sabato 10 marzo 2018

voci da Gaza - Patrizia Cecconi




Guardare come vivono le persone nella striscia di Gaza, parlare con loro, fare – per quanto possibile – la loro vita è un esercizio di resistenza alla schizofrenia.In questi 360 km quadrati si impara a vivere il precario come definitivo; si impara che si può ridere anche se a due chilometri c’è appena stata un’esplosione; s’impara che pur non avendo più speranza nel futuro si lavora come se il futuro fosse sicuramente da conquistare e si cerca di prepararlo per I propri figli; s’impara che si può vivere nello stesso momento l’abbandono di ogni speranza contro lo strapotere di Israele e la piu decisa resistenza al suo strapotere.La Striscia di Gaza è il luogo dove ci sono situazioni di povertà assoluta e dove si preparano pranzi luculliani per l’ospite venuto da lontano. E’ il luogo dove, se si è palestinese, si sa che si può morire per niente, quasi fosse cosa normale, ma dove al tempo stesso la vita è goduta attimo per attimo. E’ il luogo dove la disperazione può portare al suicidio – meno comunque che in occidente – ma dove la nascita di un nuovo bambino restituisce speranza e volontà di resistere.La Striscia di Gaza è anche il luogo che permette di scrivere e di diffondere le notizie più fantasiose perché tanto è sotto assedio e pochissimi riescono ad entrarci e a dare testimonianze dirette e possibilmente oneste. E’ anche il luogo in cui, chi riesce a entrarci, viene spesso trattato da eroe come se stesse facendo chissà quale straordinaria azione, o da individuo super fortunato come se stesse passando un soggiorno alle Maldive.È tutto e tutto il suo contrario, la Striscia di Gaza, ma non è di sicuro il luogo raccontato da un certo psicologo arabo-israeliano venuto qui una settimana per scrivere un lungo articolo in cui afferma che corruzione e perversione sono in ogni angolo di Gaza e dove tutti i bambini vengono violati da pervertiti sessuali. No, Gaza non è questo, questo assolutamente no.In questi giorni I gazawi, pur seguitando a vivere come se tutto fosse normale, sanno che si profilano pericolosi venti di guerra e sanno che se di nuovo succederà potranno solo affidarsi a Dio perché da Gaza non si può fuggire. Israele poche notti fa ha bombardato per molte ore, in teoria in risposta al ferimento di 4 soldati che volevano strappare una bandiera palestinese lungo il confine, come se la risposta adeguata fossero le tonnellate di bombe scaricate su cinque diversi punti della Striscia. Ma quali punti? Quelli in cui intendeva colpire, come ha dichiarato, le postazioni militari di Hamas. Allora di cosa si tratta? Di indebolire preventivamente l’eventuale resistenza armata ai suoi attacchi? Parliamo di questo e della situazione generale con persone diverse. Di seguito il contenuto delle interviste.Abbiamo scelto di usare nomi di fantasia perché questo ci è stato chiesto come condizione cautelativa. In alcuni dei luoghi in cui abbiamo raccolto le interviste ci è stato detto esplicitamente che c’è il divieto assoluto di parlare di questioni politiche, quindi non faremo né i nomi né i luoghi esatti che possano far identificare i nostri interlocutori, ma specifichiamo che quanto riportato non appartiene a conversazioni con “l’uomo della strada” che pure avrebbero la loro importanza, ma con persone che, come si direbbe in Italia, possiamo considerare “informate sui fatti”.Le nostre conversazioni si sono svolte in luoghi diversi da Gaza city fino a Rafah. A nord di Gaza invece non siamo ancora andati. La prima domanda che abbiamo rivolto ai nostri interlocutori è stata: “cosa prevedi per il futuro?” Le risposte, pur venendo da persone sconosciute tra loro, sono state pressoché identiche. Drammaticamente identiche: il futuro non c’è.Nabil (nome di fantasia) dice “guardati intorno. Non abbiamo libertà né dentro né fuori. Viviamo sotto pressione in modo terribile. A nessuno importa niente del popolo di Gaza. Non importa all’Autorità palestinese ma neanche ad Hamas. Al mondo importa ancora meno perché Israele è riuscito a far credere che noi siamo terroristi. Ogni ragazzo che viene ucciso non è un ragazzo ma un terrorista. Abbiamo campi che non possiamo coltivare, abbiamo ospedali che non hanno più medicine e le sale operatorie che funzionano sono pochissime. All’ospedale Nasser qualche giorno fa è morta una giovane donna di parto. E’ morto anche il suo bambino. Non è stato possibile salvarli”. Pensiamo ad uno dei tanti casi di malasanità che si vivono anche in Italia ma Nabil dice che la ragazza morta era la figlia del direttore dell’ospedale. E’ morta perché non funzionava la sala operatoria o non c’erano I farmaci giusti e suo padre non ha potuto far niente.Ci viene confermato che l’arrivo di Trump sulla scena palestinese è stato devastante e non solo per la dichiarazione relativa a Gerusalemme. Nabil va avanti con altri esempi per dire che Gaza non ha futuro, ma poi aggiunge che lui cerca di dare un futuro ai suoi figli, così