Epifania! Già da molto piccola sapevo cos’era, perché ho ricevuto
un’educazione cattolica romana nella presbiteriana Scozia del nord. L’Epifania
era una festa di precetto, cioè un giorno in cui si doveva andare a messa. Era
una delle festività del periodo natalizio, anzi, era il giorno in cui si
toglievano di mezzo le decorazioni, la Dodicesima Notte, il 6 gennaio, e stava
quindi a significare che era tutto finito. Ma rappresentava anche, passati
ormai il trambusto e il clamore del Natale e dell’ultimo dell’anno, una
celebrazione dell’atto del donare, il suo perpetuarsi.
L’Epifania aveva anche un suo canto di Natale, con i tre re magi che, nella
loro sapienza, attraversavano il mondo seguendo una stella ed entravano a far
parte di una storia vecchia, vecchissima, gente che lascia il proprio paese e
si mette in viaggio, niente posto alla locanda, un bambino così umile che era
nato in una stalla ed era stato posato in una mangiatoia. Lo cantavamo alle
elementari, nell’unica scuola cattolica nel raggio di chilometri, il che voleva
dire che alla fine delle lezioni, davanti al cancello, c’era sempre qualcuno
che si prendeva a cazzotti, le femmine come i maschi, con quelli delle altre
scuole, perché noi eravamo diversi, oppure i diversi erano loro. Ma comunque,
il 6 gennaio eravamo tutti seduti nella chiesa di St. Mary’s e intonavamo:
Siamo tre re, veniamo dall’Oriente
Portiamo doni, viaggiamo tra la gente
Tra campi e fonti, brughiere e monti
Seguendo sempre la stella lucente.
Portiamo doni, viaggiamo tra la gente
Tra campi e fonti, brughiere e monti
Seguendo sempre la stella lucente.
O stella della sera, stella preziosa
Cometa di regale bellezza luminosa
Che a ovest conduci, su di noi riluci
Guidaci verso la tua luce prodigiosa
Cometa di regale bellezza luminosa
Che a ovest conduci, su di noi riluci
Guidaci verso la tua luce prodigiosa
Sapevamo cos’era l’oro e cosa poteva significare per un bambino povero, e
il secondo re, nel suo verso, spiegava che il dono dell’incenso stava a significare
la prossimità di un Dio. Ma la mirra, l’ultimo dono, era un regalo improbabile
e oscuro da fare a un neonato, anche perché, secondo il re che la portava, la
mirra «esala una vita di fitta tenebra / dolore, sospiri, sangue, morte / nel
chiuso di una tomba gelida»
Ma tutto ciò conferiva un’aura di autenticità ai doni: doni che erano
tutt’altro che frivoli, doni che non prendevano la vita sottogamba.
Ad ogni modo, una sera – avevo più o meno sette anni – ero in cucina e
asciugavo i piatti insieme a una delle mie sorelle maggiori, che all’epoca ne
aveva diciotto. Ero giù di corda per qualche motivo, probabilmente perché ero
diversa, e lei, per tirarmi su, si mise a cantare questa canzoncina che aveva
inventato lì per lì:
Siamo tre re, veniamo dall’oriente
Abbiamo una macchina che non vale niente,
Cerchiamo di salirci, ma siamo così grassi
Che dai e dai c’è il rischio che si scassi
Abbiamo una macchina che non vale niente,
Cerchiamo di salirci, ma siamo così grassi
Che dai e dai c’è il rischio che si scassi
Piccole piccole queste macchinette
Non puoi capire quanto sono strette
Cerchiamo di montarci, ma siamo così grassi
Rinunciamo e facciamo quattro passi.
Non puoi capire quanto sono strette
Cerchiamo di montarci, ma siamo così grassi
Rinunciamo e facciamo quattro passi.
Io mi buttai a terra, sul linoleum della cucina, e risi fino alle lacrime,
fino a farmi venire il mal di pancia.
Ora so che quella sera mia sorella, regalandomi quei tre re, così più
grandi e più grossi degli originali, ha avuto il ruolo di regina maga
portatrice di doni. A modo suo aveva colto, a un livello molto profondo,
qualcosa della mia natura, della natura della nostra famiglia, e della natura
umana in genere: aveva preso una forma chiusa e l’aveva squadernata, creando
una canzone nuova e facendo squadernare me dalle risate. Ora so che quel dono
era il diritto di andare dove volevo. Era il dono della libertà di movimento,
dell’adattabilità, della versatilità, della traduzione. In un certo senso, sì,
rappresentava il superamento di un confine. E ora che ricordo questo episodio,
per qualche istante attraverso tutta la mia vita a ritroso e torno ad essere
quella bambina. Sono la me stessa bambina e la me stessa adulta, tutte e due
insieme, e tutte e due siamo aperte più che mai non solo all’idea di essere
vive, ma alla vita stessa. Epifania.
James Joyce ha pensato bene di rubare la parola epifania, e di porsela come
ambizione ultima in ogni cosa che ha scritto. Per lui è l’attimo fatidico,
quella frazione di secondo in cui il mondo, la parola e la nostra capacità di
comprendere convergono fino a cancellare il tempo, facendoci entrare in uno
stato che nella nostra lingua si indica con una parola che è sinonimo di dono,
facendoci cioè entrare in un intenso tempo presente: la pura presentità,
l’essere qui, l’essere questo. Virginia Woolf descriveva questo essere nel tempo
e insieme al di là del tempo, questo essere pienamente noi
stessi e allo stesso tempo di più, in quanto parte di qualcosa che è più grande
di noi, «momenti d’essere».
