martedì 29 agosto 2017

Tanti modi per uccidere un negro... - intervista a James Baldwin (1967)

«Se questo Paese si perde anch’io mi perdo»: un’intervista italiana – del 1967 ma impressionante a leggerla oggi- a James Baldwin

«Dov’è che finisce un bianco, e dove comincia il negro?» si chiede James Baldwin, e aggiunge: «Se l’America si perde, mi perdo anch’io». Queste due frasi rappresentano i limiti del dibattito appassionato in cui Baldwin mette a nudo il suo cuore. Mentre a New York, nelle periferie e nei ghetti degli Stati Uniti volano i mattoni delle sommosse estive, James Baldwin, ci parla di questa lunga tragedia che continua a ripetersi. La rabbia di Newark, l’esasperazione di una popolazione negra umiliata che comincia ad aver coscienza di se stessa trovano in questa intervista una voce appassionata ma razionale. Ascoltiamola…    
Com’è il pubblico dello scrittore negro americano?
è difficile da definire; se per lo scrittore afro-americano esiste un certo pubblico, il rapporto che si stabilisce non è tanto con lo scrittore, quanto in funzione della ricerca di un’identità. L’utilità  di uno scrittore consiste precisamente nel contributo che egli fornisce agli altri per aiutarli a trovare la loro identità. Il pubblico dello scrittore negro americano? Qualche bianco che si sente colpevole e pieno di rimorsi, qualche società, l’FBI, la CIA, e qualche individuo che conosce abbastanza la vita da capire perchè gli altri scrivono. In ogni caso qualunque scrittore, quale che sia la sua reputazione o il numero dei suoi libri, ha un pubblico molto ristretto. Non si può parlare, in America, di analfabetismo nel senso stretto del termine, ma di una specie di analfabetismo che l’America stessa ha inventato. Credo che nel mondo esistano due tipi di analfabetismo, il primo è ben conosciuto: si tratta del problema delle masse contadine che non sanno leggere né scrivere; questo è l’analfabetismo reale, e per i paesi dov’esso si riscontra il problema più importante è di sapere cosa leggerà  il popolo, quando potrà  leggere. Ma il problema dell’analfabetismo degli americani è molto più grave; si può insegnare a leggere al contadino turco, ma che cosa si può fare quando ci si trova davanti a un uomo che per tutta la sua vita ha letto soltanto il Reader’s Digest e Life Magazine? Si tratta di un analfabetismo ben diverso…
Quali sono le reazioni, le resistenze che ha incontrato per i suoi libri, per i temi che lei ha affrontato?
Per tanto tempo ho subito tante pressioni che mi è difficile parlarne. Non leggo più la mia corrispondenza: lo fa mia sorella, che è anche la mia segretaria. Ricevo lettere che minacciano: «Ti prenderemo». Mia madre ha dovuto cambiar casa due volte, prima che io gliene comprassi una; ho dovuto far cancellare il suo numero telefonico dall’elenco perché le telefonavano continuamente per dirle quel che avrebbero fatto a suo figlio se gli avessero messo le mani addosso…
Queste sono le minacce più brutali, al più basso livello. Vi sono altri tipi di minacce… più sottili e subdole, ma non per questo meno inquietanti.