come fanno anche gli altri. E’ una contraddizione. A un occidentale non può che sembrare un’immensa contraddizione. Allora Nabil si spiega meglio e dice che finché non ci sarà una leadership capace di dare un futuro a questa terra, l’unica possibilità di salvezza è individuale. Qualcosa di analogo sarà ripetuto anche dalle altre persone intervistate, ma tutte chiedono insistentemente di non essere citate perché criticare Hamas significa finire in galera e dire che non si ha fiducia nel futuro è considerato come una critica all’attuale leadership.Yousef (altro nome di fantasia) dopo aver illustrato il quadro gravissimo dovuto al taglio dei fondi all’agenzia per i rifugiati palestinesi (l’UNRWA), alla conseguente crisi degli ospedali, alla vita miserrima di un certo numero di gazawi che riescono a sopravvivere solo grazie ai sussidi umanitari, affronta un tema molto delicato: la debolezza di Hamas che non riesce più ad essere catalizzatore delle speranze dei più giovani e che si trova insidiato da estremisti i quali, data la situazione di crescente disagio economico e psicologico, riescono ad attrarre i più giovani. Il peggioramento delle condizioni economiche e il soffiare sul fuoco di tanti cosiddetti osservatori internazionali accrescono il disagio di Hamas e di conseguenza il suo atteggiamento repressivo. Hamas non vuole un’altra guerra, questo ci dice Yousef, ma la situazione in Egitto ed in Israele sembra una bomba a orologeria di cui si sposta solo il momento dell’esplosione.Yousef è un musulmano credente come tutte/i quelli che abbiamo intervistato, ma in più lui è rigorosamente praticante e, nonostante ciò, è estremamente lucido nelle sue analisi. Per questo il suo giudizio e le sue critiche sono particolarmente interessanti. E’ un uomo che, come la maggioranza degli uomini palestinesi, in passato ha fatto le sue esperienze di galera israeliana. E’ un uomo con una formazione orientativamente di sinistra il quale però non accetta l’aforisma marxiano che considera la religione l’oppio dei popoli, ma ne condivide la parte che nessuno cita mai e cioè che la religione è il sospiro dell’oppresso ed è in questo che Yousef vede il grande pericolo che corrono alcuni adolescenti delusi dall’impossibilità di Hamas di migliorare la vita nella Striscia e attratti dalla radicalità del fanatismo salafita.Yousef non apprezza la dirigenza egiziana, si espreme con cautela rispetto ad Al Sisi ma le poche parole che dice sono eloquenti. Inoltre l’Egitto ha nuovamente chiuso il valico di Rafah, ma ammette che il pericolo di infiltrazioni di fanatici Isis in grado di fare adepti tra I più giovani e I più esasperati è reale. Il Sinai è ormai un luogo pericoloso e gli scontri a fuoco tra Rafah e Al Arish sono frequentissimi, ma il Sinai è anche, come ci dice Mahmud (ancora un nome di fantasia) il luogo di un progetto che ogni tanto si riaffaccia nelle ipotesi israeliane di liberarsi del popolo palestinese. E’ la regione in cui potrebbe realizzarsi il cosiddetto allargamento della Striscia diventando il contenitore dei palestinesi “di troppo”, nelle mire israeliane di appropriarsi dell’intera West Bank.Questo punto è stato affrontato anche con altri interlocutori, qualcuno ha detto che per quei gazawi oggi ridotti a vivere di sussidi la proposta potrebbe rappresentare una via d’uscita, altri l’hanno escluso dicendo che anche I gazawi più poveri e meno consapevoli capiscono che questo significherebbe una sconfitta, altri hanno invece detto che questo potrebbe essere allettante per una parte di Hamas che vi vedrebbe una sorta di califfato autonomo. Questo è forse l’unico punto in cui non c’è uguaglianza di vedute tra le diverse persone intervistate.Altro punto importante che viene affrontato, in relazione alla situazione tragica degli ospedali e del settore sanitario nel suo insieme, è il tentativo di eliminare l’UNRWA. Tentativo sempre perseguito da Israele perché l’esistenza di un’agenzia Onu specifica per i rifugiati palestinesi e non generica per i rifugiati tout court come l’UNHCR è in sé un atto d’accusa verso Israele per la cacciata dei palestinesi durante la naqba e la naqsa e contiene per definizione l’affermazione del diritto al ritorno. Tagliare I fondi UNRWA, come è stato minacciato e/o fatto già più di una volta negli anni, ma ora in modo drastico poiché gli Usa hanno dimezzato il loro contributo, ottiene due risultati entrambi favorevoli ad Israele: 1) lo scatenarsi della rabbia contro l’Agenzia Onu aumentando il malcontento sociale, 2) dare a Israele un significativo cenno di negazione del diritto al ritorno dei palestinesi.Se il malcontento delle fasce più povere, conseguente anche al taglio dei sussidi UNRWA, si riversa contro Hamas e contro tutta la dirigenza palestinese, compresi “I signori di Ramallah” come li ha chiamati qualcuno dei nostri inervistati, se l’accordo di riconciliazione è una finzione alla quale non si può dar credito, come ci hanno detto praticamente tutti, se