? Perché Bertrand ritrattò
la sua versione e l'allora comandante della Capitaneria di Porto di Livorno,
Sergio Albanese, lasciò morire atrocemente 140 persone, lentamente soffocate
dal fumo, raggiunte dalle fiamme e carbonizzate dopo una disperata e vana
attesa di ore ed ore, come dimostrato dalle attuali perizie medico-legali?
Quale fu il
ruolo dell'armatore Onorato nei momenti successivi alla tragedia, e per quale
ragione lo smaltimento della carcassa carbonizzata (ma non interamente) della
Moby, lasciato affondare al porto di Livorno, fu smaltito anni dopo proprio in
Turchia? A questi ed altri interrogativi la Commissione d'Inchiesta
Parlamentare è chiamata a dare risposta: mentre a Livorno si attendono le
celebrazioni dell'anniversario con un ricco programma di iniziative
commemorative, si riusciranno a vincere, dopo ben 26 anni, le omertose
resistenze attorno alla più grave tragedia della marineria civile
italiana, portando alla luce la verità e cercando di ripristinare, per
quanto possibile, una giustizia degna di uno Stato civile?
Note
[1]
Ascoltato come testimone chiave durante un'udienza in Commissione Parlamentare,
Alessio Bertrand ha negato di aver detto che a bordo non ci fossero
sopravvissuti. Ha invece sottolineato di aver chiesto aiuto per i naufraghi.
Questa è la versione da lui fornita adesso, ma si sa solo che i primi
soccorritori - che l'avevano tratto in salvo ad un'ora e mezza dalla collisione
- dapprima chiamarono Compamare Livorno per far giungere i soccorsi, poi
ritrattarono, parlando di morti a bordo (tutti, nessun sopravvissuto): da chi
avrebbero potuto sapere quest'informazione, con chi parlarono allora, chi li
spinse a ritrattare, condannando di fatto a morte i passeggeri della nave?
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