Ricordo sempre quel che m’è capitato ad un cocktail molto mondano, molto “liberal”, cinque o sei anni fa. C’erano persone “celebri”, delle quali non voglio fare i nomi. Non è per amarezza che dico quanto è difficile (e pochi se ne rendono conto) essere uno scrittore negro. E’ difficile essere un negro famoso perchè si entra a far parte di un gruppo che vi considera come una minaccia per i suoi interessi. Da una parte, c’è gente che guadagna molto danaro con il vostro lavoro, dall’altra però questa gente sa che se dovesse applicare in concreto quel che si scrive, i loro “affari” andrebbero alla malora. Dunque, io ero stato invitato a quel cocktail nella mia qualità  di “scrittore negro”. Quello stesso giorno avevo avuto un incidente con un conducente di tassì che aveva insultato i miei fratelli. Ero perciò arrivato al cocktail piuttosto arrabbiato e non mi sentivo per niente disposto a farmi appiccicare l’etichetta di “scrittore negro”, con tutto quel che significa negli USA una definizione del genere. Un’ora o due dopo, qualcuno fece un’osservazione; non ricordo più cosa disse, e non ricordo che cosa gli risposi. Comunque, mi ricordo che gli parlai con astio, vendicandomi su di lui per l’insulto che il tassista aveva fatto ai miei fratelli; e le mie parole risentivano di questo fatto, io ne avevo fatto una questione personale. In ogni modo non seppi esprimermi diversamente. Allora il mio interlocutore mi fece osservare: «Perché te la prendi, Jimmy? Tanto tu sei arrivato». Gli ho voltato le spalle. Ecco un esempio delle resistenze di cui ho parlato. «Arrivato». Ma a che cosa, santo Dio?
 In che modo lei ha trasposto nella sua opera di romanziere queste reazioni e queste resistenze?
In Gridalo forte (la mia prima opera pubblicata; il titolo originale era Go tell it on the mountain) ho cercato di affrontare le cose che mi ferivano di più. A quello stadio della mia vita ero alle prese con l’immagine di mio padre, l’immagine ambivalente di tutti i padri modellati dall’eredità  storica afro-americana. Volevo bene a mio padre – e l’odiavo. Mio padre mi voleva bene – e mi odiava. Per me era il simbolo dell’ostacolo che dovevo imparare ad affrontare prima di poter fare qualcos’altro. Non sono mai stato contento di questo libro, come del resto neppure degli altri libri che ho scritto. Ma quel libro mi ha permesso di scoprirmi; ero in uno stato di rabbia furiosa e, costasse quel che costasse, dovevo trovare il modo di esprimermi e quindi di liberarmi. Era come se avessi avuto in mano una bomba che poteva farmi saltare in aria da un momento all’altro se avessi imparato a servirmene. Quindi dovevo mettermi a scrivere. Siccome bollivo, dovevo costringermi a esser freddo. Dovevo sforzarmi a comporre una frase, ad esprimere quello che si agitava dentro di me, che mi veniva dai miei antenati…
Avevo già  scritto vari saggi. La mia prima raccolta di saggi è stata pubblicata nell’intervallo fra il primo e il secondo romanzo. Dovevo però risolvere un altro problema, il più intimo. I miei rapporti con me stesso, con i miei fratelli, le mie sorelle, i miei rapporti con gli uomini e le donne, il sesso, che rimane un problema fintanto che ci si rifiuta di affrontarlo. Perché è difficile esser allo stesso tempo bianco e negro, maschio e femmina, in un senso che va oltre la biologia. Nel senso in cui l’artista è maschio come è femmina. E’ una cosa di cui si deve tener conto, ma nel contesto culturale che mi definisce, praticamente mi è impossibile assumere questa realtà . Perciò ho scritto La stanza di Giovanni. Dovevo affrontare il tema dell’omosessualità. Io non considero La stanza di Giovanni come un vero e proprio romanzo; ma è il mio preferito perché è stato il più difficile e il più pericoloso da fare, per quel che mi riguarda. Tutti mi dicevano: «Guarda che comprometti la tua carriera. Sei uno scrittore e hai bisogno di un certo tipo di pubblico, non devi alienartelo. Non pubblicando questo libro, noi ti facciamo un favore». Infatti in un primo tempo avevano rifiutato di pubblicarmelo, ho dovuto costringerli. La verità  è che La stanza di  Giovanni mi ha messo in crisi: per di più lo stesso anno tornai in America e per la prima volta andai nel Sud degli Stati Uniti. Tutto questo spiega che a quell’epoca ero un tipo tormentato, tormentato a causa della carriera e a causa di me stesso: allora deliberatamente feci cadere la finzione, e scrissi un’autobiografia intitolata Nessuno sa il mio nome; nello stesso tempo lavoravo per il teatro con Elia Kazan. Nessuno sa il mio nome è stato un’altra pietra miliare della mia vita: fino a un certo punto questo libro ha contribuito a combattere il clima morale che allora regnava nel paese.
