martedì 12 settembre 2017

I signori dei disastri - Naomi Klein


«Dall’uragano Katrina alle crisi finanziarie,
alcune multinazionali statunitensi sfruttano
da anni le emergenze per imporre riforme
liberiste e fare enormi profitti, a spese dei
cittadini più poveri. Oggi i dirigenti di queste
aziende sono ai vertici dell’amministrazione Trump».


Nei viaggi che ho fatto per scrivere reportage dalle zone di crisi ci sono stati momenti in cui ho avuto l’inquietante sensazione non solo di assistere al succedere di un evento, ma di scorgere un barlume di futuro, un’anteprima di dove ci porterà la strada che abbiamo preso se non afferriamo il volante e non diamo una bella sterzata.
Quando sento parlare il presidente degli Stati uniti Donald Trump, che evidentemente si diverte a creare un clima di caos e destabilizzazione, penso spesso di avere già visto quella scena. Sì, l’ho vista negli strani istanti in cui ho avuto l’impressione che mi si spalancasse davanti il nostro futuro collettivo. uno di questi momenti arrivò a new Orleans dopo l’uragano Katrina, nel 2005, mentre guardavo calare sulla città inondata orde di mercenari armati. Erano lì per trovare il modo di guadagnare dal disastro, perino mentre migliaia di abitanti, abbandonati dal governo, erano trattati come pericolosi criminali solo perché cercavano di sopravvivere. 
E mi era successo anche nel 2003 a Baghdad, poco dopo l’invasione. In quei giorni l’occupazione statunitense aveva diviso in due la città. al centro, dietro enormi muraglioni di cemento e rilevatori di esplosivi, c’era la zona verde, un pezzettino di Stati uniti ricostruito in pieno Iraq, con bar che servivano superalcolici, fast food, palestre e una piscina dove sembrava che ci fosse una festa perenne. Oltre quel muro c’era una città ridotta in macerie dai bombardamenti, dove spesso mancava la corrente elettrica per gli ospedali e dove la guerriglia tra le fazioni irachene e le forze d’occupazione stava diventando rapidamente ingestibile. era la zona rossa.
All’epoca la zona verde era il feudo di Paul Bremer, che era stato assistente dell’ex segretario di stato Henry Kissinger e direttore della sua società di consulenza. era stato nominato dal presidente George W. Bush primo inviato statunitense in Iraq. Dato che non c’era un governo locale operativo, Bremer era in pratica il leader supremo del paese. Il suo era un impero totalmente privatizzato. In un elegante completo da uomo d’affari e anfibi da combattimento, era sempre protetto da una falange di mercenari vestiti di nero, che lavoravano per la compagnia militare privata Blackwater, oggi scomparsa (ha cambiato nome ed è stata comprata dal gruppo Constellis). La zona verde era gestita, insieme a una rete di altre aziende private, dalla Halliburton, una delle più grandi aziende al mondo per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. In passato era stata guidata da Dick Cheney, all’epoca vicepresidente degli Stati uniti. 
Quando i funzionari statunitensi si arrischiavano a uscire dalla zona verde, viaggiavano all’interno di un convoglio corazzato, circondati da soldati e mercenari che puntavano le mitragliatrici in tutte le direzioni. gli iracheni non avevano nessuna protezione, a parte quella fornita dalle milizie religiose in cambio della loro lealtà. Il messaggio lanciato dai convogli era forte e chiaro: alcune vite contano molto più delle altre. Bremer, al sicuro dentro la fortezza della zona verde, emanava decreti su come rifare l’Iraq trasformandolo in un modello di libero mercato. A pensarci bene, somigliava molto alla Casa Bianca di Donald Trump. 
Bremer decise che l’Iraq doveva avere una flat tax del 15 per cento (abbastanza simile a quello che ha proposto Trump), che i beni pubblici dovevano essere messi all’asta al più presto (Trump ci sta pensando) e che i poteri del governo dovevano essere drasticamente ridotti (la stessa idea di Trump). Senza mai perdere di vista i giacimenti di combustibili fossili in Iraq, era deciso a completare la ricostruzione del paese prima che la popolazione andasse alle urne, e aveva sempre l’ultima parola sulla forma che avrebbe avuto il futuro “libero” degli iracheni. 
