martedì 24 aprile 2018

ISRAELE DEPORTA UNA MAMMA PALESTINESE IN CISGIORDANIA, PORTANDOLA VIA DALLA SUA FAMIGLIA A GERUSALEMME - Gideon Levy e Alex Levac





18 aprile 2018
“Posso venire con voi?”, ci ha chiesto il ragazzo, con gli occhi imploranti. Fino a quel momento, era rimasto seduto tra di noi, con la faccia gelida e amareggiata, ma ora improvvisamente scatta verso la vita. Avevamo appena detto a suo padre che stavamo pensando di andare dalla loro casa al campo rifugiati di Al-Amari vicino a Ramallah, per incontrarci con la madre del ragazzo.
Tre settimane fa, la mattina presto, le truppe della Polizia di Frontiera sono arrivate alla casa della famiglia Abid nel quartiere Isawiyah di Gerusalemme Est, hanno svegliato gli occupanti e portato la madre, Ibtisam, e il padre, Vasim, ad una stazione di polizia. Poche ore più tardi, la polizia ha portato Ibtisam ad uno dei checkpoint che separano Gerusalemme dalla Cisgiordania e l’hanno espulsa verso i territori.
Ciò segnava la fine di almeno 17 anni durante i quali Ibtisam ha vissuto a Gerusalemme Est in una casa insieme a Vasim, nato a Gerusalemme, e i loro tre figli, Naye , 14 anni, Mohammed, 13, ed Emira, 12. Suo marito e i figli hanno tutti numeri di carta di identità israeliani, essendo nati a Gerusalemme ( i bambini sono registrati sulla carta di identità blu del loro padre), e risiedono legalmente in Israele, ma Israele non ha mai consentito di accordare ad Ibtisam lo status di residenza, perché era nata in Cisgiordania. Dopo numerosi tentativi dal servizio di sicurezza dello Shin Bet di reclutare suo marito come informatore, le autorità hanno deciso di deportare la moglie e madre in Cisgiordania, lasciando suo marito e tre figli disorientati e in una perdita totale. Questa settimana i due ragazzi non sono andati a scuola, perché la loro madre non ha potuto svegliarli come al solito. Anche Emira, che è nel campo rifugiati con sua madre, ha perso la scuola, perché la sua scuola è ad Isawiyah.
Isawiyah sembrava come una zona di guerra quando l’abbiamo visitato lunedì. Dozzine di truppe della Polizia di Frontiera, blindate da capo a piedi e armate e accompagnate da cani, hanno invaso il quartiere e camminato a grandi passi attraverso i vicoli con la loro tipica aria autoritaria. Alcuni indossavano abiti con tasche riempite di dozzine di granate lacrimogene; sembravano come attentatori suicidi con cinture esplosive sulla strada di perpetrare un attacco. I cani appesantivano l’aura di terrore proiettata dai loro padroni.
L’atmosfera nel quartiere di Gerusalemme Est era tesa e altamente carica. Non abituati a tali segnali, anche noi ci siamo spaventati, insieme ai locali, che tuttavia andavano come di routine per i loro affari. Era chiaro che il più piccolo errore avrebbe potuto innescare una deflagrazione. Dei giovani di tanto in tanto gridavano alle truppe. La polizia ci ha abbaiato quando ci siamo spinti con la macchina ad un lato per un momento, per chiedere a qualcuno un indirizzo. Le truppe erano apparentemente sulla strada per la locale scuola superiore, per quale scopo non era chiaro. Con loro c’era una fotografa della polizia in abbigliamento civile, sebbene indossasse un casco, e alcuni altri individui non in uniforme con i caschi.
In mezzo al tumulto, la famiglia Abid vive al terzo piano di un edificio residenziale. La loro casa ha un senso kitsch, con luci rosse e blu che brillano nel soggiorno. Il frigorifero è vuoto – mamma non è andata in giro a fare la spesa.