Mi aspetto tante conseguenze, sul piano sociale, dall’atto di scrivere! Non si scrive per esibirsi; si scrive perchè si deve, perchè bisogna registrare e tradurre quel che si vede. Così ho terminato Un altro paese (in Italia: Un altro mondo), che mi ha gettato su un’altra isola deserta… Diventai allora quel che si chiama un uomo celebre, una personalità  in vista, con tutto quel che segue. Ma non ero più molto giovane; leggendo le biografie degli scrittori americani constatai che quasi tutti son morti intorno ai quarant’anni. Mi chiesi allora che cosa sarei diventato, perchè allora avevo eccellenti ragioni per partecipare più risolutamente che mai alla lotta per i diritti civili, inquadrato com’ero nell’obbiettivo dell’attualità . C’era una ragione molto semplice: con mia grande meraviglia avevo scoperto che si potevano raccogliere fondi servendosi del mio nome. Se il vostro nome può servire al successo di una colletta o a far liberare dei bambini prigionieri, voi non avete più il diritto di dire no, vero?
Mi misi a scrivere Blues per Mr. Charlie, cosa che mi salvò: infatti provocò un grandissimo scandalo. Perfino quella comunità  liberale che si vantava di avermi nutrito e “lanciato" mi voltò le spalle. Fu quella la cosa migliore che potesse capitarmi. Poi fui ricoverato in ospedale. E anche così si può ammazzare un uomo; naturalmente parlavano di super-affaticamento, di stanchezza mentale…
L’eroe di Blues è l’assassino bianco, il mio assassino. Volevo dimostrare che il mio atteggiamento nei confronti del governatore Wallace, di Lurleen Wallace, di Jim Clark, di Hoover o di Reagan non è indotto dai dati sociali che mi determinano. Queste persone non credono di essere degli oppressori o dei criminali. Come me essi sono soltanto il prodotto di una situazione storica! L’uomo che ha ucciso Emmett Till è una vittima della Storia come il ragazzo che ha ucciso. E’ facile dire che Jim Clark è uno psicopatico: in effetti lui lavora per conservare la società  americana. La vecchia immagine del caposquadra della piantagione e il governatore Wallace sono la stessa cosa: tutti e due sono degli assassini, allo stesso modo.
La nostra responsabilità? E’ di prender coscienza del fatto che questi crimini vengono commessi a nostro nome. Voi siete colpevoli, e noi pure siamo colpevoli, bianchi e neri insieme. La divisione tra bianchi e negri non significa niente.
Come interpreta lei l’evoluzione di Martin Luther King e le sue dichiarazioni circa la sua presa di posizione nei confronti della guerra vietnamita?
Ho visto giovani incolleriti, disperati, diseredati. Ho detto loro che le bottiglie Molotov e i fucili non avrebbero risolto i loro problemi, perchè ero convinto che il mutamento sociale si sarebbe verificato solo attraverso la non-violenza. Ma loro mi hanno chiesto, e avevano ragione: e il Vietnam? Mi chiedevano se la società  stessa non impiegava massicce dosi di violenza per risolvere i suoi problemi e promuovere i mutamenti che desiderava.
Le loro domande mi hanno sconvolto, e so che non potrò mai più levar la voce contro la violenza degli oppressi del ghetto senza prima rivolgermi esplicitamente a quello che è il più grande istigatore alla violenza che ci sia al mondo…
 Lei che cosa ne pensa?
Io non posso spiegare questo cambiamento. Il meglio che posso fare è di avvalermi della mia stessa esperienza. Martin è mio amico, io lo ammiro e lo rispetto malgrado le tante divergenze che ci sono fra noi. C’è stata un’epoca abbastanza recente in cui la gente al potere – voglio proprio parlare del governo americano (non tagli quel che sto per dire), del Pentagono, di tutti quei generali senescenti, di McNamara, di quegli uomini d’affari e dei milionari, di tutti quei bianchi incolti – un’epoca in cui speravano di servirsi di persone come Martin Luther King o me per controllare gli altri negri. Ma oggi questo non è più possibile. Comprare la gente non serve a niente.
