(…) Seattle e la crisi del neoliberismo
Secondo la
teoria di Thomas Kuhn relativa al modo in cui si determinano i cambiamenti
nelle scienze fisiche, i dati dissonanti non possono trovare spazio nel vecchio
paradigma finché non venga qualcuno a proporne uno nuovo, in cui possano essere
spiegati. Gli scienziati sociali si sono
appropriati degli sforzi di Kuhn per spiegare il dislocamento e la sostituzione
del pensiero egemonico in politica, in economia e in sociologia. Penso
che, per quanto il ruolo dei dati dissonanti sia stato esaustivamente studiato
(…), le spiegazioni relative al cambiamento nei sistemi di conoscenza non siano state in grado di considerare
il ruolo dell’azione collettiva. La battaglia di Seattle, a mio avviso,
evidenzia – come andrò a spiegare – il ruolo estremamente critico, se non
decisivo, dell’azione collettiva di massa nel
dislocamento dei sistemi di conoscenza.
Si accetta
oggi, in modo più o meno generalizzato, il fatto che la globalizzazione sia fallita, nella
sua triplice promessa di riscattare i Paesi dalla stagnazione, di eliminare la
povertà e di ridurre la disuguaglianza. La crisi economica globale
in corso, gestita dalle grandi imprese e basata sulla liberalizzazione
finanziaria, ha affossato definitivamente l’ideologia della globalizzazione
virtuosa. Ma le cose erano ben diverse due decenni fa. Ancora ricordo la nota
di trionfalismo attorno al primo incontro ministeriale dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC) a Singapore, nel novembre del 1996. È lì che
sentimmo dire dai rappresentanti degli Stati Uniti e di altri Paesi sviluppati
come la globalizzazione diretta dalle grandi imprese fosse inevitabile,
come rappresentasse l’onda del futuro, e come
l’unico compito ancora da svolgere fosse quello di rendere più “coerenti” le
politiche della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale
e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio in modo da realizzare più
rapidamente l’utopia neoliberista di un’economia globale integrata.
L’avanzata della globalizzazione sembrava spazzare
via tutto ciò che si trovava sul suo cammino, compresa la verità. Nel decennio che ha preceduto Seattle, numerosi studi,
compresi i rapporti delle Nazioni Unite, contestavano l’affermazione che la
globalizzazione e le politiche di libero mercato stessero conducendo alla
crescita sostenibile e alla prosperità. I
dati mostravano come la globalizzazione e le politiche pro-mercato stessero in
realtà promuovendo più disuguaglianza e più povertà e consolidando la
stagnazione economica, specialmente nel Sud globale. Tuttavia, tali
cifre, anziché assunte come fatti reali, sono state considerate prive di
fondamento da accademici, giornalisti, politici, impegnati a ripetere con zelo
il mantra neoliberista sulla liberalizzazione economica che promuove crescita e
prosperità. La visione ortodossa, ripetuta ad nauseam in ambito accademico, sui
mezzi di informazione e nei circoli politici, considerava noi critici della
globalizzazione come incarnazioni moderne dei luddisti o come persone convinte
che la terra fosse piatta, come ci ha etichettato con disprezzo Thomas
Friedman.
Ma poi vi è
stata Seattle, nel 1999. E, dopo quei giorni tumultuosi, la stampa ha cominciato a parlare del
“lato oscuro della globalizzazione”, delle disuguaglianze e della povertà
generate dalla globalizzazione. E si sono registrate spettacolari
defezioni dal campo della globalizzazione neoliberista, come quelle del magnate
George Soros, del Premio Nobel Joseph Stiglitz e dell’economista-star Jeffrey
Sachs. L’arretramento intellettuale della globalizzazione ha raggiunto
probabilmente il suo punto più alto nel 2007, in un esteso rapporto relativo a
un gruppo di economisti neoclassici guidato da Angus Deaton, economista di
Princeton, e dall’ex-economista capo del FMI, Ken Rogoff. Il rapporto affermava
implacabilmente che il Dipartimento di Ricerca della Banca Mondiale – la fonte
della maggior parte delle affermazioni secondo
cui la globalizzazione e la liberalizzazione del commercio stavano conducendo a
indici più bassi di povertà, a una crescita economica sostenuta e a una
riduzione della disuguaglianza – distorceva deliberatamente i dati
e/o faceva affermazioni ingiustificate.