Con una scelta particolarmente surreale, Bremer e il dipartimento di stato statunitense fecero arrivare dalla Russia gli stessi consulenti che avevano guidato il disastroso esperimento della “terapia d’urto economica”, una deregolamentazione intrisa di corruzione e di smania delle privatizzazioni che aveva fatto nascere la nota classe degli oligarchi russi. Dentro la zona verde gli ospiti, tra cui Egor Gajdar, noto come il “dottor Shock” russo, tennero per i politici scelti dagli statunitensi alcune conferenze sull’importanza di realizzare una profonda ristrutturazione dell’economia rapidamente e senza esitazioni, prima che la popolazione si potesse riprendere dalla guerra. Gli iracheni non avrebbero mai accettato queste misure se avessero avuto voce in capitolo (e infatti più tardi ne ripudiarono parecchie). Fu solo la crisi gravissima a rendere concepibile il piano di Bremer. 
In pratica, l’evidente proposito bremeriano di mettere all’asta i beni iracheni di proprietà dello stato con la scusa della crisi confermò il sospetto generalizzato che l’invasione servisse a mettere le ricchezze dell’Iraq a disposizione delle aziende straniere. Il paese stava sprofondando nella violenza. I militari e i mercenari statunitensi reagivano con altra violenza. Somme enormi di denaro sparirono nel buco nero degli appalti, soldi passati alla storia come i “miliardi spariti dell’Iraq”. 
Non fu solo la fusione senza soluzione di continuità tra potere delle multinazionali e guerra vera e propria a sembrarmi una finestra aperta su un futuro distopico tante volte immaginato dalla fantascienza e dai film di Hollywood. Fu anche l’evidente uso della crisi per imporre con la forza misure che non sarebbero mai state realizzabili in tempi normali. È stato in Iraq che ho maturato la tesi alla base del libro Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri(Rizzoli 2008). 
Inizialmente quel libro si sarebbe dovuto concentrare esclusivamente sulla guerra di Bush, ma poi avevo cominciato a notare le stesse strategie (e le stesse aziende, come Halliburton, Blackwater, Bechtel) nelle zone disastrate di tutto il mondo. Prima arrivava una grave crisi, una calamità naturale, un attacco terroristico e poi c’era la guerra lampo delle misure a favore delle multinazionali. Spesso la strategia dello sfruttamento della crisi era discussa alla luce del sole, non c’era alcun bisogno di formulare oscure teorie del complotto. 

Un copione chiaro
Man mano che scavavo più a fondo, capivo che questa strategia era stata l’alleata silenziosa del neoliberismo per più di quarant’anni. Le strategie dello shock seguono un copione chiaro: aspetti una crisi, dichiari un breve periodo di quella che a volte viene chiamata “iniziativa politica straordinaria”, sospendi alcune o tutte le regole della democrazia e poi imponi appena possibile le misure volute dalle multinazionali. La mia ricerca dimostrava che in teoria qualsiasi situazione difficile, se presentata con sufficiente isterismo dai leader politici, può lubrificare gli ingranaggi. Potrebbe essere un evento estremo come un colpo di stato militare, ma funziona molto bene anche uno shock economico come un crollo dei mercati o una crisi del debito. In un periodo di iperinflazione o dopo il crollo delle banche, per esempio, le élite di un paese sono state spesso in grado di presentare a una popolazione in preda al panico gli attacchi allo stato sociale o i salvataggi fatti con il denaro pubblico come misure indispensabili per tenere in piedi il settore finanziario privato, perché secondo loro l’alternativa era l’apocalisse economica. 
I repubblicani statunitensi alimentano l’atmosfera di crisi costante che circonda Trump per imporre molte politiche impopolari e favorevoli alle grandi aziende. E senza dubbio sarebbero pronti a muoversi con più decisione e rapidità se ci fosse uno shock esterno ancora più grande. Anche perché diversi ministri del governo statunitense sono stati protagonisti di alcuni dei più chiari esempi di dottrina dello shock della storia recente. L’attuale segretario di stato Rex Tillerson ha fatto carriera soprattutto sfruttando le opportunità create dalla guerra e dall’instabilità. La Exxon Mobil, di cui è stato amministratore delegato dal 2006 al 2017, ha guadagnato più di molte altre grandi aziende petrolifere grazie all’aumento del prezzo del greggio causato dall’invasione dell’Iraq nel 2003. Ha anche sfruttato direttamente la guerra in Iraq, ignorando i consigli del Dipartimento di Stato e facendo prospezioni nel Kurdistan iracheno. un’iniziativa che, scavalcando il governo di Baghdad, avrebbe potuto innescare una guerra civile e ha contribuito a far scoppiare il conflitto interno nel paese. 