Un esempio: quando Martin Luther King è andato a Chicago dopo la Marcia su Washington (si deve ricordare che su scala nazionale la prima reazione a questa marcia è stato l’attentato contro una chiesa di Birmingham, in cui morirono quattro bambine negre) un tizio gli ha detto: «Voi avete bisogno di fucili, non di sogni». Ed è vero. E scriva anche questo: la popolazione negra d’America, che fino ad ora è stata soltanto manodopera a buon mercato, è diventata oggi un’eccedenza economica: non si sa più cosa farne né come assorbirla. Essendo il nostro popolo quello che è, l’amministrazione – essendo quello che è – preferisce sterminarlo. Questa – e nessuno può dimostrare il contrario – è la storia del negro americano. E’ questo quel che si vuol dire quando si parla di un “cattivo negro”. Tutti i “cattivi negri” che si facevano prendere erano ammazzati. Ora una massa di “cattivi negri” viene arrestata, e nessuno può far nulla, si tratti di Martin Luther King o di chiunque altro. E’ lo sviluppo degli avvenimenti. Anche prima della Marcia su Washington, erano venuti a trovarmi dei politicanti… erano venuti da me, che non son mai stato quel che si dice un capo del movimento per i diritti civili, per chiedermi di bloccare la faccenda. Ho risposto: «Se potessi lo farei, ma la questione non è di volere, è di potere. Come voi, anch’io sono impotente».
Che cosa pensa del titolo del prossimo libro di Martin Luther King “Dove andiamo? Verso la comunità  o verso il caos?”
Questa è l’unica domanda che valga la pena di porre… Le persone che ho nominato, le ho nominate deliberatamente. Lyndon Johnson ha tutto il diritto di essere quel che è. Siamo noi che non abbiamo alcun diritto di mettere tanto potere in mani di quel genere. Non è lui che bisogna biasimare, né Reagan, né Lurleen Wallace, né Maddox. Il responsabile è il popolo americano, i responsabili siamo noi.
E che cosa ne dice del movimento del Potere nero?
Black power” significa semplicemente una cosa che il resto del mondo non ha mai potuto concretizzare, pur vantandosi di farlo. Significa l’autodeterminazione dei popoli, né più né meno. E questo ci porta diritti al problema della riorganizzazione delle forze presenti nel mondo. Io sono incapace di condannare quelli che non possono far fronte a questa realtà. Eppure la realtà  esiste: l’Africa del Sud esiste ancora per eccellenti ragioni, non perché i sudafricani siano malvagi, ma perchè non avevano i mezzi per vivere in Europa dopo la rivoluzione industriale. E’ questo il significato del fatto coloniale. Quelli che possedevano le macchine andavano a cercare quelli che non le possedevano, e li sfruttavano. Parigi, Londra… tutte le capitali occidentali sono state costruite con questo sudore. Lo ha detto Winston Churchill, e lo ha detto Eisenhower…
 Il problema dell’autodeterminazione, come lo definisce lei, non si pone forse in termini più drammatici per la comunità  negra d’America?
Non c’è una comunità  negra d’America. C’è una cosiddetta comunità  negra, ma non si può usare il termine “negro” per definire qualcuno. La realtà  prima della vita americana è che nessuno sa a che punto finisca in lui il negro e cominci il bianco.
Ma il razzismo crea un muro?
Non è solo una questione di razzismo. C’è molto di più. La psicosi è questa: per esempio, io so che questa bambina negra seduta davanti a me è mia sorella o mia figlia – e, reciprocamente, lei sa che io sono suo fratello, o suo padre, o suo cugino – e malgrado questa consapevolezza, la relazione che c’è tra noi è quella che c’è tra padrone e schiavo; malgrado questa consapevolezza, noi ci linciamo l’un l’altro. E’ la storia di Faulkner, è la storia di Richard Wright.
 Qual è la situazione oggi? Ci sono nuove prospettive, malgrado le sommosse e le morti inevitabili?