È vero, il neoliberismo continua a essere il modello
di riferimento di economisti e tecnocrati. Ma, anche prima del recente collasso finanziario
globale, aveva già perso molto della sua credibilità e legittimità. Cosa ha
fatto la differenza? Non tanto la ricerca o il dibattito, quanto l’azione. È
stato necessario che avvenissero le azioni di massa per le strade di Seattle,
interagendo in modo sinergico con la resistenza di rappresentanti dei Paesi in
via di sviluppo al Centro conferenze dello Sheraton, e una ribellione della
polizia per provocare lo spettacolare collasso di una riunione ministeriale
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e tradurre quelle cifre che
apparivano senza fondamento in fatti reali.E il
fallimento intellettuale imposto alla globalizzazione dalla lotta di Seattle ha
avuto conseguenze assai concrete. Oggi la rivista Economist,
principale incarnazione della globalizzazione neoliberista, ammette chel’integrazione dell’economia mondiale
sta arretrando su quasi tutti i fronti e che un processo di
“de-globalizzazione”, prima considerato impensabile, è in realtà in corso.
Seattle è
stato ciò che Hegel ha definito come “evento
storico-mondiale”. La sua duratura lezione è che la verità non sta
soltanto là fuori, con un’esistenza oggettiva ed eterna. La verità è resa
effettiva, tradotta in realtà e ratificata dall’azione. A Seattle, donne e
uomini comuni hanno reso la verità reale con un’azione collettiva capace di
screditare un paradigma intellettuale servito da guardiano ideologico del
controllo del mondo da parte delle imprese.
Non voglio
dire che il neoliberalismo sia stato sconfitto a Seattle. Ma, per usare una
metafora di guerra, Seattle è stata
certamente la battaglia di Stalingrado del neoliberismo. Ci sarebbe
voluto ancora un decennio per far sì che la globalizzazione venisse
definitivamente fermata, e si è reso necessario che la crisi finanziaria globale completasse
il lavoro, annientando la Teoria della Scelta Razionale e l’Ipotesi
dei Mercati Efficienti che avevano rappresentato l’avanguardia della
globalizzazioen delle finanze.
Potere strutturale persistente del capitale
finanziario
Ma lo
smantellamento del paradigma neoliberista è solo la metà della storia. Benché
in crisi ideologica, le forze del
capitale globale hanno combattuto una feroce battaglia di retroguardia. Si
prenda come esempio il successo dello sforzo del capitale finanziario di
resistere a qualunque cambiamento a fronte dell’evidente necessità di un’ampia
riforma e del consenso sociale di cui essa gode.
Quando, nel
settembre del 2008, si è registrato il
crollo di Wall Street, si è parlato molto del fatto di obbligare le banche a
pagare il conto, di arrestare i “banksters” [fusione di
banchieri e di gangsters] e di imporre regole draconiane. L’allora
neopresidente Barack Obama era arrivato al potere promettendo una riforma
bancaria e avvisando Wall Street: «Il mio governo è l’unica cosa tra voi e
l’inferno».
Ciononostante,
a più di 8 anni dalla deflagrazione della crisi finanziaria globale, è evidente
che coloro che sono stati i responsabili
della crisi hanno operato in maniera tale da uscire completamente impuniti. Di più: hanno fatto anche in modo che i governi
scaricassero sulle vittime i costi della crisi e l’onere della ripresa.
Come ci sono
riusciti? La prima strategia difensiva è stata quella di indurre i governi a
riscattare le banche dal disastro finanziario da esse stesse provocato. Le
banche hanno respinto le pressioni di Washington mettendo a punto una difesa
collettiva con le proprie risorse. Facendo leva sul crollo dei prezzi delle
azioni, scatenato dal fallimento della Lehman Brothers, i rappresentanti del
capitale finanziario sono stati in grado di ricattare tanto i parlamentari
liberali quanto quelli di estrema destra al Congresso degli Stati Uniti per
ottenere l’approvazione del Tarp, Troubled Asset Relief Program (il programma
messo a punto nel settembre del 2008 dall’allora segretario di Stato al Tesoro
statunitense H. Paulson e dal presidente della Federal Reserve B.
Bernanke per porre un freno alla crisi
finanziaria, con cui il Tesoro ha comprato asset “tossici” dagli istituti di
credito in cambio di partecipazioni sotto forma di azioni privilegiate e
dell’impegno da parte degli istituti a restituire quanto ricevuto, ndt), per un
valore di 700 miliardi di dollari. La nazionalizzazione delle banche è stata
scartata in quanto non conforme ai “valori dell’America”.
