martedì 29 agosto 2017

Epifania! - Ali Smith


Epifania! Già da molto piccola sapevo cos’era, perché ho ricevuto un’educazione cattolica romana nella presbiteriana Scozia del nord. L’Epifania era una festa di precetto, cioè un giorno in cui si doveva andare a messa. Era una delle festività del periodo natalizio, anzi, era il giorno in cui si toglievano di mezzo le decorazioni, la Dodicesima Notte, il 6 gennaio, e stava quindi a significare che era tutto finito. Ma rappresentava anche, passati ormai il trambusto e il clamore del Natale e dell’ultimo dell’anno, una celebrazione dell’atto del donare, il suo perpetuarsi.
L’Epifania aveva anche un suo canto di Natale, con i tre re magi che, nella loro sapienza, attraversavano il mondo seguendo una stella ed entravano a far parte di una storia vecchia, vecchissima, gente che lascia il proprio paese e si mette in viaggio, niente posto alla locanda, un bambino così umile che era nato in una stalla ed era stato posato in una mangiatoia. Lo cantavamo alle elementari, nell’unica scuola cattolica nel raggio di chilometri, il che voleva dire che alla fine delle lezioni, davanti al cancello, c’era sempre qualcuno che si prendeva a cazzotti, le femmine come i maschi, con quelli delle altre scuole, perché noi eravamo diversi, oppure i diversi erano loro. Ma comunque, il 6 gennaio eravamo tutti seduti nella chiesa di St. Mary’s e intonavamo:
Siamo tre re, veniamo dall’Oriente
Portiamo doni, viaggiamo tra la gente
Tra campi e fonti, brughiere e monti
Seguendo sempre la stella lucente.
O stella della sera, stella preziosa
Cometa di regale bellezza luminosa
Che a ovest conduci, su di noi riluci
Guidaci verso la tua luce prodigiosa
Sapevamo cos’era l’oro e cosa poteva significare per un bambino povero, e il secondo re, nel suo verso, spiegava che il dono dell’incenso stava a significare la prossimità di un Dio. Ma la mirra, l’ultimo dono, era un regalo improbabile e oscuro da fare a un neonato, anche perché, secondo il re che la portava, la mirra «esala una vita di fitta tenebra / dolore, sospiri, sangue, morte / nel chiuso di una tomba gelida»
Ma tutto ciò conferiva un’aura di autenticità ai doni: doni che erano tutt’altro che frivoli, doni che non prendevano la vita sottogamba.
Ad ogni modo, una sera – avevo più o meno sette anni – ero in cucina e asciugavo i piatti insieme a una delle mie sorelle maggiori, che all’epoca ne aveva diciotto. Ero giù di corda per qualche motivo, probabilmente perché ero diversa, e lei, per tirarmi su, si mise a cantare questa canzoncina che aveva inventato lì per lì:
Siamo tre re, veniamo dall’oriente
Abbiamo una macchina che non vale niente,
Cerchiamo di salirci, ma siamo così grassi
Che dai e dai c’è il rischio che si scassi
Piccole piccole queste macchinette
Non puoi capire quanto sono strette
Cerchiamo di montarci, ma siamo così grassi
Rinunciamo e facciamo quattro passi.
Io mi buttai a terra, sul linoleum della cucina, e risi fino alle lacrime, fino a farmi venire il mal di pancia.
Ora so che quella sera mia sorella, regalandomi quei tre re, così più grandi e più grossi degli originali, ha avuto il ruolo di regina maga portatrice di doni. A modo suo aveva colto, a un livello molto profondo, qualcosa della mia natura, della natura della nostra famiglia, e della natura umana in genere: aveva preso una forma chiusa e l’aveva squadernata, creando una canzone nuova e facendo squadernare me dalle risate. Ora so che quel dono era il diritto di andare dove volevo. Era il dono della libertà di movimento, dell’adattabilità, della versatilità, della traduzione. In un certo senso, sì, rappresentava il superamento di un confine. E ora che ricordo questo episodio, per qualche istante attraverso tutta la mia vita a ritroso e torno ad essere quella bambina. Sono la me stessa bambina e la me stessa adulta, tutte e due insieme, e tutte e due siamo aperte più che mai non solo all’idea di essere vive, ma alla vita stessa. Epifania.
James Joyce ha pensato bene di rubare la parola epifania, e di porsela come ambizione ultima in ogni cosa che ha scritto. Per lui è l’attimo fatidico, quella frazione di secondo in cui il mondo, la parola e la nostra capacità di comprendere convergono fino a cancellare il tempo, facendoci entrare in uno stato che nella nostra lingua si indica con una parola che è sinonimo di dono, facendoci cioè entrare in un intenso tempo presente: la pura presentità, l’essere qui, l’essere questo. Virginia Woolf descriveva questo essere nel tempo e insieme al di là del tempo, questo essere pienamente noi stessi e allo stesso tempo di più, in quanto parte di qualcosa che è più grande di noi, «momenti d’essere».