Come amministratore delegato della ExxonMobil, Tillerson ha tratto vantaggi dal disastro anche in altri modi. Ha passato la sua vita professionale in un’azienda che ha deciso di finanziare e diffondere la disinformazione e studi scientifici falsi sul clima, anche se le ricerche dei suoi stessi scienziati confermavano che il cambiamento climatico causato dagli esseri umani era una realtà. Secondo un’inchiesta del Los Angeles Times, la ExxonMobil si è molto impegnata per capire come ricavare ulteriori profitti e come proteggersi dalla stessa crisi su cui gettava dubbi. Lo ha fatto con le perforazioni nell’artico (che grazie al cambiamento climatico si stava sciogliendo) e riprogettando un gasdotto nel Mare del Nord in previsione della crescita del livello delle acque e di uragani devastanti. Nel 2012 Tillerson ha ammesso pubblicamente che il cambiamento climatico è una realtà, ma quello che ha detto subito dopo è signiicativo: gli esseri umani come specie si sono sempre adattati, “quindi ci adatteremo anche a questo. Ci adatteremo ai cambiamenti climatici che toccano le aree agricole”. 
Tutto sommato ha ragione: gli esseri umani si adattano quando un territorio smette di produrre cibo. Lo fanno spostandosi. Lasciano la casa in cerca di posti dove vivere e nutrire se stessi e le loro famiglie. Purtroppo, e Tillerson lo sa bene, non viviamo in un’epoca in cui i paesi aprono volentieri le frontiere alla gente affamata e disperata. 
In realtà oggi Tillerson lavora per un presidente che ha definito i profughi in arrivo dalla Siria, un paese dove la siccità ha accelerato le tensioni che hanno portato alla guerra civile, dei cavalli di Troia del terrorismo. Questo presidente ha imposto un divieto d’ingresso temporaneo negli Stati uniti ai migranti siriani. Questo presidente, parlando dei bambini siriani richiedenti asilo, ha detto: “Posso guardarli dritto negli occhi e dirgli ‘non potete entrare’”. Questo presidente non ha cambiato idea neanche dopo aver ordinato il lancio di missili sulla Siria, in teoria spinto dalle immagini terriicanti degli attacchi con armi chimiche contro i bambini siriani, “bambini bellissimi” (ma non è stato abbastanza commosso da accoglierli insieme ai loro genitori). Questo presidente ha annunciato progetti per far diventare l’identificazione, la sorveglianza, la detenzione e l’espulsione degli immigrati i tratti distintivi della sua amministrazione. Dietro le quinte, senza fretta, sono pronti a entrare in azione molti altri componenti della squadra di Trump, estremamente abili nello sfruttare queste situazioni. 
Tra il giorno delle elezioni presidenziali, l’8 novembre 2016, e la fine del primo mese di amministrazione Trump, il 20 febbraio, le quotazioni in borsa delle due più grandi aziende carcerarie private negli Stati uniti, la CoreCivic e la Geo, sono raddoppiate, salendo rispettivamente del 140 e del 98 per cento. Perché sorprendersi? Se la Exxon ha imparato a guadagnare dal cambiamento climatico, queste aziende fanno parte della fiorente industria delle prigioni private, della sicurezza e della sorveglianza, un’industria che vede nelle guerre e nelle migrazioni – due fenomeni spesso collegati ai problemi climatici – altrettante interessanti e sempre più ghiotte opportunità di mercato. 
Negli Stati Uniti l’Immigration and customs enforcement (Ice), l’agenzia governativa che si occupa della sicurezza dei confini, ha mandato dietro le sbarre 34mila immigrati accusati di essere entrati illegalmente nel paese, il 73 per cento dei quali è detenuto in carceri private. Quindi non è affatto strano che le azioni di queste aziende siano decollate dopo l’elezione di Trump. Poco dopo hanno avuto altre occasioni per festeggiare: una delle prime cose che ha fatto il ministro della giustizia Jef Sessions è stata cancellare la decisione dell’amministrazione Obama di non usare prigioni private per i detenuti comuni. 
