lunedì 30 aprile 2018

Welfare, va riformato lo Stato strabico oggi guadagnano le famiglie più ricche - Marco Ruffolo



“I deboli” devono pagare di tasca propria per il welfare molto più di quanto pagano “gli agiati”, se le loro spese per sanità e istruzione pesano sul reddito familiare il doppio di quelle delle classi più fortunate, la conclusione che se ne trae è che in non pochi casi lo stato sociale italiano, invece di ridurre le disuguaglianze, rischia di aumentarle. Il welfare: dalle promesse grilline sul reddito di cittadinanza ai piani sugli asili nido, fino alle pensioni minime targate centrodestra. Saranno questi, oltre al lavoro, i temi centrali su cui dovrà misurarsi il prossimo governo.
Si tratterà prima di tutto di capire che fine farà il reddito di inserimento introdotto dagli ultimi due governi per contrastare la povertà assoluta. Sarà rafforzato o sostituito da una misura diversa? Si farà pagare di più alle classi più agiate? Ci sarà davvero un reddito di cittadinanza? Nel rispondere a questi interrogativi, qualunque futura maggioranza politica non potrà prescindere dalla constatazione di significativi squilibri presenti nel nostro welfare, anche se quest’ultimo resta comunque uno dei più garantisti e universali, se confrontato con quello di molti altri Paesi. Due classi a confronto Che il welfare made in Italy, sia pure con punti di forza notevoli, dia prove di strabismo aiutando in molti casi le famiglie benestanti più di quelle disagiate, non è una novità assoluta. E tuttavia quel che sorprende nell’indagine di Mbs Consulting, una delle principali società di consulenza aziendale, che ha intervistato qualche tempo fa oltre 2.300 famiglie, è la misura di questa amara eterogenesi dei fini. Due classi sociali vengono messe a confronto: i “deboli” a un estremo, gli “agiati” all’estremo opposto. I primi sono poveri o a rischio povertà, hanno un reddito familiare medio di 13.600 euro l’anno e ovviamente non possono risparmiare neppure un centesimo: sono il 30,6 per cento del campione, che trasferito sull’intera popolazione italiana significa 7,7 milioni di famiglie. I secondi hanno un reddito medio netto di 68.700 euro e sono l’8,5 per cento delle famiglie, 2,1 milioni. Quanto spendono queste due classi per il welfare tirando fuori i soldi dai loro portafogli? I più poveri il 19,1 per cento del loro reddito; i più ricchi il 14,7. Insomma, proprio le famiglie più disagiate, del tutto prive di capacità di risparmio, devono dare un quinto dei propri guadagni per accedere a servizi sociali essenziali. Le spese basilari Se poi all’interno di quella spesa, andiamo a vedere quanto si paga per salute, istruzione e trasporto casa-lavoro più mensa – tre servizi difficilmente comprimibili – allora lo scarto è ancora più marcato. Per la salute (soprattutto visite specialistiche, servizi paramedici, occhiali da vista e dentista) le famiglie in condizioni di debolezza pagano più del doppio di quelle agiate: il 7,8% del proprio reddito contro il 3,4. Per l’istruzione (tasse, rette, mensa, asili nido e didattica) il 2,7 contro l’1,3. Per il lavoro il 6,3 contro il 3,3%. Il divario Nord-Sud Le ragioni di questa clamorosa stortura redistributiva sono in gran parte riposte nella differente offerta pubblica di welfare al Centro-Nord, dove è buona o dignitosa, e nel Mezzogiono, dove è spesso precaria, mediocre o addirittura assente. Così al Sud e nelle Isole, cioè proprio lì dove si concentrano le classi più disagiate, il 55 per cento delle famiglie è costretto a sborsare di tasca propria le visite specialistiche (contro il 44,7 del Nord), e quasi la metà paga gli esami diagnostici e i farmaci per malattie croniche (contro il 20-30 delle regioni settentrionali). Questo succede quando molte prestazioni pubbliche sono indisponibili o quando i tempi di attesa sono intollerabili (nonostante i miglioramenti recenti): per una mammografia, ricorda il Censis, si aspettano al Sud in media 142 giorni, per una risonanza magnetica 111. L’assistenza ai non autosufficienti è un altro esempio di welfare al contrario: ad accollarsi interamente il relativo costo sono quasi tutte le famiglie disagiate (l’87,5 per cento), e solo il 63,8 