Vasim ha 40 anni, muscoloso, tatuato e disoccupato. Ha passato cinque anni in una prigione israeliana per “offese alla sicurezza”, come le chiamano. Ha sposato Ibtisam, che ha 37 anni, nel 2001. Sono cugini che si sono innamorati quando lei lo ha visitato in carcere. Lei aveva vissuto qui, in questo appartamento di Isawiyah, dal loro matrimonio. Solo quando ha compiuto 25 anni ha potuto sottoporre una richiesta per la residenza. La sua domanda è stata respinta per “ragioni di sicurezza”, senza una spiegazione, certamente. Oltre al fatto che suo marito ha scontato una pena, alcuni dei lontani parenti di Ibtisam sono attivisti di Hamas. Nel corso della petizione all’Alta Corte di Giustizia nel 2015, i numeri delle carte di identità israeliani erano stati concessi ai tre figli – ma non ad Ibtisam. Finché i bambini non hanno ricevuto i numeri, non avevano assicurazione medica; il loro padre chiedeva ai suoi dottori di fare le prescrizioni per loro a suo nome. La vita a Gerusalemme unificata.
La vita andava avanti. Ibtisam ha vissuto nella sua casa illegalmente per 17 anni, mai lasciando Isawiyah tranne che per partecipare alle preghiere del venerdì, alla moschea Al-Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme quando i tempi erano tranquilli. Ogni tre mesi presentava una richiesta per visitare Gerusalemme, e di solito riceveva un permesso per starvi una settimana. Allora andava ad Al-Amari per vedere sua madre e la sua famiglia, cui era vietato visitare Gerusalemme, e poi tornava a casa usando il permesso temporaneo. Il ciclo è andato avanti per anni.
È stato anni fa, quando Vasim era in prigione, che lo Shin Bet tentò di recrutarlo, ma egli rifiutò l’offerta, ci dice. Fu convocato parecchie volte per parlare ad agenti dell’organizzazione, che gli offrivano una carta di identità per Ibtisam in cambio della sua cooperazione.
Più o meno un mese fa, la Polizia di Frontiera è tornata alla casa degli Abid nel mezzo della notte ed ha arrestato Nayef, il figlio maggiore, sospettato di lancio di pietre. Di nuovo Vasim è stato convocato dallo Shin Bet alla stazione di polizia sulla via Salah-e-Din, attraverso la strada dalle mura della Città Vecchia, dove un agente gli ha detto che in cambio della sua cooperazione suo figlio sarebbe stato rilasciato ed Ibtisam avrebbe ottenuto una carta di identità. Ha rifiutato; Nayef è stato rilasciato dopo 10 giorni di detenzione al Russian Compound della polizia nel centro di Gerusalemme.
Il 28 marzo, la Polizia di Frontiera si è mostrata di nuovo, questa volta alle 6 del mattino. In una maniera relativamente educata, hanno ordinato ai genitori di accompagnarli. Per circa cinque ore i due sono stati tenuti in una stanza alla stazione di polizia, ma non è stato loro permesso di parlarsi l’uno con l’altra. Quando Vasim è stato portato dentro per l’interrogatorio, l’interrogatore gli ha detto, “Hai rifiutato di lavorare con noi, e pertanto, per la legge, dobbiamo espellere tua moglie, che è qui illegalmente”. È stato rilasciato alle 4 del mattino, ed è andato a casa. Non aveva idea di dove fosse Ibtisam. Solo più tardi quella sera ha saputo che era stata espulsa ed era andata a casa di sua madre.
Ben abituato alla vita sotto occupazione, il 13enne Mohammed si affretta a prendere il suo certificato di nascita plastificato. È pericoloso per lui lasciare la casa senza: esso dice che era nato a Gerusalemme, cosa che gli permette libertà di movimento. Dato che non ha ancora 16 anni, non ha per ora una sua carta di identità. Lo portiamo con noi al campo Al-Amari, attraverso il notorio checkpoint Qalandiyah. Il viaggio prende più di un’ora per la lunga attesa per passare il checkpoint.
