giovedì 14 settembre 2017

La scuola delle fondazioni - Matteo Saudino

Quel mercoledì mattina di un ottobre torinese soleggiato e senza nebbia – perché la Torino della nebbia è ormai un lontano ricordo degli anni ottanta come la scala mobile salariale o le spalline sotto le giacche e i capelli cotonati – avevo programmato per la mia IV C del liceo scientifico, una lezione rigorosamente frontale (finché non sarà illegale io continuerò a farne, almeno una ogni tanto) sull’invincibile Dottor Sottile. No, no, non fraintendetemi, non avevo deciso di trattare in classe la figura politica di Giuliano Amato, socialista craxiano, sopravvissuto a Tangentopoli e al declino e alla morte in terra marocchina del Bettino nazionale, che ha ricoperto per ben due volte la carica di primo ministro di governi tecnici “lacrime e sangue” per i lavoratori e che chissà per quale strano motivo, probabilmente il deserto culturale della classe politica italiana della cosiddetta seconda repubblica, era stato rinominato Dottor Sottile.

Il mio Dottor Sottile era, il ben più lontano nel tempo, Guglielmo da Occam, il raffinato pensatore inglese, il geniale filosofo tardo medievale che ha avuto l’onore di scrivere i titoli di coda della Scolastica, l’inventore del celeberrimo e liberatorio rasoio anti-metafisico, il quale si era conquistato tale sopranome sul campo, in quanto imbattibile nelle disputatio della sua epoca. La lezione era prevista per le 9. Dopo il primo caffè della giornata, mi recai, con sottobraccio il tablet in modalità registro datomi in prestito dalla scuola, previa stipula di un contratto che prevedeva penali in caso di furto, perdita e danneggiamento, in classe e… sorpresa! Non trovai nessuno: banchi vuoti, sedie vuote, Lim spenta (tanto era guasta da un mese) e un silenzio assoluto.

Conoscendo la mia scarsa propensione a leggere tutte le circolari (trattasi anche di una forma più conscia che inconscia di autodifesa psichica, poiché in alcuni istituti, in cui ho avuto il piacere di insegnare, la presidenza ha sfondato il tetto delle 230 circolari annue, le quali potevano arrivare a ogni ora del giorno, notte compresa), ho pensato che la classe fosse in uscita didattica, magari al museo del Risorgimento, o a una conferenza sulle energie rinnovabili. Che ingenuità! Che pensieri vecchi e banali.

La classe non era impegnata in attività derubricabili alla voce “perdita di tempo”, rispetto alle mission della scuola 2.0. La mia quarta stava partecipando a un incontro organizzato dalla fondazione di una celebre e potente banca torinese per promuovere un piano di risparmio e di accesso al credito facilitato, finalizzato a sostenere gli studi.

Basito, disorientato e infastidito chiedo alla mitica bidella in pantofole del primo piano, con un tono a metà tra la signora Rottelmeyer di Heidi e l’istruttore di Full Metal Jacket, come mai la IV C non fosse in classe, ma in auditorium. La risposta fu semplice ed esaustiva: “Professore, non lo sa che tutte le quarte avevano l’incontro con quelli delle banche?”. “Tutte? Ma chi ha deciso?”, risposi sbigottito e ancor più alterato”. “Prof”, continuò la bidella (a me piace ancora chiamarla bidella!), “la circolare della Preside parlava chiaro”. Ecco, lo sapevo, è sempre una fottutissima questione di circolari, che ormai appaiono on line inaspettate come Freddy Krueger in Nightmare. D’altronde la vita social è sempre una questione di circolari, sms, mail, messaggi WhatsApp o Messenger letti male, ignorati, rimossi o spediti alle persone sbagliate.

A questo punto non mi restava che cercare di capire cosa fare. Di fronte a me si aprivano quattro strade:

– far finta di niente, andare al bar a prendere l’ennesimo caffè, sedermi seraficamente in auditorium, indossare gli occhiali da persona colta e intelligente, correggere le verifiche della V B su Hegel ripetendomi nella testa che non sempre il reale è razionale, oppure sedermi in auditorium in ultima fila e leggere, neanche troppo di nascosto, qualche news e post su Facebook;

– entrare in auditorium come il mitico Bud Spencer in “Lo chiamavano Bulldozer”, inveire come Giordano Bruno quando viene arso vivo in piazza Campo dei fiori dalla Santissima Chiesa Cattolica Romana;

– entrare in auditorium e reagire come un padre che di fronte alla propria figlia si appresta a uscire con un ragazzo che la vuole condurre a un concerto di Gigi d’Alessio e portarla via con la forza, quasi bruta;

– entrare in auditorium, con una lanterna in pieno giorno, come il folle di Nietzsche, e annunciare la morte di Dio e contemporaneamente l’avvenuto tramonto dell’Occidente.