Comunque, qui, ora, tra un momento, condividerò con voi un paio di quei
milioni – letteralmente milioni – di momenti d’essere epifanici che ho vissuto,
leggendo, nel corso delle ultime due settimane. Ne viviamo a migliaia ogni
giorno, se ce ne concediamo l’opportunità. Io sono una scrittrice perché leggo,
e per me leggere è tutto, che si tratti di libri, delle parole sul fianco delle
penne e delle matite che usiamo, o sulle confezioni di cibo che compriamo, o
delle parole che vediamo sullo schermo davanti al quale stiamo appiccicati o
che illumina dall’interno la tasca della nostra giacca; in fatto di linguaggio,
siamo creature porose, siamo come spugne, assorbiamo tutto, spesso senza
rendercene conto, ed è per questo che una cosa scritta è in grado di farci provare
letteralmente qualunque cosa: dal benessere al malessere, anche fisico. Vale la
pena di ricordare, per esempio, che se un presidente scrive un tweet che,
mettiamo, ha l’effetto di far sentire il mondo piccolo, insignificante,
sminuito, diviso, inferiore, lo fa consapevolmente, perché far sentire il mondo
più piccolo è una dimostrazione di potere.
Ma anche la lettura è potere. Quando leggiamo siamo più informati, più
saggi e aperti, e soprattutto più flessibili e attenti nella nostra lettura del
mondo; in realtà il mondo e il linguaggio, quando convergono – che la cosa
avvenga in un tweet o in un libro di mille pagine poco importa – diventano
enormi, diventano cornucopie, e lo stesso vale per noi, perché ognuno di noi è
un’opera di infinito potenziale immaginativo, e – man mano che procediamo con
la nostra lettura del mondo – tra i compagni più comunicativi, complessi e
generosi che abbiamo c’è la grande e ramificata famiglia delle lingue. Se
vivere ha un senso questo senso sta nell’energia, nella vita che prende forma
quando una lingua e una persona, un momento, un’arte, un Paese, una molecola,
una parola, incontrano un proprio simile e ci entrano dentro.
Sono i libri, e non gli scrittori, a produrre libri. I libri producono
tutti i libri che verranno dopo di loro. I libri generano libri, e sono i libri
e la lettura a fare di noi ciò che siamo, perché se è vero che noi creiamo
forme, è anche vero che le forme creano noi, e tutte le arti s’impollinano a
vicenda, è sempre stato così e sempre lo sarà, e mi viene da dire che se il
ventesimo secolo, un secolo così disordinato, orribile, agitato, magnifico,
meraviglioso, ci ha regalato qualcosa – se il ventesimo secolo, travestito da
re magio, montasse in groppa a un cammello e attraversasse il mondo e andasse a
far visita a ogni singolo neonato per portargli in dono qualcosa di utile – il
suo dono sarebbe la scoperta del DNA, in altre parole, il dono della
consapevolezza che siamo tutti – tutti noi esseri umani – una sola famiglia.
Ecco cinque cose che di recente mi hanno fatto accendere una lampadina
sopra la testa, nel senso che mi hanno dato l’energia necessaria, grazie alla
loro natura di epifanie: una vita da vivere, uno spirito da riconoscere,
l’accettazione di certe verità, oscure o luminose che siano.
Essere umani è la cosa più importante di tutte. Significa saper essere
risoluti, lucidi, e allegri, sì, allegri a dispetto di qualunque cosa, perché
lagnarsi è da deboli. Essere umani significa lanciare con gioia tutta la nostra
vita sulla grande bilancia del destino, se così deve essere, e allo stesso
tempo esultare per lo splendore di ogni nuovo giorno e per la bellezza di ogni
nuvola.
Rosa Luxemburg era in prigione quando scrisse queste parole.
Un passaporto è un libretto con dentro dei timbri. In pratica, serve a
dimostrare che siamo vivi. Se lo perdi, per il resto del mondo è come se fossi
morto. Non hai il permesso di andare in altri Paesi. Sei obbligato a lasciare
il Paese in cui ti trovi, ma non hai il permesso di entrare in un altro.
Purtroppo, Dio ci ha fatti creature di terra. E ora io prego di nascosto ogni
sera che in futuro la gente possa essere in grado di sopravvivere galleggiando
in acqua per anni e anni, o di muoversi volando nel cielo. Quando ero piccola,
mia madre mi leggeva la Bibbia. Nella Bibbia c’è scritto che Dio ha creato il
mondo, ma non si parla di confini.
Questa è Irmgard Keun, nel 1938.
Ma alla fine è tutta una questione di traduzione, e le cose da tradurre
sono tantissime. Perché la verità è che non lavoriamo in uno spazio vuoto, ma
lavoriamo dentro la vita. La traduzione è un atteggiamento a lungo termine nei
confronti della vita. E questa lingua universale dell’artista… l’arte è
praticamente l’unica lingua che le nazioni riescono a parlare tutte insieme
senza litigare.
Questa è Barbara Hepworth, dopo la seconda guerra mondiale.
MYSTIC ERASER [«GOMMA DA CANCELLARE MISTICA», n.d.t.]
Parole scritte su una gomma da matita che ho trovato in cartoleria.
E infine:
Ultimamente sto riflettendo sul fatto che chi racconta storie ha la
responsabilità di essere ospitale.
John Berger, due anni fa.
Epifania. Una volta James Joyce ha detto una cosa che io trent’anni fa
scrissi su una cartolina con una foto di lui giovane e sbarazzino. La tengo
sulla mia scrivania, perché mi dà la forza di andare avanti nei momenti di
paura, di stallo o di abbattimento. A forza di scrivere, le cose buone
arrivano.
La mia versione è questa: A forza di leggere, le cose buone
arrivano.
Mettete a frutto questo dono. Leggete. Scrivete. Ricambiate il dono.
Metteteci tutti voi stessi.
(traduzione di Federica Aceto)
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