Trump ha scelto come viceministro della difesa Patrick Shanahan, un dirigente della Boeing che, a un certo punto, era stato incaricato di vendere costosi armamenti all’esercito statunitense, tra cui gli elicotteri Apache e Chinook. Shanahan ha anche supervisionato il programma di difesa con missili balistici della Boeing. Tutto questo fa parte di una tendenza più ampia. Come ha scritto Lee Fang sulla rivista online The Intercept nel marzo del 2017, “Trump ha militarizzato il cosiddetto sistema delle porte girevoli, piazzando in posizioni chiave del governo persone di aziende militari private e lobbisti e cercando di aumentare rapidamente le spese militari e i programmi per la sicurezza nazionale. Finora sono stati candidati o insediati almeno quindici funzionari che hanno legami economici con l’industria privata della difesa”. 
Il sistema delle porte girevoli (cioè il passaggio da incarichi pubblici ad aziende private e viceversa) non è nuovo, naturalmente. I militari in pensione trovano sempre lavoro e contratti nelle aziende del settore degli armamenti. La novità è il numero di generali sul libro paga delle aziende militari private che Trump ha inserito nel governo in ruoli in cui hanno la possibilità di stanziare finanziamenti, compresi quelli previsti dal piano per l’aumento delle spese per l’esercito, il Pentagono e il dipartimento della sicurezza nazionale, che vale più di 80 miliardi di dollari all’anno. 
L’altra novità sono le dimensioni del settore della sicurezza interna e della sorveglianza, cresciuto in modo esponenziale dopo gli attacchi dell’11 settembre, quando l’amministrazione di George W. Bush annunciò l’inizio di un’infinita “guerra al terrore” e garantì che tutto l’esternalizzabile sarebbe stato esternalizzato. Nuove aziende dai vetri oscurati sono spuntate come funghi velenosi per tutta la Virginia, e quelle già esistenti, come la Booz Allen Hamilton, sono entrate in nuovi mercati. Daniel Gross, in un articolo scritto nel 2005 per Slate, rese alla perfezione l’atmosfera di quella che tanti chiamavano la bolla della sicurezza: “la sicurezza nazionale potrebbe essere appena arrivata allo stadio toccato da internet nel 1997. All’epoca ti bastava sbattere una ‘e’ davanti al nome della tua azienda e il tuo collocamento in borsa schizzava alle stelle. Oggi puoi fare altrettanto con fortress (fortezza)”. 
Molti esponenti del governo vengono da aziende specializzate in alcune funzioni che, non molto tempo fa, sarebbe stato impensabile esternalizzare. Il capo dello staff del Consiglio Nazionale per la Sicurezza è Keith Kellogg, un generale di corpo d’armata in pensione. Tra i tanti incarichi di Kellogg nelle compagnie di sicurezza private c’è stato quello con la Cubic. Secondo l’azienda, Kellogg guidava “un progetto di addestramento al combattimento a terra ed era impegnato ad allargare la clientela mondiale della compagnia”. Se pensate che “l’addestramento al combattimento” sia un’attività che un tempo gli eserciti svolgevano in proprio avete ragione.


Cocktail velenoso

È interessante notare quante delle persone nominate da Trump vengono da aziende che non esistevano prima dell’11 settembre: l-1 Identity Solution (specializzata nella biometrica), Chertof Group (fondata da Michael Chertof, segretario per la sicurezza nazionale con George W. Bush), Palantir Technologies (un’azienda di sorveglianza fondata, tra gli altri, dal miliardario e cofondatore di PayPal Peter Thiel, un grande sostenitore di Trump). Le aziende che si occupano di sicurezza attingono pesantemente per il loro personale alle agenzie governative del settore militare e della sorveglianza. Con Trump molti lobbisti e dipendenti di queste imprese stanno tornando a lavorare per il governo, dove molto probabilmente cercheranno di avere altre occasioni per monetizzare la caccia a quelli che il presidente Trump ama definire bad hombres (uomini cattivi, i narcotrafficanti messicani). Questo crea un cocktail velenoso. Prendi un certo numero di persone che guadagnano direttamente dalla guerra in corso e le infili nel governo. Chi si batterà per la pace? L’idea che una guerra possa mai finire sul serio sembra una pittoresca reliquia di quello che negli anni di George W. Bush fu archiviato come “pensiero pre- 11 settembre”. 
