Se non
bastassero i fiumi in secca e le piogge che non cadono da mesi a farci capire
che il pianeta sta collassando sotto il peso
dei nostri eccessi, la conferma ci viene dall’overshootday, letteralmente “il
giorno del sorprasso”, l’indicatore che
ci segnala il giorno dell’anno in cui entriamo in deficit sul piano delle
risorse. Una tendenza che si aggrava di anno in anno, considerato
che da quando abbiamo cominciato a monitorare il fenomeno non facciamo altro che arretrare fino ad
essere arrivati, quest’anno, al 2 di agosto.
Stiamo
parlando dell’impronta ecologica che misura la
quantità di terra fertile di cui abbiamo bisogno per sostenere i nostri consumi.
E se d’istinto siamo portati a pensare che la terra fertile ci serve solo per
il cibo, in realtà i consumi che affondano le loro radici nella terra fertile
sono molto più ampi. Basti pensare all’abbigliamento che utilizza cotone, alla
mobilia che utilizza legname, alle costruzioni che occupano suolo, ai
medicinali che usano piante officinali. Ma l’aspetto sorprendente è che ci serve terra fertile anche per andare
in automobile o per accendere una lampadina. Troppo spesso
dimentichiamo che quando infiliamo la chiave nel cruscotto, insieme al rombo
del motore emettiamo anidride carbonica, una sostanza di cui non ci diamo
pensiero solo perché madre natura è così generosa da togliercela di mezzo
grazie all’attività delle piante. Ma
dobbiamo ricordarci che il 60% dell’impronta ecologica dell’umanità è
determinato dall’assorbimento di anidride carbonica.
A livello
terrestre la terra fertile disponibile sotto forma di pascoli, foreste, terre
arabili, ammonta a 12 miliardi di ettari, ma i consumi raggiunti dall’umanità
ne richiedono 20. Un deficit di 8 miliardi di ettari che l’overshoot day
rappresenta per mezzo del calendario Attestato che ogni giorno ci servono 54 milioni di
ettari di terra fertile, l’oveshoot day ci indica il giorno
dell’anno in cui entriamo in zona negativa perché abbiamo esaurito tutta la
terra fertile di cui madre terra dispone. Un limite che raggiugiamo ogni
anno qualche giorno prima: nel 1987 il 19 dicembre, nel 2009 il 25 settembre,
nel 2017 il 2 agosto. Ormai i giorni dell’anno in cui viviamo senza
corrispettivo di terra fertile sono 150, il 40% dell’intero periodo. Parola
dell’istituto americano Global Footprint Network.
Come si
possa consumare oltre la capacità produttiva della terra sembra un enigma
inspiegabile, tanto più che non abbiamo mai la percezione di trovarci a corto
di prodotti naturali. Ma
paradossalmente lo squilibrio non si manifesta sotto forma di penuria bensì di
eccesso. Il problema riguarda l’anidride carbonica che da vari
decenni emettiamo oltre la capacità di assorbimento del sistema naturale
con conseguente accumulo in atmosfera. Più precisamente ne produciamo ogni anno
36 miliardi di tonnellate, mentre il sistema delle foreste e degli oceani è in
grado di assorbirne 20, un bilancio negativo annuale di 16 miliardi di
tonnellate che accumulandosi in atmosfera fa aumentare la temperatura terrestre
con gravi conseguenze sul clima.
L’umanità
produce anidride carbonica da quando conosce il fuoco, ma solo da quando ha avuto accesso ai
depositi di gas e petrolio, ha cominciato a produrne in maniera
insostenibile. Basti dire che dal 1870 ad oggi la concentrazione di
anidride carbonica in atmosfera è aumentata di oltre il 40%. passando da 288
a 400 particelle per milione. Una situazione che sta facendo aumentare la
temperatura terreste con conseguenze sul clima non ancora del tutto
prevedibili, ma sufficienti per paventare scenari apocalittici come
desertificazioni, uragani, aumento del livello dei mari. Fenomeni con
ripercussioni profonde sulla produzione di cibo, sull’habitat, in una parola
sulla sicurezza di vita di larghi strati della popolazione mondiale che si
troveranno costretti ad emigrare per trovare salvezza. Già oggi gli sfollati per disastri
naturali sono attorno ai 20 milioni all’anno, ma da qui al 2050 potrebbero
diventare 150 milioni. Un fenomeno che nessuno sa come arginare, ma
che i generali pensano di risolvere con le armi. Per questo si occupano anche
loro di cambiamenti climatici per capire dove e quando puntare i cannoni.
Il dramma della situazione è che abbiamo messo il
pianeta a soqquadro non per garantire la dignità di tutti, ma lo spreco di
pochi. Ed è
di nuovo l’impronta ecologica a dircelo. Se suddividiamo i 12 miliardi di
ettari di terra fertile disponibile, per la popolazione terrestre, scopriamo
che ogni individuo ha a propria disposizione
1,7 ettari di terra fertile. Questa è l’impronta che nessuno
dovrebbe oltrepassare, per rimanere in equilibrio con la natura. In
realtà solo il 3% della popolazione mondiale si
mantiene su questa linea, mentre il 54% è al di sopra e il 43% al di sotto. Gli eritrei, ad esempio, hanno un’impronta di 0,4
ettari e i bengalesi di 0,7. Al lato opposto l’impronta dei lussemburghesi è di
15,8 ettari, mentre quella degli australiani di 9,3, degli
statunitensi di 8,2, degli italiani di 4,6. In conclusione, i
lussemburghesi consumano nove volte di più di quanto potrebbero, gli
statunitensi cinque volte di più e gli italiani due volte e mezzo. Detta in un altro modo se tutti gli
abitanti del mondo vivessero come i lussemburghesi ci vorrebbero nove
pianeti, mentre se vivessero come gli italiani ce ne vorrebbero due e mezzo.
Noi non abbiamo alcun pianeta di scorta. Ne abbiamo uno solo e con
quest’unico pianeta dobbiamo affrontare due grandi sfide espresse anche da Papa
Francesco nella sua enciclica Laudato sii: consentire agli immiseriti di
risalire rapidamente la china e lasciare ai nostri figli un pianeta
vivibile. Per questo non è più sufficiente
occuparci solo di regole economiche, commerciali e finanziarie che determinano
l’assetto distributivo della ricchezza.Dobbiamo occuparci anche di stili di vita per individuare forme di
produzione e di consumo più sostenibili. I tre miliardi di
immiseriti hanno diritto a vivere meglio ma la loro strada è sbarrata finché
noi abitanti del Nord, 15% della popolazione mondiale, continueremo ad
utilizzare il 75% delle risorse planetarie e il 40% della terra fertile
disponibile. La conclusione è che loro potranno fare un passo avanti solo se
noi sapremo farne uno indietro. In caso contrario potremmo anche costruire un
mondo verde, ma avrebbe il volto crudele dell’apartheid.
(Articolo pubblicato anche su Avvenire.it)
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