Una guerra
difensiva, quella combattuta dalle banche, con cui esse sono riuscite, tra il
2009 e il 2010, a eliminare, dal Dodd Frank Act per la riforma di Wall Street e
la protezione dei consumatori, tre elementi chiave considerati necessari per
una vera riforma: la riduzione della
dimensione delle banche; la separazione istituzionale tra banche commerciali e
banche di investimento; e il divieto nei confronti della maggioranza dei
derivati, regolamentando il cosiddetto “sistema bancario ombra” che è quello
che ha provocato la crisi.
Ciò è stato
fatto utilizzando quello che Cornelia Woll ha definito come “potere
strutturale” del capitale finanziario, una dimensione del quale è rappresentata
dai 344 milioni di dollari che il settore ha speso facendo attività di lobbying
nel Congresso Usa durante i primi nove mesi del 2009, quando i legislatori
stavano lavorando alla riforma finanziaria. Il solo senatore Chris Dodd, leader
del Comitato Bancario del Senato, ha ricevuto 2,8 milioni di dollari di
contributi da Wall Street negli anni 2007-2008. Ma forse altrettanto potenti
della lobby di Wall Street trincerata al Congresso sono state le influenti voci
nel nuovo governo Obama favorevoli ai banchieri, specialmente quelle del
segretario del Tesoro, Tim Geithner, e del capo del Consiglio Economico
Nazionale, Larry Summers, entrambi stretti collaboratori di Robert Rubin,
co-presidente della Goldman Sachs, segretario del Tesoro di Bill Clinton e
presidente e consigliere senior di Citigroup.
Infine, il settore finanziario è riuscito assai bene
a legare la difesa dei suoi interessi a uno dei pochi presupposti che ancora
resistono alla disintegrazione in corso dell’ideologia neoliberista: quello
secondo cui lo Stato è la fonte di tutte le cose cattive che hanno luogo in
economia.Proprio nel momento in cui godeva del salvataggio finanziario
da parte del governo, Wall Street riusciva a cambiare la narrativa sulle cause
della crisi finanziaria, facendo ricadere tutta la colpa sullo Stato.
Un fatto che
viene chiarito nel modo migliore dal caso dell’Europa. Come negli Stati Uniti,
la crisi finanziaria in Europa è stata alimentata dalla speculazione, nella
misura in cui le grandi banche europee hanno cercato di sostituire con qualcosa di
immediatamente e fortemente redditizio i bassi ritorni ottenuti
dall’industria e dall’agricoltura, dedicandosi a prestiti immobiliari e a
speculazioni sui derivati finanziari o collocando i propri fondi eccedenti in
titoli di alto rendimento venduti dai governi. Spinte a ottenere profitti
sempre più alti attraverso i loro prestiti ai governi, le banche europee hanno versato 2,5 trilioni
di dollari all’Irlanda, alla Grecia, al Portogallo e alla Spagna.
Il risultato è che il debito della Grecia è arrivato
al 148% del Pil nel 2010, spingendo il Paese sull’orlo di una crisi del debito
sovrano. Nell’impegno
a proteggere le banche, l’approccio seguito dalle autorità europee per
stabilizzare le finanze della Grecia non è stato quello di penalizzare i
creditori per i loro prestiti irresponsabili, ma di scaricare sulle spalle dei
cittadini tutti i costi dell’aggiustamento. La nuova narrativa identificava
l’origine della crisi non nelle finanze private deregolamentate e
ultra-speculative, ma nel presunto “Stato spendaccione”. Tale narrativa è
rapidamente approdata negli Stati Uniti, dove è stata usata non solo per
evitare una reale riforma bancaria, ma anche per prevenire il lancio di un
effettivo programma di investimenti nel 2010. Christina Romer, ex-capo del
Consiglio Economico di Barack Obama, aveva stimato che servissero 1,8 trilioni
di dollari per invertire la recessione. Obama li ha ridotti a meno della metà,
a 787 miliardi, placando l’opposizione repubblicana, ma impedendo così una
rapida ripresa. Cosicché gli eccessi
di Wall Street non sono ricaduti sulle banche, ma sui comuni cittadini degli
Stati Uniti, con una disoccupazione giunta al 10% della forza lavoro e una
disoccupazione giovanile superiore al 20%.