Poi c’è il vicepresidente Mike Pence, considerato da tanti l’adulto nella classe indisciplinata di Trump. Eppure è proprio Pence, ex governatore dell’Indiana, ad avere il curriculum più inquietante quando si tratta di sfruttare senza pietà le sofferenze umane. Appena ho saputo che sarebbe stato lui il candidato alla vicepresidenza di Trump mi sono detta: “Conosco questo nome. l’ho visto da qualche parte”. Poi mi è venuto in mente. Era stato al centro di una delle storie più sconvolgenti che abbia mai seguito: lo sfrenato capitalismo del disastro legato all’uragano Katrina e all’inondazione di New Orleans. Le cose che Pence ha fatto speculando sulle sofferenze umane sono così agghiaccianti che vale la pena di analizzarle un po’ più a fondo, anche perché ci dicono molto su quello che possiamo aspettarci da quest’amministrazione nel caso di crisi più gravi. 
Prima di approfondire il ruolo di Pence, è importante precisare a proposito dell’uragano Katrina che, anche se in genere è definito una “calamità naturale”, non ci fu niente di naturale nelle conseguenze che ebbe su New Orleans. Quando Katrina si abbatté sulla costa del Mississippi, nell’agosto del 2005, era stato abbassato da uragano di livello 5 a un ancora devastante livello 3. Ma quando arrivò a new Orleans aveva perso quasi tutta la sua forza ed era stato declassato a “tempesta tropicale”. 
È un dettaglio importante, perché una tempesta tropicale non avrebbe mai sfondato le difese di New Orleans contro le alluvioni. Invece Katrina ci riuscì: gli argini artificiali che proteggevano la città non ressero. Perché? Oggi sappiamo che, nonostante i ripetuti allarmi sui possibili rischi, la manutenzione degli argini era stata insufficiente. I motivi erano due. Il primo era il disprezzo per le vite dei neri poveri del Lower Ninth Ward, la zona di New Orleans più a rischio in caso di cedimento degli argini. Questo faceva parte di una più ampia negligenza nella gestione delle infrastrutture pubbliche in tutti gli Stati Uniti, esito diretto di decenni di misure neoliberiste. Perché quando fai una guerra sistematica alla stessa idea di sfera pubblica e di bene pubblico, ovviamente l’impalcatura pubblica della società – le strade, i ponti, gli argini, i sistemi idrici – scivolerà in un tale stato di degrado che ci vorrà poco per superare il punto di rottura. Questo succede quando si tagliano pesantemente le tasse, con il risultato che non ci sono più soldi da spendere per niente, a parte la polizia e l’esercito. 
Non furono solo le infrastrutture pubbliche a tradire New Orleans, e in particolare i più poveri, che erano in gran parte afroamericani, come in molte città statunitensi. La tradirono anche i responsabili del sistema d’intervento contro il disastro, la seconda grande crepa. L’ente del governo federale incaricato di intervenire in crisi simili è la Federal Emergency Management Agency (Fema), insieme alle amministrazioni degli stati e a quelle municipali, che svolgono un ruolo cruciale nella pianificazione dell’evacuazione e della risposta al disastro. A New Orleans il governo fallì a tutti i livelli. 
La Fema ci mise cinque giorni per portare acqua e viveri agli abitanti di New Orleans che avevano cercato riparo nel Superdome, il palazzo dello sport. Le immagini più strazianti di quei giorni furono quelle delle persone confinate sui tetti delle case e degli ospedali con cartelli che imploravano aiuto mentre gli elicotteri passavano sopra le loro teste. Le persone si aiutarono a vicenda come potevano. Si salvarono in canoa e in barca a remi. Si diedero da mangiare a vicenda. Dimostrarono la stupenda capacità umana di essere solidali, spesso rafforzata dai momenti di crisi. Ma il settore pubblico fu l’esatto contrario. Non dimenticherò mai le parole di Curtis Muhammad, attivista di vecchia data dei diritti civili a New Orleans, quando disse a proposito di quell’esperienza: “Ci ha fatto capire che nessuno si occupava di noi”. 
