domenica 3 settembre 2017

Signori Benetton, dov’è Santiago Maldonado? - Raúl Zecca Castel


Potrebbe essere questa che vedete l’immagine per il lancio della nuova campagna pubblicitaria Benetton: il volto un po’ arruffato di un giovane ragazzo argentino, capelli scompigliati, dreadlock in vista e sguardo penetrante su sfondo nero – monocromo -, proprio come quelli che piacciono tanto al bravo Oliviero Toscani, e poi, immancabile, il logo con il motto della celebre azienda italiana, United Colors of Benetton, divenuto, grazie ad abili strategie di marketing, sinonimo di apertura, multiculturalismo, integrazione tra i popoli e le culture.
Santiago Maldonado si è integrato talmente bene che non lo si trova più. Scomparso nel nulla, anzi, scomparso nei possedimenti patagonici del gruppo Benetton. D’altra parte come non perdersi in 900mila ettari di terra? Già, perché le dimensioni delle proprietà di una tra le maggiori imprese nel mercato dell’abbigliamento mondiale ammontano a tale spropositata cifra solo in America Latina. Un’acquisizione – o meglio, un accaparramento – del valore di 50 milioni di dollari che risale al 1991.
Ma quelle terre non appartenevano allo stato argentino e men che meno alla Argentine Southern Land Company Limited, l’impresa inglese che ne deteneva la proprietà legale già dai primi del ‘900.
Quelle terre appartenevano e appartengono al popolo Mapuche, gli indigeni araucani che vivono in Patagonia da tempi immemorabili, ben prima dell’arrivo dei colonizzatori spagnoli. E, com’è noto, la terra è di chi l’abita. Nessuna legge potrà mai contraddire questo principio universale.
I Mapuche non possono esibire alcun titolo di proprietà riferito a quei terreni. Non ne hanno mai avuto bisogno, né si arrogherebbero mai la presunzione di poter considerare la natura un oggetto da negoziare. Sono il “Popolo (che) della Terra (mapu)”, e per questo rivendicano il diritto ad abitarla come hanno sempre fatto.
Quando il gruppo Benetton si è appropriato dei loro luoghi ancestrali, non ha esitato un momento nel procedere con gli sgomberi forzati di interi villaggi, sfollando le famiglie e sostituendole con quasi 300mila pecore da lana. Le greggi, è proverbiale, son mansuete, ma non i Mapuche, che da allora non hanno smesso di lottare, resistendo e reagendo alle violenze che periodicamente vengono portate avanti contro i loro membri più attivi, spesso arrestati e imprigionati dalle autorità nazionali con l’accusa di terrorismo. È questo il caso di Facundo Jones Huala, leader della Resistenza Ancestrale Mapuche (RAM), che da oltre due mesi è detenuto nel carcere di Esquel, nella provincia di Chubut, per aver promosso e partecipato ad attività di boicottaggio e riappropriazione di terre che ora appartengono a Benetton.
Il 1 agosto 2017, la Gendarmeria Nacional, forza armata direttamente agli ordini del Ministero della Sicurezza del Governo – attualmente presieduto da Mauricio Macri – ha fatto irruzione nella comunità in resistenza Pu Lof, nella stessa provincia di Chubut, dove membri della RAM e vari sostenitori della causa mapuche, stavano manifestando il loro diritto alla terra. L’intervento repressivo dei militari ha disperso la folla indigena a suon di cariche, pallottole di gomma e roghi di abitazioni, senza risparmiare le violenze a donne e bambini.
Santiago Maldonado, un artigiano ventottenne di Buenos Aires, si trovava lì a sostenere la lotta del popolo mapuche. Alcuni testimoni raccontano di averlo visto per l’ultima volta nelle mani della Gendarmeria, ma la stessa arma e il governo smentiscono.
È trascorso un mese esatto dalla sua sparizione.
L’Argentina non ha bisogno di aggiungere un nuovo nome alla macabra lista dei desaparecidos.
Signor Presidente, donde està Santiago Maldonado?
Signori Benetton, dov’è Santiago Maldonado?
Vogliamo una risposta.
Vogliamo Santiago, vivo.