Il successo
di Wall Street nel volgere altrove la protesta popolare dopo l’esplosione della
crisi finanziaria è risultato evidente nella disputa per le elezioni
presidenziali del 2016. Le statistiche degli Stati Uniti parlano chiaro: il 95% dei redditi tra il 2009 e il 2012
è andato all’1% dei più ricchi; il reddito medio era più basso nel
2014 che nel 2000; la concentrazione degli attivi finanziari è cresciuta dopo
il 2009, con le quattro maggiori banche che vantano attivi quasi pari al 50%
del Pil. Ciononostante, la regolamentazione di Wall Street non è stata una
questione affrontata alle primarie del Partito Repubblicano, mentre nei
dibattiti dei Democratici è apparsa solo come un tema marginale, a dispetto dei
coraggiosi sforzi del candidato Bernie Sanders per renderla un argomento di
primo piano.
Le istituzioni politiche di una delle più avanzate
democrazie liberali del mondo non sono state in grado di far fronte al potere
dell’establishment finanziario. Come scrive Cornelia Woll, «per il governo e il Congresso, la principale
lezione della crisi finanziaria del 2008 e del 2009 è stata il fatto che essi
avevano mezzi molto limitati per spingere il settore finanziario ad adottare un
comportamento compatibile con la sopravvivenza dell’intero settore e
dell’economia come un tutto».
In Grecia, le politiche di “austerità” hanno
provocato una rivolta popolare– espressa nel referendum del giugno del 2015 sul piano di salvataggio
della Trojka, con più del 60% della popolazione schierata con il No – ma alla
fine la volontà popolare è stata schiacciata, allorché il governo tedesco ha
forzato Tsipras a un’umiliante resa. È chiaro che il motivo chiave era quello
di salvare l’élite finanziaria europea dalle conseguenze delle sue politiche
irresponsabili, rafforzando il principio ferreo del rimborso totale del debito
e crocifiggendo la Grecia per dissuadere altri, come gli spagnoli, gli
irlandesi e i portoghesi, da una rivolta contro la schiavitù del debito. Come
ha ammesso qualche tempo fa Karl Otto Pöhl, ex-capo della Banca Federale
tedesca, il comportamento draconiano nei confronti della Grecia era finalizzato
a «proteggere le banche tedesche, ma specialmente quelle francesi, dalla
cancellazione dei debiti».
Ciò
malgrado, è probabile che il trionfo delle banche sia, alla fine, una vittoria
di Pirro. La combinazione tra una stagnazione o
recessione profonda indotta dall’“austerità” che opprime gran parte dell’Europa
e degli Stati Uniti e la mancanza di una riforma finanziaria è mortale. La
prolungata stagnazione che ne è derivata e la prospettiva di deflazione hanno
scoraggiato gli investimenti nell’economia reale per espandere beni e servizi.
Dopo il
fallito tentativo di ri-regolamentarle, le banche hanno tutte le ragioni per
fare ciò che hanno fatto prima del 2008 scatenando la crisi attuale: impegnarsi
in operazioni intensamente speculative destinate a ottenere enormi profitti
(…).
Si stima che il mercato ombra dei derivati muova
oggi un totale di 707 trilioni di dollari, molto più dei 548 miliardi del 2008. Secondo un analista, «il
mercato è diventato così abissalmente vasto, che l’economia globale corre il
rischio di danni massicci anche nel caso collassi solo una piccola percentuale
di contratti. Le sue dimensioni e la sua influenza potenziale sono difficili
pure da comprendere, figuriamoci da calcolare». Artur Levitt, ex-presidente
della Sec (l’equivalente della nostra Consob, ndt) ha riconosciuto anche lui
che nessuna delle riforme post-2008 «ha ridotto significativamente la
probabilità di crisi finanziarie».
La questione allora non è se esploderà un’altra
bolla, ma quando. E, per
noi, la lezione chiave è che, a dispetto del discredito ideologico del
neoliberismo e della rabbia popolare per gli inganni delle banche, il
potere strutturale del capitale è talmente enorme da impedire anche solo
l’arresto di un qualunque banchiere importante, figuriamoci di una riforma
significativa…
La necessità di una nuova ampia visione
Su cosa si
sostiene il duraturo potere strutturale del capitale finanziario? La mia
impressione è che, per quanto i fatti oggettivi, la critica intellettuale e l‘azione collettiva abbiano corroso la
legittimità del neoliberismo, siamo stati incapaci di articolare un’alternativa
abbastanza solida da far fronte alla profonda crisi del capitalismo di fronte a
cui ci troviamo.