Quell’abbandono fu profondamente disuguale, e le disparità seguirono le linee di spartizione tra bianchi e neri e tra le classi sociali. Molti riuscirono a lasciare la città con i loro mezzi: salirono in auto, andarono in un albergo asciutto e telefonarono alla loro assicurazione. Altri restarono perché erano convinti che le difese contro l’uragano avrebbero retto. Ma molti altri restarono perché non avevano scelta: non avevano un’auto o erano troppo malati per guidare o, semplicemente, non sapevano cosa fare. Erano le persone che avevano assoluto bisogno di un piano di evacuazione e soccorso efficace. Non furono fortunate. I più poveri, abbandonati in una città senza cibo né acqua, fecero quello che avrebbe fatto chiunque in quelle circostanze: si presero le provviste dai negozi del posto. Fox news e altre testate ne approfittarono per definire i residenti neri di new Orleans “sciacalli” che presto avrebbero invaso le parti asciutte e bianche della città. Sugli edifici comparirono scritte minacciose: “Spareremo agli sciacalli”. Furono istituiti posti di blocco per intrappolare la gente nelle aree sommerse. Sul Danzier Bridge i poliziotti sparavano a vista ai residenti neri (alla fine cinque agenti implicati sono stati dichiarati colpevoli e la città ha patteggiato un risarcimento di 13,3 milioni di dollari alle famiglie coinvolte in quello e in altri casi simili dopo Katrina). Nel frattempo bande di vigilanti bianchi armati battevano le strade in cerca “dell’occasione per dare la caccia ai neri”, come spiegò in seguito un residente in un articolo del giornalista d’inchiesta A.C. Thompson. 

Con i miei occhi 
Ero a New Orleans e ho visto con i miei occhi quant’erano su di giri i poliziotti e i militari, per non parlare delle guardie private di aziende come la Blackwater, arrivate da poco dall’Iraq. Sembrava di essere in una zona di guerra, con i poveri e i neri al centro del mirino, gente il cui unico crimine era cercare di sopravvivere. Quando arrivò la guardia nazionale per organizzare l’evacuazione totale della città, lo fece con un cinismo e un’aggressività diicili da comprendere. I soldati puntavano i mitra contro i cittadini che salivano sui pullman senza dargli la minima informazione su dove li stessero portando. Spesso i bambini venivano separati dai genitori. 
Quello che vidi durante l’inondazione mi sconvolse. Ma quello che successe dopo Katrina mi sconvolse ancora di più. Mentre la città barcollava sotto i colpi del disastro e i suoi abitanti erano sparpagliati in giro e non potevano proteggere i loro interessi, spuntò un piano per far approvare alla velocità della luce una lista dei desideri delle multinazionali. Milton Friedman, che all’epoca aveva 93 anni, scrisse un articolo per il Wall Street Journal in cui diceva: “Quasi tutte le scuole di New Orleans sono in macerie, come le case dei bambini che le frequentavano. Ora i bambini sono sparsi ovunque. È una tragedia. Ma è anche l’occasione buona per riformare radicalmente il sistema scolastico”. 
Richard Baker, all’epoca deputato repubblicano della Louisiana, dichiarò: “Finalmente abbiamo ripulito le case popolari di New Orleans. Non ci saremmo riusciti, ma ce l’ha fatta Dio”. Mi trovavo in un rifugio per sfollati a Baton Rouge quando Baker fece quella dichiarazione. Le persone con cui parlai erano sconvolte. Immaginatevi di essere costretti ad abbandonare casa vostra e dormire su una branda in un centro congressi per poi scoprire che quelli che in teoria dovrebbero rappresentarvi dichiarano che è stato una specie d’intervento divino. A quanto pare, Dio ama molto gli investimenti immobiliari.
Baker ebbe la sua “pulizia” delle case popolari. Nei mesi successivi all’uragano, mentre gli abitanti di New Orleans e tutte le loro scomode obiezioni, la loro ricca cultura e il profondo radicamento erano fuori dalle scatole, furono abbattute migliaia di case popolari – molte delle quali avevano subìto danni minimi perché si trovavano in un punto elevato della città – e furono sostituite da condomini e grattacieli dal costo proibitivo per chi aveva vissuto lì fino ad allora. 
Ed è qui che entra in gioco Mike Pence. Quando Katrina si abbatté su New Orleans, Pence era presidente del potente Republican Study Committee (Rsc), un comitato repubblicano fortemente ideologizzato che riuniva politici conservatori. L’11 settembre 2005, appena quattordici giorni dopo il crollo degli argini e con interi quartieri di New Orleans ancora sott’acqua, l’Rsc tenne una riunione nella sede della Heritage Foundation a Washington. Sotto la guida di Pence fu stilato un elenco di “idee a favore del libero mercato per reagire all’uragano Katrina e agli alti prezzi del petrolio”. Si trattava in tutto di 32 misure di pseudo-aiuto agli alluvionati, ognuna presa direttamente dal manuale del capitalismo del disastro. 
