domenica 17 settembre 2017

La lotta dei rifugiati eritrei contro Sda



Nelle occupazioni romane vivono numerosi rifugiati eritrei. Alcuni lavorano per corrieri come Sda, cioè Poste Italiane. Dopo anni di sfruttamento e scioperi, hanno finalmente ottenuto condizioni minimamente dignitose. Eppure sono ancora associati a termini come “emergenza” e “accoglienza”. Dimenticando un mercato del lavoro selvaggio

Una squadraccia di picchiatori con caschi e manganelli telescopici inizia a colpire senza pietà. Dall’altra parte c’è un picchetto di facchini. Migranti e italiani che lavorano per Sda. Uno di loro sarà operato per gravi ferite all’occhio. È il 19 maggio 2015. Il punto di svolta della nostra storia.
“Eravamo slaves”, ricorda I.B., sindacalista, uno degli sgomberati di Piazza Indipendenza. “Lavoravamo tredici ore al giorno per 750 euro al mese. Anche dalle tre del mattino alle cinque del pomeriggio”.
Inizia una stagione di scioperi condotta dai sindacati di base. L’aggressione al picchetto diventa un bivio. Sda deve scegliere. O il riconoscimento di diritti (minimi), oppure una gestione del conflitto da Ventennio. La decisione, in ultima istanza, spetta al governo della Repubblica italiana. Perché Sda non è un corriere come gli altri. Appartiene a Poste Italiane, al 60% controllata da Ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti. Forse non si esagera dicendo che i rifugiati eritrei erano sfruttati dallo stesso Stato che aveva accordato la protezione internazionale.
Come funziona? Il sistema è noto in tutta Italia e ha prodotto una serie di scioperi, in particolare nell’area tra Piacenza e Milano. Il corriere (Sda, Bartolini, Tnt, Dhl) affida l’appalto dei magazzini a un consorzio di cooperative. La coop chiama un certo numero di facchini. Dopo due anni, appena prima dei controlli, solitamente chiude. C’è un nuovo appalto e una nuova assunzione degli stessi lavoratori, che diventano soci della coop appena formata. I lavoratori firmano una liberatoria con rinuncia a liquidazione e altri diritti acquisiti. “Ho visto facchini che dopo sette anni di magazzino si ritrovano col livello di apprendista: quello con cui sono entrati”, racconta il sindacalista Si.Cobas Alberto Violante.
La riassunzione è anche uno strumento di ricatto, un invito a non rompere le scatole. Non c’è bisogno di licenziare le teste calde, basta non riassumerle al prossimo azzeramento.
A questo si aggiunge (non sempre, ma è frequente) il lavoro a chiamata. Per i corrieri è il modo migliore di gestire i picchi degli ordini, per esempio quelli di Natale. Per molti sindacalisti è un modello che somiglia al caporalato. C’è chi racconta di chiamate in piena notte, di attese ai cancelli e soprattutto di un reddito che varia in base agli straordinari. “A volte non erano pagati, così come il lavoro notturno. Oppure parte del salario è data a forfait come diaria. Oppure ancora ci sono ore non conteggiate”.
Alla fine degli anni ’90 la logistica era diversa, c’erano normali stipendi operai e assunzioni. Poi la concentrazione degli operatori, la corsa al ribasso sui prezzi e l’uso massiccio di lavoratori ricattabili, in gran parte migranti, ha devastato il settore. Ma non parliamo di crisi. La crescita del commercio elettronico e dei centri commerciali ha fatto impennare i fatturati. Tra i manager, però, l’obiettivo è quello di essere concorrenziali. E si sono illusi che il lavoro migrante fosse il mezzo per abbassare il costo del lavoro.
Per gli eritrei a Roma, in particolare, il percorso era sempre lo stesso: l’accoglienza, lo status di rifugiato, il lavoro come facchino.
“Lavoro lì dal 2009. Allora la cooperativa cambiava ogni due anni, adesso da quattro abbiamo il consorzio Metra”, racconta I.B.. “Prima ci trattavano (metaforicamente) con i bastoni, eravamo maltrattati, adesso va meglio. È cambiato tutto con gli scioperi. Al magazzino Sda siamo in 150, circa 50 eritrei (di cui alcuni da Piazza Indipendenza) e 70 italiani”.
È assolutamente impossibile pagare un affitto? Dipende. C’è chi accetta un buco fuori dall’area metropolitana, chi una stamberga per risparmiare. Tanti vivono in occupazione. Quei pochi che hanno migliorato la condizione economica, si scontrano con una nuova barriera. “Sto provando ad affittare casa ma quando dico che sono eritreo il padrone di casa chiude il telefono”, spiega I.B.
Dopo gli sgomberi che hanno avuto una eco mondiale, i termini del problema sono stati rovesciati. Per i “cattivi”, i migranti non si integrano. Per i “buoni”, occorre integrare i migranti.
Nelle occupazioni c’è gente da anni in Italia. Non esattamente migranti appena sbarcati. Il loro percorso nell’accoglienza lo hanno fatto anche venti anni fa. Lavorano e mandano i figli a scuola.
Il problema non è il migrante, ma un sistema economico (in crisi oppure in crescita; statale oppure privato) che punta al basso costo del lavoro e che ha inventato un sistema – quello del lavoratore conferito dalle cooperative –  per ottenere forza lavoro flessibile, non sindacalizzata e sottopagata.
Ovviamente i migranti sono i più ricattabili. I giovani italiani hanno il welfare familiare che funziona da paracadute. Anche se ormai tra gli abitanti delle occupazioni si trovano precari della scuola che sopravvivono con stipendi da 400 euro. A Roma, con quella cifra, paghi appena una stanza in un appartamento condiviso.

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