martedì 20 marzo 2018

Sedici Paesi hanno bombardato la Siria - Fulvio Scaglione



Ricorre proprio in questi giorni il settimo anniversario dall’inizio della guerra in Siria, che un vero e “ufficiale” inizio non ebbe mai ma che, per convenzione, si ritiene cominciata in un qualche momento degli scontri che nel Sud del Paese, e in particolare nella città di Dar’a, scoppiarono tra manifestanti ed esercito e videro già impegnate le prime formazioni islamiste armate.
È il momento giusto, allora, per ricordare alcuni dati che di solito vengono trascurati e illuminano la natura dello sconvolgente massacro siriano che, da Ghouta ad Afrin non conosce sosta e ha già falciato quasi mezzo milione di vite.
Una realtà cui troppo poco si pensa è questa: sono ben sedici i Paesi stranieri che hanno condotto bombardamenti e incursioni aeree sul territorio della Siria. Ecco l’elenco, in ordine di volume di fuoco impegnato: Usa, Russia, Francia, Regno Unito, Turchia, Israele, Australia, Canada, Danimarca, Olanda, Belgio, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco.

Già il numero delle nazioni che si sono accanite su questa terra tormentata dovrebbe farci mettere da parte il cumulo di fandonie sull’esportazione della democrazia e la lotta per la libertà. In Siria si combatte quella terza guerra mondiale a pezzetti di cui ha parlato papa Francesco e si replica lo scontro tra due fronti che è esploso un po’ ovunque, dall’Ucraina all’Iran alle attuali tensioni “spionistiche” tra Londra e Mosca. E che viene molto efficacemente rappresentato dalla progressiva militarizzazione della Casa Bianca, dove il controllo del potere reale è passato ai militari (sono ex generali il capo dello staff, il consigliere per la sicurezza nazionale, il presidente degli Stati maggiori riuniti e il ministro della Difesa, ed è un ex militare ed ex industriale dell’aerospazio anche il nuovo segretario di Stato) e ai loro finanziatori, gli esponenti del complesso militar-industriale, un settore che da solo vale più del 10% del Pil americano.
Se poi andiamo nello specifico, e incrociamo le cronache di questi anni con i dati raccolti da Airwars, l’Ong inglese formata da ex militari e giornalisti specializzati in questioni militari, che costantemente analizza le operazioni aeree condotte sulla Siria, scopriamo altre realtà che ci aiutano a giudicare.
Per esempio: nessuna delle 16 nazioni che hanno condotto raid aerei sul territorio della Siria è innocente rispetto alla morte dei civili. Nessuna. Non a caso Ian Overtone, direttore di Action on Armed Violence, organizzazione indipendente che studia gli effetti dei conflitti, dice: “Le incursioni aeree, per quanto precise e mirate siano, quando sono condotte sui centri abitati sono terribili per i civili. Finché gli Stati cercheranno di distruggere gruppi terroristici colpendoli dal cielo, i civili saranno quelli che soffriranno di più”.
Poi, naturalmente, ci sono le proporzioni. All’aviazione russa vengono addebitate circa 11mila vittime civili. Ma agli Usa, delle cui azioni si parla assai meno, almeno altre 7 mila, con un significativo incremento da quando James Mattis, l’ex generale dei marine che è ministro della Difesa con Donald Trump, ha lanciato la “tattica di annientamento”, basata sull’idea di infliggere il maggior numero possibile di perdite al nemico. I velivoli americani hanno sganciato più di 21 mila ordigni sulla sola Raqqa.
Al terzo posto, per impegno aereo sulla Siria, viene la Francia, che fu il primo Paese ad affiancarsi agli Usa nel 2014 ed è stato anche il primo a mandare una portaerei, la “Charles de Gaulle”, nell’area delle operazioni. Il suo ruolo, però, viene ultimamente insidiato dal Regno Unito che, dopo una partenza “lenta”, ha di molto incrementato l’impegno sul fronte siriano, con droni e cacciabombardieri.
Poi ci sono, ovviamente, Israele e Turchia. Le forze aeree dello Stato ebraico hanno condotto più di 100 missioni militari sulla Siria e quel che sta facendo la Turchia è sotto gli occhi del mondo, con l’accerchiamento di Afrin e la decimazione dei combattenti e dei civili curdi. Molto attivi, in proporzione al ruolo, anche Australia e Canada. Quest’ultimo, in particolare, ha condotto quasi 1.500 missioni sui cieli siriani fino a quando, nel febbraio 2016, i suoi jet sono stati ritirati come aveva promesso in campagna elettorale Justin Trudeau, poi diventato primo ministro.
Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Giordania e Marocco sono stati attivi in Siria soprattutto nei primi tempi, poi hanno preferito orientare i loro mezzi verso la guerra nello Yemen. E merita una segnalazione il caso della Danimarca. I suoi sette cacciabombardieri F-16, dispiegati in Medio Oriente su richiesta degli Usa, hanno smesso di operare in Siria nel dicembre 2016 dopo aver condotto 550 missioni. Il ritiro è stato causato dalle forti polemiche scoppiate perché, invece di colpire i miliziani dell’Isis, gli aerei danesi aveva colpito gruppi di miliziani schierati con Bashar al-Assad. Involontariamente, dissero i comandi.
Ci vuole molta fantasia per sostenere che uno schieramento di questo genere ha dovuto spendere quattro anni per liquidare l’Isis. E ancor più fantasia occorre per credere che tutti questi Paesi siano andati in Siria a combattere per il bene dei siriani. L’unica cosa straordinaria, a questo punto, è che esista ancora una cosa che è possibile chiamare Siria. Ma certo non è merito nostro.

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