lunedì 26 marzo 2018

intervista a Guido Viale sul ’68


(a cura di Claudio Gallo)

È stato uno dei leader del ’68 e tra i fondatori di Lotta Continua. Guido Viale, 75 anni, sociologo, scrive saggi, si occupa di economia, modelli di sviluppo e ambiente. Gli chiediamo, cinquant’anni dopo, di spiegarci quella stagione che sembra ormai assorbita nella società dello spettacolo: è possibile darne una definizione minima che ricollochi il periodo nella storia? 

«La domanda non corrisponde né alla mia esperienza personale né a quella di gruppo. Il ’68, con la sua dilatazione all’autunno caldo del ’69, è stato un movimento molto chiuso su se stesso, concentrato sulle cose che faceva e non sulla loro rappresentazione pubblica. L’idea che la società dello spettacolo si sia sviluppata da quella stagione è una sciocchezza che ha molti autorevoli sostenitori, come il filosofo Mario Perniola, morto da poco, che ha messo in un rapporto di continuità il ’68, cioè l’idea della fantasia al potere, con la cultura spettacolare del berlusconismo».  

Il ’68, in particolare a Torino, è nato prima del ‘68. Come si è passati dalla protesta generalizzata all’azione politica?  
«In realtà la protesta era già nata come protesta politica e l’azione politica è stata in gran parte una protesta, nel senso che poi difficilmente è riuscita a raggiungere risultati consolidati, se non la creazione di un clima di libertà prima nelle università e nelle scuole, poi nelle fabbriche e per un certo periodo anche nella vita associata delle città. Un posto dove studenti, operai e cittadini, soprattutto proletari e poveri, si sentivano meno esclusi, trascurati e più protagonisti».  

Quindi fin dall’inizio c’era una coscienza politica precisa?  
«No, se per coscienza politica s’intende un’ideologia oppure un’appartenenza politica, escludendo i pochissimi gruppetti già politicizzati. Piuttosto, la cascata di ideologie marxiste-leniniste è arrivata dopo, come conseguenza del ’68 che aveva aperto certi spazi con la sua contestazione (come si chiamava allora) della gerarchia e dell’autoritarismo».  

Lotta Continua pensava veramente che una rivoluzione comunista sarebbe stata possibile?  
«Credo che noi, come Lotta Continua, la parola rivoluzione non l’abbiamo mai usata, e se l’abbiamo fatto è stato molto tardi. Vivevamo il comunismo, a cui dicevamo di appartenere, secondo il detto di Marx per cui il comunismo è il movimento reale che cambia le cose. Abbiamo sempre vissuto, soprattutto nella prima fase di formazione dell’organizzazione, la nostra lotta e la nostra partecipazione alla vita politica come un processo che aveva il suo fine in se stesso, cioè nello spazio di libertà, di autonomia, anche di cultura, di maturazione, che la partecipazione alla lotta ci dava. Indubbiamente c’erano degli obiettivi politici di volta in volta: scioperi, lotte; ma fin dall’inizio abbiamo cercato di porre l’accento sul fatto che lottare era anzitutto una maniera di vivere in modo diverso».  

Molto poco leninisti...  
«A partire dal 1972 o ’73 ci siamo anche dichiarati leninisti, ma era uno scimmiottamento di altre organizzazioni che avevano fatto del leninismo la loro bandiera. Sostanzialmente l’abbiamo praticato molto poco e comunque è stato uno degli elementi di degenerazione della nostra organizzazione». 

Alcuni sostengono che il ’68 abbia spostato la cultura sindacale da un approccio quantitativo a uno qualitativo, preparando la strada al declino della stagione dei grandi contratti di lavoro e del sindacalismo stesso; altri ancora pensano che l’indebolimento sessantottino dei valori tradizionali abbia di fatto predisposto il terreno all’avvento della globalizzazione neoliberale. Che cosa ne pensa?  
«La distinzione tra lotta sindacale e lotta politica era il residuo di una vecchia tradizione del movimento operaio che non aveva spazio nel modo in cui la lotta veniva vissuta dagli operai e dagli studenti di quegli anni. Allora si percepiva la lotta come immediatamente politica anche quando aveva caratteri sindacali. Per quanto riguarda i valori borghesi tradizionali, come la famiglia, la moralità e l’appartenenza nazionale, sono stati indubbiamente dei bersagli cruciali del ’68, secondo me sacrosanti. Oggi il neoliberalismo si sta riappropriando proprio di quei valori nel tentativo di difendersi contro una contestazione che in qualche modo sta crescendo anche se non ha un volto direttamente politico. Si vorrebbero recuperare quei valori borghesi, tanto è vero che i partiti che oggi li invocano come i partiti della destra nazionalista e razzista non hanno niente da eccepire contro il neoliberalismo. Forse molto contro la globalizzazione, ma non contro le privatizzazioni o contro la finanziarizzazione che anzi sostengono».  

L’antifascismo, di cui si torna oggi a parlare, è stata una componente essenziale del ’68. Non pensa che sia stato anche il salvagente identitario di una sinistra che non perseguiva più obiettivi di sinistra?  
«Di fronte a una crescita del Msi, dei movimenti di destra e dell’azione squadristica, e anzitutto di fronte alla strategia della tensione, abbiamo di fatto praticato un antifascismo che ha talvolta messo in secondo piano l’obiettivo per cui ci eravamo mossi: la trasformazione della società. Oggi il problema centrale che ci troviamo di fronte non è tanto il fascismo in sé quanto il razzismo, anche se i due vanno insieme. La crescita dei movimenti di destra, anche quelli che si ispirano direttamente al fascismo, come CasaPound o Forza Nuova, in realtà hanno alla base del loro reclutamento (riuscendo a coinvolgere anche Salvini) non tanto il richiamo al fascismo, che resta un tratto permanente e ineliminabile nella società italiana, ma il razzismo e l’odio per gli immigrati. Mobilitarsi contro il razzismo, con azioni positive e non solo con richiami ideologici, è negli intenti di tutti coloro che oggi sono impegnati in azioni di accoglienza e sostegno alle comunità immigrate. L’antirazzismo è diventato una componente prioritaria dell’azione politica». 

Se si presentassero le condizioni per un nuovo ’68, che cosa toglierebbe e cosa aggiungerebbe rispetto ad allora?  
«La cosa che più potrebbe essere recuperata del ‘68 è la rivendicazione della dignità degli esseri umani, questo era il contenuto di fondo dell’antiautoritarismo di allora sia nelle scuole sia nelle fabbriche».

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