Non è ancora possibile a questi mascalzoni
irrompere in casa nostra per cercare di indottrinarci. E per fortuna non gli è
ancora permesso infilarci nel cervello un chip con la loro
diabolica propaganda di guerra. E allora, cosa stanno cercando di fare? Cercano
di cambiarci le parole, di sovvertire il nostro vocabolario, fanno guerriglia
lessicale, insomma.
Per me, ormai, non è più un problema. A questa
età so difendermi molto bene dalle parole pericolose. Le identifico subito, e
non le adopero mai più. Ho un cestino della spazzatura pieno di “portaerei”,
“truppe speciali”, “kamikaze” e “terroristi”. E lo conservo sempre ben chiuso.
Quando mi arriva un “camion bomba” o un “kalashnikov” li piego a metà, poi li schiaccio
come faccio con le bottiglie vuote di acqua minerale, e li butto nel cestino. A
volte queste parole arrivano a casa mia urlando, eccitate, ma basta loro
un’occhiatina intorno per capire dove si trovano e camminano dritte verso il
cestino cadendoci dentro come se svenissero. È successo così con “talebano” e
con “intelligence”.
Il problema è la mia nipotina Sara, che spesso
vado a prendere a scuola. Lei ha sette anni e fa la seconda elementare proprio
qua vicino. Mia figlia lavora, non tutti i giorni, ma quasi, e così la bambina
all’uscita dalla scuola trova il nonno felice ad aspettarla vicino al cancello,
insieme agli altri nonni. Poi, porto Sara a casa nostra, le preparo da
mangiare, mangiamo insieme, chiacchieriamo, e alla fine l’aiuto con i compiti
fino al ritorno della sua mamma nel tardo pomeriggio. Sono queste le ore più
deliziose di ogni mia giornata.
Però, guardate un po’ cos’hanno provato a fare
i mascalzoni: hanno provato a usare la mia nipotina come portatrice di parole
contaminate, di un vero dizionario radioattivo. Riempiono il suo piccolo
cervello di quelle mostruosità lessicali che non sono ancora riuscito a capire
bene da dove le arrivino. Magari dal telegiornale che sua mamma guarda tutte le
sere, o forse dalle notizie che interrompono in continuazione i suoi cartoni
animati, o forse ancora a scuola, dalle povere maestre che entrano in classe
smarrite, sconvolte, traboccanti di aggettivi magniloquenti come
un’incoronazione e da nomi propri farciti di “k” e di “y”.
Fatto sta che la bambina, all’ora di pranzo,
lascia ogni tanto cadere sul suo piattino un “tritolo”, un “nascondiglio”, un
“ultimatum”. E io le spiego subito che probabilmente aveva capito male: non è
“tritolo”, ma “triciclo”, né “nascondiglio” ma “nascondino”, e al posto di “ultimatum”
sono sicuro che si tratta di un “compleanno”. Lei mi guarda e mi sorride, e
all’improvviso sul suo piatto restano solo patatine, carote e bastoncini di
pesce.
Ma le parole invadenti insistevano e colpivano
forte, e con tanti di quei “mortai” e “Nassiriya” e “Al Qaeda” non bastavano
più i miei chiarimenti durante il pranzo. Rimaneva sul tavolo sempre qualche
“Bush”, qualche “Bin Laden”, insieme alle briciole della torta di verdura.
Allora mi è venuta l’idea della lavagna. Ho
messo accanto alla libreria una lavagna, con un gessetto rosso e uno bianco.
Tutte le volte che Sara pronunciava una di quelle parolacce, io la scrivevo
sulla lavagna in rosso, e la lasciavo lì. Fino a che, dopo aver finito il
compito a casa, andavamo insieme a guardare la nostra lista di parole brutte,
la cancellavamo e la sostituivamo con un’altra più simpatica, scritta con
gessetto bianco.
Le tre prime parole erano “esplosione”,
“martirio” e “catastrofe”. Le abbiamo cancellate e abbiamo scritto “zucchero
filato”, “liquirizia” e “popcorn”. “Reticolato” è diventato “stracciatella”;
“violata” è cambiata in “violetta”; “kamikaze” in “pulcinella”; “morte” era a
volte “coccodè”, a volte “trottola”, a volte “bombolone”; e “bara”,
logicamente, diventava “Sara”.
Mia figlia, quando ha visto la lavagna per la
prima volta, mi ha detto: “Ma, papà, queste sono cose che esistono davvero”.
“Eh no, che non esistono. Prima di tutto, non sono mica ‘cose’, sono solo
parole, non vedi? Poi, dove vuoi che esista un ‘grande spirito di sacrificio’? In
cima agli alberi? In fondo al lago? Dimenticato sulla panchina del giardino?
Queste sono solo parole brutte, avvelenate, sai? Se le cestiniamo, vedrai che
respiriamo tutti meglio.”
Sì, perché io, alle parole brutte, non lascio
scampo. Conosco le parole. Eccome! Le prendo al laccio, come un buttero a
cavallo nella macchia (ma ditemi voi, non è molto meglio “buttero” di
“marine”?).
Sì, sì. Le parole con me non hanno vita
facile. Se si comportano male, se si sporcano, se mordono, se impazziscono, ho
il mio gessetto già puntato su di loro, certo meglio di quanto non riescano i
mascalzoni puntando su di noi i loro missili terra-aria. Ho detto “missili
terra-aria”? Mah… Forse pensavo solo al “micio”, che quando è spaventato salta
sul muro del giardino.
Lucca, il 20 Novembre 2003
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