C’è un
enorme malcontento dinanzi alla molteplice crisi scatenata dal
capitalismo. Purtroppo, non è
possibile ripetere ciò che Mao disse una volta: «Grande è la confusione sotto
il cielo: la situazione è eccellente». Molti di quelli che sono stati
calpestati dalla globalizzazione guidata dalle imprese si stanno rivolgendo a
demagoghi e ideologi di destra, come Donald Trump e Marine Le Pen. O come, per
parlare del mio stesso Paese, le Filippine, il presidente Rodrigo Duterte, il
quale ha cercato di convincere un ampio settore della cittadinanza del fatto
che il crimine e le droghe sarebbero alla base dei problemi del Paese e che la
principale cura per i mali delle Filippine sarebbe quella di uccidere tutti,
tanto i trafficanti quanto i consumatori. È il
caso di ricordare che gli Stati Uniti e l’Europa non hanno il monopolio dei
pericolosi demagoghi di destra sostenuti da una base massiccia e radicalizzata,
in gran parte costituita da persone disilluse delle classi media e bassa
bisognose di soluzioni semplicie favorevoli alla violenza per realizzare
la visione del loro leader su quello che sarebbe il paradiso in terra.
Senza dubbio, parte del problema è il fallimento
delle forze tradizionali della sinistra nell’educare le proprie basi di
appoggio, come la classe lavoratrice bianca. Un’altra parte è data dalla mancanza di capacità di
integrare popolazioni minoritarie all’interno della sinistra – la quale
tradizionalmente accoglieva gli sfavoriti e gli emarginati – forzando alcuni a
rivolgersi a gruppi radicali fondamentalisti come l’Isis. Così, le ferite reali
inferte a tanti settori dalla globalizzazione dettata dalle imprese si sono
aggiunte ai miti sul dislocamento degli immigrati e sui loro crimini e al reale
fallimento della loro integrazione. (…).
Non voglio
aggiungere altre ragioni sociologiche per spiegare (…) il nostro fallimento,
considerando che molti altri lo hanno già fatto, ma voglio sollevare una
questione. Abbiamo o no la responsabilità di
elaborare una visione, un linguaggio e un programma ad ampio raggio per
sviluppare un’alternativa e concretizzarla? Negli Stati Uniti,
Bernie Sanders, candidato alla presidenza nel 2016, ha assunto questo compito
coraggioso nell’invocare un “socialismo democratico”, un concetto che è
risuonato nel Sud Globale. Penso che sia urgente concretizzare questa idea, nel
momento in cui l’altro lato sta già materializzando la sua alternativa nella
forma del trumpismo, della difesa dei partiti di destra europei o del
brexitismo, i quali uniscono parte della nostra critica intellettuale al
capitalismo con l’appello, fortemente emotivo, al ritorno a un passato
idealizzato di omogeneità bianca, di purezza culturale o di uniformità religiosa.
Credo sia urgente superare il nostro timore di
articolare grandi narrative e di esprimere la necessità, attraverso la lotta
comune, di andare oltre un mondo distrutto dal capitale. Questa nuova narrativa deve
difendere la costruzione di società basate sul più profondo istinto di uomini e
donne: la cooperazione. È quasi superfluo dire che tale impegno debba anche
riconoscere le limitazioni, i fallimenti e le distorsioni degli sforzi passati
nella costruzione di società post-capitaliste, specialmente riguardo a
questioni di democrazia, genere e ambiente.
In generale,
non amo citare la Bibbia. Ma vi qualcosa di molto profondo nel passaggio 29:18
dei Proverbi: dove non c’è
visione, il popolo muore. Sarebbe tragico se le persone fossero lasciate
alle assonnate alternative formulate dalla social-democrazia in Europa, ai
noiosi Clinton negli Stati Uniti e ai per nulla ispiratori movimenti di riforma
guidati dall’élite nel Sud Globale. Alternative politiche, oltre tutto,
che non sono in grado di frenare i processi controrivoluzionari in corso.
(Walden Bello è docente alla State University di New York a
Bighamton. Il suo ultimo libro tradotto in italiano è La guerra del cibo (Nuovi
mondi)
Stralci di
un lungo articolo pubblicato da Outras Palavras (4/6)
tradotto dal portoghese e pubblicato da Adista )
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