Riproduciamo qui di seguito in traduzione italiana una lettera che Facundo Jones Huala ha rivolto a Santiago Maldonado [Qui in lingua originale]:
Lettera di Facundo Jones Huala a Santiago Maldonado, 26 agosto 2017
GRAZIE, FRATELLO
Grazie. Tutto qui. Ti direi grazie, se potessi averti di fronte a me in questo momento. Grazie infinite, perché non trovo parole più potenti per esprimere la riconoscenza profonda che nutro per il tuo amore alla nostra comunità, per la tua dedizione così disinteressata, per il semplice desiderio e l’arduo lavoro che hai investito nel provare a conoscerci, ma a conoscerci per davvero. Uno sforzo immane, fratellino, che non resterà invano: la tua infinita solidarietà raccoglie in queste ore innumerevoli dimostrazioni di umanità che riaffermano i tuoi diritti insieme ai nostri, diventando un esempio che potrà essere coniugato in tutti i tempi.
La risposta non è su Facebook né in nessun’altro social network: la risposta è nelle mani della Gendarmeria Nazionale.
Sono stati loro a portarti via. Loro ti hanno picchiato. Loro ti hanno sequestrato. E al cospetto di tutto quel giornalismo che trova sempre il modo per guardare dall’altra parte, ancora una volta dico che è tornato il terrorismo di Stato. Perché è così, noi popoli delle origini stiamo urlando già da molto tempo, ma l’eco comincia a sentirsi solo ora e questo lo dobbiamo anche alla tua lotta.
Io sono stato arrestato per la prima volta quando avevo 11 anni. Vivevo a Bariloche e stavo andando a comprare delle cartine geografiche. “Per atteggiamento sospetto”, dissero con l’atteggiamento sospetto proprio di chi sospetta sempre e solo dell’atteggiamento altrui.
A loro non disturbano le nostre “armi”: a loro disturbano le nostre armi politiche.
Loro dispongono di tutto l’arsenale economico, mediatico e simbolico. E noi ci siamo trasformati in nemici quando abbiamo deciso di affrontarli. Ma tu, Santiago, anche senza essere un mapuche, ti sei unito alla nostra comunità abbracciando la nostra causa come se fosse la tua. E il giorno del tuo sequestro i gendarmi vennero con quell’idea fissa che tu già avevi scoperto diversi tempo fa: “Gli indigeni si uccidono”. Questa volta non si sono portati via un indigeno, ma si sono portati via te, che oggi conduci le nostre rivendicazioni dove noi non siamo mai riusciti, perché il nostro destino è sempre tanto silenzioso quanto la nostra storia. Lo dicono i tuoi compagni, lo dice la tua consapevolezza: se lo scomparso fosse un mapuche, quante grida si alzerebbero?
Noi indigeni possiamo scomparire senza che nessuno esca a protestare.
Tu sei venuto per gridare questa verità e nemmeno portandoti via sono riusciti a zittirti.
Non abbiamo avuto modo di condividere il nostro tempo, ma tutti i peñi (fratelli) e le lamien (sorelle) che ti conoscono parlano molto bene di te, rafforzando le parole di questa lettera che scrivo. E allora, anche senza esserci mai conosciuti, posso dire con certezza quanto apprezziamo la tua autenticità: dire quel che pensavi e fare quel che dicevi…
Ne restano pochi, molto pochi, con una simile qualità, quella che ti ha reso imprescindibile. Ma è sufficiente ripercorrere le tue azione per conoscere le tue convinzioni politiche che ora diventano esempio per migliaia, migliaia che potrebbero emularti nella lotta, migliaia che potrebbero diventare altri Santiago.
Quel 1 agosto forse avresti dovuto essere da qualche altra parte, ma le tue convinzioni ti hanno portato da noi, al di là delle regole così chiare della nostra comunità: “se non sei mapuche, non devi esporti mai”. Questo siamo soliti dire, ma tu hai scelto di restare e di appoggiarci fino alla fine, penetrando in profondità nella nostra cultura, un luogo spesso inaccessibile per chi viene da lontano. Le tue decisioni, le tue convinzioni, ci uniscono e ci rendono fratelli in un solo urlo rivolto a tutti gli esseri dotati di umanità nel mondo…
Io non so dove siano il Che, Severino Di Giovanni, Evita, Tupac Katari o Gandhi, ma sicuramente staranno urlando da qualche parte:
Dove cazzo è Santiago Maldonado?!
da qui

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