Ci sono due
modi di affrontare la questione immigrati: ponendoci l’obiettivo di toglierceli
dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio. In un caso pensiamo solo per
noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad oggi sembra prevalere
l’egocentrismo.
A nostro favore
c’è che da anni siamo porto di sbarco per
centinaia di migliaia di profughi che tentano la traversata via mare. Ma
il persistere di un impianto organizzativo improntato a criteri di
provvisorietà denota che non siamo mai entrati nell’ordine di idee di voler
fare accoglienza metodica e duratura. In realtà ci limitiamo a tamponare di mala voglia una situazione che ci dà solo fastidio. Eppure nel suo ultimo
rapporto al Parlamento, Tito Boeri ci ha ricordato che degli immigrati non possiamo fare a
meno. Se scomparissero, l’INPS perderebbe ogni anno 8 miliardi di
euro con gravi problemi per il sistema previdenziale italiano. Ma la durezza di
cuore continua a farla da padrona e anziché
investire in formazione, occupazione e incontro culturale, elementi indispensabili
per una serena convivenza, preferiamo spendere in altre direzioni.
Il
rafforzamento delle frontiere, ad esempio, (fra il 2005 e il 2016 il bilancio
di Frontex è aumentato del 3688% passando da 6,3 a 238,7 milioni di euro)
e il sostegno ai governanti africani
affinché impediscano ai migranti di raggiungere il Mediterraneo. Non importa se facendoli morire di fame e di sete nel
deserto, o facendoli morire di sevizie nei carceri-lager. Come se non bastasse,
abbiamo deciso di imbrigliare le
organizzazioni non governative in un sistema di lacci e lacciuoli che rendono
le loro operazioni di salvataggio più difficili e abbiamo deciso di
inviare le nostre navi da guerra in acque libiche per bloccare i barconi in
partenza. Il che mostra che il nostro obiettivo non è l’accoglienza bensì il
respingimento.
Ma sotto sotto non ci sentiamo a posto e ci siamo
fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra coscienza. La prima giustificazione che
ci siamo creati è che l’obbligo di accoglienza vale solo per i rifugiati
politici, mentre abbiamo il diritto di respingere i migranti economici, coloro,
cioè, che sono in cerca di migliori condizioni di vita. L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se
questa regola venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci
l’espulsione di ben quattro milioni di connazionali. Nel solo 2015
gli italiani che sono andati all’estero per trovare una prospettiva di vita,
sono stati 107mila, per il 36% giovani fra i 18 e i 34 anni. Per non parlare
delle migrazioni interne: nel 2014 le persone che hanno cambiato il proprio
comune di residenza sono state un milione e 300mila.
Da sempre
abbiamo considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se
volessimo negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale
libertà, dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle
persone. Ma forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha accecato a tal punto
da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione tutta rivolta
alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e
della giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà. Posta la ricchezza al primo posto, è scomparso
l’essere umano ed è rimasto solo il portafogli. Automaticamente abbiamo diviso
l’umanità in chi ha e chi non ha. I primi li accogliamo a braccia aperte per
avvantaggiarci dei loro denari. I secondi li mettiamo alla porta per paura di
dover condividere con loro i nostri denari.
Ma non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte,
più inneschiamo situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Ci sarebbe un modo molto
semplice per mettere fine al caos che abbiamo creato: aprire le nostre
frontiere. I migranti che scelgono la via del deserto non sono né masochisti,
né amanti dell’illegalità. Sono dei forzati
alla clandestinità perché le vie di ingresso ufficiali sono precluse. Se
potessero arrivare in aereo con regolare passaporto, sarebbero ben felici di
farlo. E se in Italia non trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne
andrebbero dove il lavoro c’è, perché la loro vocazione non è né quella
dell’accattonaggio, né del brigantaggio. Sono
persone in cerca di un lavoro per mantenere le loro famiglie rimaste a casa.
Che le cose
stiano così lo sappiamo molto bene anche noi, tant’è che il secondo alibi che
ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a casa loro. E se lo diciamo è perché
abbiamo ben chiaro che nessuno di loro affronta un viaggio così pericoloso per
fare una passeggiata, ma per sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle
guerre, ora alla repressione politica, ora alla mancanza di prospettiva di
vita. Ciò che non diciamo è che questa situazione
l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La
storia, alla fine presenta sempre il suo conto. Per questo l’
“aiutiamoli a casa loro” è un alibi per farci sentire autorizzati ad attuare la
repressione in nome di una carità che non risolverà niente. Per bene che vada,
la carità tampona le emergenze, non risolve i problemi di fondo.
L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura
transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo parte attiva,
addirittura i suoi artefici.Per risolverla, dunque, è da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto
produttivo e di consumo, dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti
commerciali, dal nostro assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi
corruttivi e di rapina. Lo
slogan giusto è “cambiamo le cose qui affinché cambino là”.Per partire
dovremmo porre uno stop serio alla
vendita di armi e subito dopo dovremmo avviare nuovi rapporti economici. Dovremmo
stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi
equi e stabili ai produttori, dovremmo imporre divieti alla finanza speculativa sulle
materie prime, dovremmo smetterla con accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari
e a prendersi le loro terre, dovremmo punire
le nostre imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere
globali, dovremmo smetterla di imporre accordi commerciali che favoriscono i
nostri prodotti e distruggono le loro economie, dovremmo vigilare da vicino gli
investimenti esteri delle nostre imprese per impedire comportamenti corruttivi
a vantaggio di pochi capi locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali.
Dei 181mila disperati sbarcati sulle nostre coste
nel 2016, il 21% erano nigeriani. Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una
delle più grandi economie africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo
Lamido Sanusi, ex-governatore della banca centrale nigeriana, nei soli anni
2012-2013 sono stati sottratti alle casse
pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio.Soldi
finiti sui conti cifrati aperti da personalità di governo in Svizzera, Londra,
e altri paradisi fiscali. Con la complicità delle grandi banche internazionali.
E non solo. Nel maggio di quest’anno i massimi dirigenti di ENI sono stati
rinviati a giudizio con l’accusa
di avere versato, assieme a Shell, una tangente da 2 miliardi dollari a
politici nigeriani per ottenere lo sfruttamento di un giacimento petrolifero. Eppure in forma diretta e indiretta, l’ENI appartiene
per il 30% allo stato italiano, che evidentemente non ha controllato. E’
proprio il caso di dire “aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra”.
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