Comunque, qui, ora, tra un momento, condividerò con voi un paio di quei milioni – letteralmente milioni – di momenti d’essere epifanici che ho vissuto, leggendo, nel corso delle ultime due settimane. Ne viviamo a migliaia ogni giorno, se ce ne concediamo l’opportunità. Io sono una scrittrice perché leggo, e per me leggere è tutto, che si tratti di libri, delle parole sul fianco delle penne e delle matite che usiamo, o sulle confezioni di cibo che compriamo, o delle parole che vediamo sullo schermo davanti al quale stiamo appiccicati o che illumina dall’interno la tasca della nostra giacca; in fatto di linguaggio, siamo creature porose, siamo come spugne, assorbiamo tutto, spesso senza rendercene conto, ed è per questo che una cosa scritta è in grado di farci provare letteralmente qualunque cosa: dal benessere al malessere, anche fisico. Vale la pena di ricordare, per esempio, che se un presidente scrive un tweet che, mettiamo, ha l’effetto di far sentire il mondo piccolo, insignificante, sminuito, diviso, inferiore, lo fa consapevolmente, perché far sentire il mondo più piccolo è una dimostrazione di potere.
Ma anche la lettura è potere. Quando leggiamo siamo più informati, più saggi e aperti, e soprattutto più flessibili e attenti nella nostra lettura del mondo; in realtà il mondo e il linguaggio, quando convergono – che la cosa avvenga in un tweet o in un libro di mille pagine poco importa – diventano enormi, diventano cornucopie, e lo stesso vale per noi, perché ognuno di noi è un’opera di infinito potenziale immaginativo, e – man mano che procediamo con la nostra lettura del mondo – tra i compagni più comunicativi, complessi e generosi che abbiamo c’è la grande e ramificata famiglia delle lingue. Se vivere ha un senso questo senso sta nell’energia, nella vita che prende forma quando una lingua e una persona, un momento, un’arte, un Paese, una molecola, una parola, incontrano un proprio simile e ci entrano dentro.
Sono i libri, e non gli scrittori, a produrre libri. I libri producono tutti i libri che verranno dopo di loro. I libri generano libri, e sono i libri e la lettura a fare di noi ciò che siamo, perché se è vero che noi creiamo forme, è anche vero che le forme creano noi, e tutte le arti s’impollinano a vicenda, è sempre stato così e sempre lo sarà, e mi viene da dire che se il ventesimo secolo, un secolo così disordinato, orribile, agitato, magnifico, meraviglioso, ci ha regalato qualcosa – se il ventesimo secolo, travestito da re magio, montasse in groppa a un cammello e attraversasse il mondo e andasse a far visita a ogni singolo neonato per portargli in dono qualcosa di utile – il suo dono sarebbe la scoperta del DNA, in altre parole, il dono della consapevolezza che siamo tutti – tutti noi esseri umani – una sola famiglia.
Ecco cinque cose che di recente mi hanno fatto accendere una lampadina sopra la testa, nel senso che mi hanno dato l’energia necessaria, grazie alla loro natura di epifanie: una vita da vivere, uno spirito da riconoscere, l’accettazione di certe verità, oscure o luminose che siano.
Essere umani è la cosa più importante di tutte. Significa saper essere risoluti, lucidi, e allegri, sì, allegri a dispetto di qualunque cosa, perché lagnarsi è da deboli. Essere umani significa lanciare con gioia tutta la nostra vita sulla grande bilancia del destino, se così deve essere, e allo stesso tempo esultare per lo splendore di ogni nuovo giorno e per la bellezza di ogni nuvola.
Rosa Luxemburg era in prigione quando scrisse queste parole.
Un passaporto è un libretto con dentro dei timbri. In pratica, serve a dimostrare che siamo vivi. Se lo perdi, per il resto del mondo è come se fossi morto. Non hai il permesso di andare in altri Paesi. Sei obbligato a lasciare il Paese in cui ti trovi, ma non hai il permesso di entrare in un altro. Purtroppo, Dio ci ha fatti creature di terra. E ora io prego di nascosto ogni sera che in futuro la gente possa essere in grado di sopravvivere galleggiando in acqua per anni e anni, o di muoversi volando nel cielo. Quando ero piccola, mia madre mi leggeva la Bibbia. Nella Bibbia c’è scritto che Dio ha creato il mondo, ma non si parla di confini.
Questa è Irmgard Keun, nel 1938.
Ma alla fine è tutta una questione di traduzione, e le cose da tradurre sono tantissime. Perché la verità è che non lavoriamo in uno spazio vuoto, ma lavoriamo dentro la vita. La traduzione è un atteggiamento a lungo termine nei confronti della vita. E questa lingua universale dell’artista… l’arte è praticamente l’unica lingua che le nazioni riescono a parlare tutte insieme senza litigare.
Questa è Barbara Hepworth, dopo la seconda guerra mondiale.
MYSTIC ERASER [«GOMMA DA CANCELLARE MISTICA», n.d.t.]
Parole scritte su una gomma da matita che ho trovato in cartoleria.
E infine:
Ultimamente sto riflettendo sul fatto che chi racconta storie ha la responsabilità di essere ospitale.
John Berger, due anni fa.
Epifania. Una volta James Joyce ha detto una cosa che io trent’anni fa scrissi su una cartolina con una foto di lui giovane e sbarazzino. La tengo sulla mia scrivania, perché mi dà la forza di andare avanti nei momenti di paura, di stallo o di abbattimento. A forza di scrivere, le cose buone arrivano.
La mia versione è questa: A forza di leggere, le cose buone arrivano.
Mettete a frutto questo dono. Leggete. Scrivete. Ricambiate il dono. Metteteci tutti voi stessi.

(traduzione di Federica Aceto)


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