di quelle agiate. Al Sud, in particolare, emerge l’inadeguatezza dell’offerta pubblica, con una qualità dei servizi insufficiente nel 35,7 per cento dei casi, contro il 17,6 della media nazionale. I “rinunciatari” Ma tra i “deboli”, accanto a coloro che per sanità, istruzione e lavoro pagano più dei ricchi, c’è un’altra fetta, ancora più numerosa e più bisognosa, che è costretta a rinunciare a quelle prestazioni perché il suo bilancio non glielo consente. Secondo l’indagine di Mbs Consulting, su 100 famiglie della classe “debo-le”, 60 non si possono permettere almeno una parte delle cure sanitarie, 58 non possono offrire ai propri figli asili nido, corsi specifici e gite scolastiche, 50 lasciano perdere le spese per cultura, intrattenimento e sport. Anche nell’istruzione, dunque, la rinuncia alle prestazioni è percentualmente molto pesante tra le famiglie più povere. Ma è soprattutto nella sanità che questo fenomeno assume proporzioni spesso drammatiche. L’ondata di rinunce alle cure nasce dal fatto che il nostro stato sociale chiama più che in passato i cittadini a pagare una parte delle prestazioni di base, per esempio attraverso i ticket. E non tutte le famiglie disagiate sono esenti. Squilibri e qualità Insomma, conclude l’indagine, la struttura del welfare familiare risulta “profondamente squilibrata”, e “i due principi su cui poggia il nostro stato sociale – redistributivo e universalistico – sono contraddetti sul piano fattuale, soprattutto in alcune aree del Paese, a causa della prolungata riduzione di risorse”, Certo, “il sistema sanitario nazionale italiano mantiene, nel confronto internazionale, livelli riconosciuti di qualità delle prestazioni specialistiche e ospedaliere. Ma le difficoltà di acceso alle cure non di urgenza e agli esami diagnostici ha distribuito tra le famiglie costi maggiori e soprattutto non proporzionali alle capacità di spesa”. Doppia ingiustizia Si consuma così un’ingiustizia sociale dal doppio volto. Una parte dei più deboli, per avere i servizi essenziali, si trova a dover pagare in rapporto al proprio scarso reddito, la quota più alta di qualunque altra classe sociale. Un’altra parte è costretta addirittura a rinunciare a quelle prestazioni. In entrambi i casi, per ristabilire un minimo di giustizia la prima cosa da fare è salvaguardare il welfare pubblico, preservarlo dai tagli e soprattutto migliorarlo al Sud. Ma servirebbe anche una politica redistributiva molto più incisiva di quella attuale. Finora le risorse destinate dallo Stato alle classi più indifese sono state troppo esigue per invertire lo spaventoso aumento della povertà che si è verificato nel nostro Paese durante gli anni della recessione: i poveri assoluti sono più che raddoppiati arrivando a 4,7 milioni, per poi stabilizzarsi a partire dal 2015. Ma sul versante delle risorse, soltanto adesso cominciano ad arrivare flussi significativi: 2 miliardi nel 2018, 2,5 nel 2019 e 2,7 nel 2020, grazie soprattutto al reddito di inclusione, entrato da poco in funzione e alle altre misure previste. Difficile redistribuzione Nel suo ultimo rapporto annuale, l’Istat dice che durante la recessione lo Stato, malgrado abbia cercato di aiutare le categorie più colpite dalla crisi, non lo ha fatto sufficientemente, non è riuscito cioè a “contrapporsi alle forze di mercato”. Così alla fine la capacità di redistribuire i redditi è risultata da noi “tra le più basse in Europa”. Tra il 2007 e il 2014 ad essere penalizzata è stata proprio la classe più debole e in gran parte giovane, mentre una protezione maggiore è stata data alle classi medie e medio- basse di pensionati. Molto è cambiato dopo il 2014, dice l’Istat. Le politiche di redistribuzione (con il bonus di 80 euro, la quattordicesima ai pensionati e il primo sostegno di inclusione per i poveri), hanno avuto un impatto indubbiamente positivo sull’aumento del reddito disponibile dei più deboli. Ma non basta ancora. Bisognerà vedere se e in che misura il reddito di inserimento contro la povertà assoluta (ammesso che sia conservato dalla futura compagine governativa) riuscirà a rendere il nostro welfare un po’ meno strabico.

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