Emergeva con chiarezza l’intenzione di scatenare una guerra a oltranza al settore pubblico e alle tutele dei lavoratori, un fatto paradossale, perché Katrina fu una catastrofe umanitaria in primo luogo a causa dei problemi delle infrastrutture pubbliche. E si notava anche la determinazione a sfruttare qualsiasi occasione per rafforzare il settore petrolifero e del gas naturale. L’elenco comprendeva raccomandazioni per sospendere la legge che imponeva agli appaltatori federali di pagare stipendi dignitosi, per trasformare l’intera area colpita in una zona di libera impresa e per “eliminare le restrittive regole ambientali che intralciano la ricostruzione”. 
Il presidente Bush accolse molte di quelle raccomandazioni nel giro di una settimana, anche se alla fine, sottoposto a dure pressioni, fu costretto a reintrodurre le misure standard per la tutela dei lavoratori. Un’altra raccomandazione chiedeva di distribuire ai genitori dei voucher da usare nelle scuole private e nelle charter school (istituti a scopo di lucro finanziati dai contribuenti), una mossa in linea con le idee tanto amate da Betsy DeVos, la ministra dell’istruzione di Trump. Nel giro di un anno a New Orleans ci fu il sistema scolastico più privatizzato degli Stati Uniti. 
E non è finita. Nonostante i climatologi abbiano riscontrato un collegamento diretto tra l’intensità degli uragani e il riscaldamento degli oceani, Pence e il suo comitato fecero una serie di richieste al congresso: abrogare le regole ambientali sulla costa del golfo del Messico, rilasciare i permessi per nuove raffinerie negli Stati Uniti e dare il via libera alle “perforazioni nell’Arctic National Wildlife Refuge”, un’area naturale protetta dell’Alaska. Queste iniziative faranno aumentare automaticamente le emissioni di gas serra, il maggior contributo umano al cambiamento climatico, e provocheranno cicloni più devastanti. Eppure furono immediatamente appoggiate da Pence e poi adottate da Bush con la scusa della risposta a un uragano devastante. 
Vale la pena di soffermarsi un attimo per spiegare alcune conseguenze di tutto questo. L’uragano Katrina diventò una catastrofe a New Orleans grazie a una combinazione di forte maltempo, forse collegato al cambiamento climatico, e infrastrutture fragili e trascurate. Le presunte soluzioni proposte dal gruppo guidato all’epoca da Pence avrebbero inevitabilmente aggravato il cambiamento climatico e indebolito le infrastrutture pubbliche. Pence e i suoi compagni di viaggio “liberisti” erano intenzionati a fare esattamente le cose che in futuro causeranno automaticamente altre Katrina. E oggi Pence ha il potere di estendere queste idee a tutti gli Stati uniti. 

Un progetto preciso
Il settore petrolifero non è l’unico che ha guadagnato dall’uragano Katrina. Immediatamente dopo il disastro, calò su New Orleans l’intera banda di multinazionali di Baghdad, formata da Bechtel, Fluor, Halliburton, Blackwater, CH2M Hill e Parsons, tristemente famose per il mediocre operato in Iraq. Avevano un progetto preciso: dimostrare che i servizi privati forniti in Iraq e in Afghanistan avevano un mercato anche negli Stati Uniti e, già che c’erano, ottenere contratti senza gare d’appalto per un totale di 3,4 miliardi di dollari. 