Alla fine scelgo una quinta via, inizialmente non prevista: mi siedo in fondo alla sala e, con rinnovata curiosità filosofica, inizio a osservare e ad ascoltare, come se fossi una sorta di tertius super partes. Di fronte a me si staglia la vincente figura di un trentenne, vestito finto casual con capi rigorosamente firmati, barba hipster che avrei voluto immediatamente rasare per rispetto alla mia barba tardo ottocentesca, il quale usa una neo lingua post orwelliana, fatta di parole vuote ma appariscenti e di stucchevoli slogan fondati sull’ideologia del successo e del merito come, ad esempio, “investi sul tuo futuro”, “metti in gioco i tuoi talenti”, “affronta la vita in modo dinamico”.

Dopo appena dieci minuti, un senso di nausea sartriana mista all’ira di Achille mi assale. Vorrei intervenire per smascherare le menzogne del moderno imbonitore al servizio delle banche. Vorrei gridare che non ho scelto di fare il professore nomade di filosofia per accompagnare gli studenti alla corte di fondazioni bancarie che invitano ad aprire un conto corrente legato allo studio! Sto per intervenire, sto per togliere le catene che mi sono auto-imposto quando, a squarciare il velo di Maya di tale fenomenica ipocrisia, giunge puntuale, come il controllore del bus quell’unica volta che non hai fatto il biglietto, la domanda di un allievo, all’apparenza dormiente. “Ma a cosa ci serve tutto ciò se in Italia non c’è lavoro? Se la disoccupazione giovanile è al 35 per cento? E se quando per miracolo riesci a lavorare sei precario e sottopagato. Mio fratello lavora per una cooperativa nelle biblioteche di Torino e si becca quattro euro e cinquanta l’ora”.

Di colpo un silenzio pesante come un macigno scende sull’auditorium. Il giovane saltimbanco delle banche, balbettando, tenta di sostenere che, quando si è in un periodo di crisi e vi è poco lavoro, è ancora più importante investire in formazione e nell’acquisizione di competenze, dunque la loro proposta di conto corrente agevolato e di prestito per studenti è un’occasione da non perdere, una porta da aprire sul futuro. Ma è tutto invano. L’incantesimo di plastica è ormai stato rotto dalla domanda dello scaltro e incauto studente. Al silenzio tombale segue il rumore di una platea a quel punto distratta, stanca e disillusa. Il campanello dell’intervallo scatena un fuggi fuggi generale, peggio di Caporetto, lasciando, vicino al pc e alle slide mestamente proiettate sullo schermo, il giovane laureato in economia in compagnia di un paio di studenti dall’aspetto “nerdoso”, i quali, più per un innato senso del dovere che per reale interesse, prendono le brouchures della fondazione bancaria, così come avrebbero preso i volantini di Tecnocasa o dell’Auchan.

Lentamente decido di avvicinarmi. “Buongiorno professore”, mi dice, con una sicumera minata dalla faticosa e infruttuosa prestazione con gli studenti, il giovane cantore delle opportunità del mercato del lavoro. “Buongiorno”, replico con moderata gentilezza. “Posso chiederle una cosa?” “Certamente mi dica, sono a sua disposizione”. “Ma lei, crede veramente in quello che dice e propone agli studenti?”. Il ragazzo della Fondazione subito mi guarda stupito e poi mi dice: “Non capisco, cosa vuole insinuare, perché mi chiede ciò?”. E io: “Sicuro di non aver capito?”. “Mi dispiace, ma non capisco proprio!”, mi risponde stizzito. Mi guardo intorno. Vedo il tecnico pronto a spegnere il proiettore, la bidella intenta a raccogliere un paio di cartacce lasciate a terra dagli studenti e non mi par vero di poter pronunciare la frase che Kirk Douglas pronuncia al termine di Orizzonti di Gloria al Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate francesi, il quale crede che il giovane colonnello abbia cercato di salvare la vita dei suoi soldati condannati a morte per codardia solo per mostrarsi coraggioso e intraprendente agli occhi dei generali e far così carriera militare. “Dispiace a me per lei, che non capisce”.

Metto lo zaino in spalle, raccolgo gli appunti su Guglielmo da Ockam, le verifiche di Hegel, e mi dirigo in terza C, nella speranza di poter leggere con gli studenti l’Apologia di Socrate, ma con l’incubo di trovarmi un promotore di Apple o Samsung che sta proponendo ai ragazzi uno stage in azienda.

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