Il tempo ha dato ad alcuni- forse però non a un’intera generazione – la tardiva certezza che essi sono uomini… Sì, parliamo della giovane generazione. Stokely Carmichael ha preso alla sprovvista i bianchi. Quanto a me, non può certo sorprendermi. Il conflitto si riassume come segue: esaminate una qualsiasi nazione, e scoprirete che si tratta di una struttura arbitraria creata da un processo storico.
Così la Francia: una nazione che comprende la Bretagna e Marsiglia e Nizza, acquistata così tardi, e deriva semplicemente dai conflitti fra regni feudali, né più né meno. Così è tutta la storia d’Europa. La nazione più arbitraria di tutte è stata quella di Bismarck: creata con un fiat lux, per decreto. E non parliamo della nazione americana. Poi, questi pretesi insiemi hanno contaminato il mondo intero con questo concetto. Così per la giovane generazione, il problema non si pone in termini di bianchi e negri.
Che cosa ne pensa della definizione data da Max Roach per il potere negro nell'arte: «La cultura negra ha invaso la società  bianca entrando dalla porta di servizio. I cantanti della “generazione beat” cantano negro senza saperlo»?
E come! e l’orrore massimo è che lo fanno senza rendersi conto. Non lo sanno. C’è un tizio che si guadagna la vita – e che vita – semplicemente imitando Bessie Smith. E l’orrore di questa mascherata non è tanto la ben nota atrocità  della sua morte, ma il fatto che si sfrutta freddamente una cosa che è stata creata con l’anima. Se quel tizio prendesse coscienza della truffa che commette, si ammazzerebbe. Tutta la repubblica americana si fonda su menzogne di questo genere. Ciò dimostra a tutto il mondo che non ci sono mai stati assassini, permette loro di aver la coscienza tranquilla e di dormire la notte. Ma se – come Malcolm X – si fa semplicemente notare che non c’era niente di bello nel lavoro di piantagione, e che la raccolta del cotone non si faceva per amore ma per vantaggio, che il negro cantava sì canzoni allegre, ma sotto la frusta… insomma se fate osservare tutto questo, voi colpite duramente la loro tranquillità , la loro comodità , il loro sonno.
Gli americani non possono affrontare le loro menzogne, ed è questa l’accusa più severa che si può rivolgere a un popolo. Noi siamo loro fratelli, loro sorelle, figli e figlie rinnegati; e, ancor peggio, siamo loro fratelli, sorelle, figli e figlie massacrati… e loro non hanno il coraggio di riconoscerlo.
Abbey Lincoln parlava delle stesse cose quando parlava delle donne negre alle quali davano bambini bianchi da allattare …
Quei bambini bianchi che bevevano il latte di quelle donne negre sono cresciuti. E hanno linciato e violentato i figli negri delle loro nutrici negre. Ecco l’ironia. Se rifiuteranno di riconoscerlo periranno, sono dei condannati in potenza. Essendo io quel che sono, anch’io sono condannato. Ma almeno io ho il vantaggio di saperlo.
Lei negro crede veramente d’essere un condannato?
 Io sono un americano; non andrei a Pechino, non andrei a Mosca. Non vi è una seconda nascita. Potrei andare in questi posti, temporaneamente, per lavorare o insegnare. Ma resto americano. Non abbandonerei l’America… non potrei concepire il ripudio, né l’abdicazione. Perchè l’America non è ancora fatta, ed anch’io voglio farla. Perchè il padre del padre di mio padre ha vissuto qui e qui è morto. Questo paese mi appartiene e io gli appartengo. E io non cercherò di uscirne. E se questo paese si perde anch’io mi perdo. Almeno questa è una cosa della quale io sono persuaso.

(*) ripresa da «www.pabuda.net» dove è presentata così: «da L’Astrolabio, numero 30, anno V, 23/7/1967, pagg. 31-34; sulla rivista non è indicato il nome dell’autore dell’intervista; in compenso, posso aggiungere che il direttore, all’epoca, era Ferruccio Parri».
da qui

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