L’esperienza delle aziende chiamate a operare sembrava spesso estranea alla logica con cui erano assegnati i contratti. Prendiamo, per esempio, l’agenzia privata a cui la Fema pagò 5,2 milioni per svolgere il lavoro cruciale di allestire un campo base per i soccorritori a Saint Bernard Parish, un sobborgo di new Orleans. La costruzione del campo registrò ritardi e non fu mai completata. Durante le successive indagini si scoprì che la ditta che si era aggiudicata l’appalto, la Lighthouse Disaster Relief, era in realtà un’organizzazione religiosa. “Prima di allora avevo organizzato al massimo un campo per ragazzi con la mia parrocchia”, confessò il direttore della Lighthouse, il reverendo Gary Heldreth. Dopo che le varie ditte subappaltatrici si furono intascate la loro fetta di torta, non restò quasi niente per la gente che ci lavorava. Lo scrittore Mike Davis rintracciò il pagamento da parte della Fema al gruppo Shaw di 15 dollari al metro quadrato per installare i teloni impermeabili azzurri sui tetti danneggiati, anche se i teloni erano forniti dal governo. Dopo che i vari subappaltatori avevano intascato la loro fetta, i lavoratori che inchiodarono i teloni furono pagati meno di venti centesimi al metro quadrato. “In parole povere, ogni livello della catena alimentare degli appalti è grottescamente ipernutrito tranne lo scalino più in basso, quello dove si fa il lavoro vero,” ha scritto Davis. Questi presunti “appaltatori” erano in realtà marchi vuoti, come la Trump Organization, che incassava i profitti e poi metteva il suo nome su servizi modesti o inesistenti. 
Per compensare le decine di miliardi che andavano ai privati in contratti ed esenzioni fiscali, nel novembre del 2005 il congresso a maggioranza repubblicana annunciò che doveva tagliare 40 miliardi dal bilancio federale. Tra i programmi più colpiti ci furono i prestiti agli studenti, il programma di assistenza sanitaria Medicaid e i buoni alimentari. E così gli statunitensi più poveri finanziarono la pacchia degli appaltatori due volte: la prima quando lo sforzo dei soccorsi dopo Katrina si trasformò nelle mance sregolate alle grandi imprese, senza che fornissero posti di lavoro decenti o servizi pubblici funzionanti; la seconda quando i pochi programmi che assistevano direttamente i disoccupati e i lavoratori poveri a livello nazionale furono falcidiati per pagare quelle parcelle gonfiate. 
New Orleans è il modello del capitalismo del disastro, progettato dall’attuale vicepresidente degli Stati Uniti e dalla Heritage Foundation, il pensatoio di estrema destra a cui Trump ha esternalizzato gran parte del bilancio della sua amministrazione. Alla fine la risposta a Katrina innescò la caduta libera della popolarità di George W.Bush, un crollo che costò ai repubblicani la presidenza nel 2008. Nove anni dopo, con i repubblicani che controllano il congresso e la Casa Bianca, non è difficile immaginare che questo esperimento di risposta privatizzata a una calamità sia adottato su scala nazionale. La presenza a New Orleans di una polizia militarizzata e di milizie private armate fu una sorpresa per molti. Da allora il fenomeno si è allargato, con le forze di polizia in tutto il paese piene fino a scoppiare di equipaggiamenti militari, tra cui mezzi corazzati e droni, mentre le aziende per la sorveglianza privata garantiscono spesso addestramento e appoggio. Vedendo la sfilza di aziende private di sorveglianza e militari che occupano posizioni chiave nell’amministrazione Trump, possiamo aspettarci che tutto questo si ampli ulteriormente a ogni nuovo shock. 
L’esperienza di Katrina è anche un cupo monito per chi non ha ancora smesso di sperare nei mille miliardi di dollari promessi da Trump per finanziare investimenti nelle infrastrutture. Questi finanziamenti sistemeranno qualche strada e ponte e creeranno posti di lavoro (anche se molti di meno rispetto a quelli che creerebbero gli investimenti nelle infrastrutture verdi). Dettaglio cruciale: Trump ha fatto capire che userà il più possibile non il settore pubblico ma una partnership tra pubblico e privato, una formula che ha pessimi precedenti di corruzione e può portare a stipendi molto più bassi di quelli che riceve chi lavora nei veri progetti pubblici. Dati i trascorsi di affarista di Trump e il ruolo di Pence nell’amministrazione, abbiamo tutti i motivi di temere che questa spesa in infrastrutture produrrà una cleptocrazia in stile Katrina, un governo di ladri, con i frequentatori di Mar-a-lago (la lussuosa villa di Trump in Florida) che si elargiscono enormi somme di quattrini dei contribuenti. 
New Orleans ci ha regalato un quadro straziante di quello che ci possiamo aspettare quando ci sarà il prossimo shock. Purtroppo non è affatto un quadro completo: l’attuale governo degli Stati Uniti può tentare ben altro con il pretesto della crisi. Per diventare immuni agli shock, dobbiamo prepararci anche a questa possibilità.

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