le parole di Abu Mazen all’Onu – che qualcuno anche di Hamas ha apprezzato sebbene con riserva – non sortiranno effetto, restano solo due strade aperte: o la radicalizzazione che Hamas non riuscirà più a frenare o l’abbandono di ogni forma di resistenza. Ma quest’ultima frase viene appena formulata che immediatamente arriva la smentita: “non succederà, Gaza ha una popolazione giovane e in continua crescita e l’abbandono di ogni forma di resistenza è una pura ipotesi”.Tra le persone cui abbiamo chiesto di esprimere il loro parere sul futuro di Gaza ci sono anche due donne. Sono due donne importanti per il lavoro che svolgono e le chiameremo Sara e Iman, ancora nomi di fantasia. Con entrambe affrontiamo gli stessi temi e con entrambe, sebbene residenti e intervistate in città diverse, viene fuori quel che con gli altri interlocutori non era emerso: lo scandalo di Netanyahu in Israele. Anche loro non esprimono fiducia nel futuro, anche loro sono preoccupate per la condizione igienica, per la crisi sanitaria che ha investito più o meno tutti gli ospedali della Striscia, per le conseguenze che comportato le difficoltà economiche e lo stress psicologico sul tessuto sociale, ma anche loro, mentre dicono nette “non vediamo futuro” si muovono come se il futuro lo avessero tra le mani e per una in particolare conta molto, ma veramente molto, l’istruzione dei giovani. Il problema di Netanyahu le preoccupa entrambe e qui emerge la grande differenza di vedute tra chi vive nella Striscia e chi analizza o comunque riflette sulla questione dall’estero.In Italia molte persone vicine alla causa palestinese hanno accolto con favore la notizia dell’incriminazione di Netanyahu, sperando che la sua uscita di scena porti a migliori rapporti con il Diritto internazionale che la destra rappresentata da Netanyahu non frequenta neanche per ipotesi astratta. Comunichiamo questa posizione diffusa in Italia e la reazione è gentile ma durissima da parte di Sara ed è accolta con aria di pura sufficienza da parte di Iman. La prima signora ci risponde che Israele risolve abitualmente le sue crisi sulla pelle dei palestinesi e che gli israeliani, come mostrano anche i fatti degli ultimi anni, sono disposti a gratificare e a perdonare chi è in grado di fare un passo verso la conquista della “grande Israele”. Quindi Netanyahu potrebbe farsi perdonare i suoi imbrogli fiscali scatenando una nuova aggressione a Gaza.Iman, a distanza di un giorno e una buona manciata di chilometri da Sara, alla nostra comunicazione risponde con un’alzata di spalle dicendo che ha verificato spesso nella sua lunga vita come gli internazionali che amano la Palestina confondano I propri desideri con la realtàLo scandalo Netanyahu “per Gaza ma anche per la West Bank può solo aggravare la situazione” perché secondo lei il primo ministro israeliano I suoi ultimi colpi di coda, se saranno gli ultimi, li darà contro I palestinesi. Ci dice che Israele cerca di provocare una reazione e l’opinione pubblica mondiale sarà disposta a credere o a fingere di credere che Israele sarà stato costretto a reagire.Noi conosciamo a memoria il copione che Iman ci sta esponendo e le chiediamo in che modo, secondo lei, la situazione generale in Medioriente possa influire sulla situazione palestinese. Più o meno la sua risposta è la seguente: il Medioriente è tormentato da tragedie terribili che assorbono l’attenzione dei media, per cui una nuova aggressione a Gaza interesserebbe solo il popolo gazawo. Per questo è necessario fare di tutto perché Israele non abbia scuse per attaccarci. Ma Israele se vuole attaccare attacca comunque.Le interviste raccolte, a nostro avviso rappresentano uno spaccato di quel che si scriveva in premessa, cioè a Gaza regna la contraddizione tra il negativo storico, come lo avrebbe chiamato il grande antropologo De Martino e la spinta a vivere nonostante tutto, pur sapendo di essere inseriti in quel negativo.Concludiamo il report di questi due giorni di interviste formali e informali con due immagini che crediamo siano capaci di sintetizzare la situazione. Ci troviamo a Rafah. Si sentono dei forti boati, uno dei nostri intervistati ci dice semplicemente “sì, sono gli egiziani che hanno di nuovo chiuso il valico e che ora se la stanno vedendo con Daesh, cioè con l’Isis” come fosse la cosa più naturale di questo mondo e poi, passando vicino a un carrettino che vende fragole – perché a Gaza le fragole ci sono in ogni stagione – dice “abbiamo le fragole più buone del mondo, se solo potessimo esportarle molti dei nostri giovani avrebbero un lavoro”.E’ vero che a Gaza ci sono le fragole più buone del mondo. Sarà per il tipo di terreno, sarà per la vicinanza al mare, non sappiamo perché, ma le fragole di Gaza sono eccezionali. Se solo potessero esportarle significherebbe aver rotto l’assedio. Ecco il problema numero uno. Ma il mondo è sordo e Israele continua a sguazzare nella sua impunita illegalità.

Nessun commento:

Posta un commento