La nuova-vecchia casa di Ibtisam è in un vicolo appena largo abbastanza per camminarci. Mohammed corre davanti a noi per salutarla. Si erano incontrati anche il giorno prima; la squadra di calcio di Mohammed aveva giocato una partita nella vicina Ramallah, e sua madre aveva colto l’opportunità di vedere lui e suo fratello, che erano venuti insieme. I bambini hanno pianto vedendola e non volevano tornare indietro a Gerusalemme quando il tempo è finito.
Ibtisam ci saluta in jeans e un tradizionale copricapo e, insolitamente, agita le mani. Sta contando i giorni da quando è qui – questo è il 19° giorno dalla sua espulsione.
Ci dice che la polizia le ha chiesto se era di Hamas o Fatah. “Io non sono di Fatah e non sono di Hamas”, ha risposto, “Io sono una regolare donna palestinese”. L’hanno informata che stava vivendo illegalmente a Gerusalemme, e lei ha detto loro, “Voi siete da biasimare per questo, non io. Io ho vissuto qui per 17 anni. I miei figli e mio marito sono qui. Devo vivere con la mia famiglia”.
Dopo una mezz’ora di domande, ad Ibtisam sono state prese le impronte digitali e le hanno fatto firmare un documento che dichiarava che prometteva di non ritornare alla sua casa e a Gerusalemme. È stata portata via in una macchina della polizia che lungo la strada è passata per l’entrata ad Isawiyah; la polizia non le ha permesso di prendere i vestiti o altri oggetti dalla sua casa. È stata condotta al checkpoint A-Za’im, vicino all’insediamento di Ma’aleh Adumim fuori Gerusalemme, e lasciata al suo destino.
Suo suocero, Nayef Abid, che ha una carta di identità israeliana, la stava aspettando al checkpoint. Era andato alla stazione di polizia quella mattina per cercare di scoprire dove fossero suo figlio e sua nuora, e gli era stato detto che Ibtisam sarebbe stata espulsa ad A-Za’im nel pomeriggio. L’ha portata a casa di sua madre, Nawal Barash, 58 anni, che era rimasta vedova pochi anni fa. Poi Nayef è andato ad Isawiyah per prendere dei vestiti e oggetti personali per Ibtisam, e le ha portato anche sua figlia Emira.
La situazione in cui i suoi due figli non vanno a scuola e la loro sorella non può frequentare le lezioni non può continuare, ci dice Ibtisam: Emira deve tornare ad Isawiyah. Muoversi da un campo rifugiati è fuori questione per la famiglia, In quanto perderebbero il loro status di residenza e i numeri delle carte di identità, che assicurano una relativa libertà e benefici di welfare sociale. In nessuna circostanza i bambini perderanno i loro diritti a Gerusalemme, dicono i genitori. Questo è un limbo crudele.
Sabine Hadad, direttrice dell’ala del portavoce e dell’informazione dell’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione ( un ramo del ministero degli interni) ha offerto una breve, laconica replica ad una interrogazione di Haaretz questa settimana: “La richiesta dei familiari per l’unificazione della famiglia è stata rigettata già nel 2014 per ragioni di sicurezza”.
Vasim ha visitato sua moglie solo una volta da quando è stata espulsa. È difficile per lui avere a che fare con il checkpoint Qalandiyah, dice. Ciò che è illegale, dichiara, è dividere una famiglia dopo 17 anni.
“Sono di Gerusalemme”, dice. “Sono nato qui. La mia famiglia e i miei amici sono qui. I miei figli sono nati qui. La scuola dei miei bambini è qui. La loro clinica HMO è qui. La mia vita intera esiste qui. È come un pesce nell’acqua: se lo togli dall’acqua, morirà”.
Nel frattempo, Ibtisam telefona ai suoi figli ogni giorno, ma non sempre li raggiunge: è connessa ad un provider israeliano e la ricezione nel campo rifugiati è scarsa.
da qui

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