giovedì 5 aprile 2018

Il massacro di Pasqua a Gaza non è stato affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese - Neve Gordon



Per decenni i sionisti hanno imputato ai palestinesi la prosecuzione del progetto coloniale di Israele: “Se solo i palestinesi avessero un Mahatma Gandhi,” molti progressisti israeliani hanno esclamato, “allora l’occupazione finirebbe.”
Ma se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì notte. Palestinesi, stimati in 30.000, si sono uniti nella “Marcia del Ritorno” nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la massiccia espropriazione della loro terra ancestrale – dopotutto il 70% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del ’48 le cui famiglie sono state proprietarie di terre in quello che è diventato Israele.
Mentre gli abitanti di Gaza marciavano verso la barriera militarizzata, stavo seduto con la mia famiglia, recitando l’Haggadah [testo ebraico che ricorda l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ndt.] per la festa di Pesach, che ci dice che “in ogni generazione c’è il dovere di guardare se stessi come se fossimo noi stessi usciti dall’Egitto”. In altre parole, mentre i soldati sparavano proiettili letali contro manifestanti pacifici, ai genitori di quei soldati veniva chiesto di immaginarsi cosa significhi vivere a Gaza e che cosa ci vorrebbe per liberarsi da una simile prigionia. E quando la mia famiglia ha iniziato a cantare “Non devono più faticare in schiavitù, lasciate che il mio popolo se ne vada,” i siti di notizie riferivano che il numero di palestinesi morti aveva raggiunto i 17, mentre parecchie centinaia erano stati feriti.
L’accusa che i palestinesi non hanno adottato metodi di resistenza non violenta e quindi condividono la responsabilità della continua oppressione e espropriazione da parte di Israele non solo nega completamente la notevole asimmetria delle relazioni di potere tra il colonizzatore ed il colonizzato, ma, cosa non meno importante, non prende in considerazione la storia politica e le lotte anticoloniali, non ultima proprio quella palestinese. Inoltre ignora totalmente il fatto che il progetto coloniale di Israele è stato condotto attraverso una violenza ususrante, prolungata e diffusa e che, a differenza di quello che certi mezzi di informazione occidentali propongono, i palestinesi hanno sviluppato una forte e persistente tradizione di resistenza non violenta. Oltretutto, la richiesta di adottare un’ideologia non violenta ignora completamente la storia di altre lotte di liberazione: dall’Algeria al Vietnam, fino ad arrivare al Sud Africa.
Nonviolenza palestinese
La “Marcia del Ritorno” nonviolenta di venerdì e la risposta israeliana non sono affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese. La marcia è stata organizzata in coincidenza con l’anniversario del “Giorno della Terra”, che commemora quel tragico giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane affrontarono uno sciopero generale e una protesta di massa organizzata dai cittadini palestinesi di Israele, la cui terra era stata confiscata. In quella protesta pacifica sei palestinesi vennero uccisi e altre centinaia feriti dall’esercito israeliano.
In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le cose sono sempre andate molto peggio, dato che ogni forma di resistenza palestinese non violenta è stata un diritto vietato dopo la guerra del 1967. Tenere incontri politici, sventolare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o distribuire articoli o disegni di carattere politico o persino cantare o ascoltare canzoni nazionaliste – per non parlare dell’organizzazione di scioperi e manifestazioni – sono stati illegali fino al 1993 (ed alcuni lo sono ancora nell’Area C [oltre il 60% dei territori occupati, sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndt.]). Qualunque tentativo di protestare in uno di questi modi è stato inevitabilmente affrontato con la violenza.
Appena tre mesi dopo la Guerra del 1967, i palestinesi lanciarono con successo uno sciopero generale delle scuole in Cisgiordania: i docenti rifiutarono di presentarsi al lavoro, i ragazzini occuparono le strade per protestare contro l’occupazione e molti commercianti non aprirono i propri negozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile Israele mise in atto severe misure poliziesche, dal coprifuoco notturno ad altre restrizioni alla libertà di movimento, fino all’interruzione delle linee telefoniche, all’arresto di dirigenti e a crescenti maltrattamenti nei confronti della popolazione. Questo, in molti modi, diventò il modus operandi di Israele quando dovette affrontare la continua resistenza nonviolenta dei palestinesi.
Eppure sembra che vi sia una generale amnesia sociale riguardo alla reazione di Israele alle tattiche gandhiane. Quando i palestinesi lanciarono uno sciopero del commercio in Cisgiordania, il governo militare chiuse decine di negozi “fino a nuovo ordine”. Quando tentarono di emulare lo sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze di sicurezza bloccarono completamente le linee dei bus locali. Inoltre durante la Prima Intifada i palestinesi adottarono strategie di disobbedienza civile di massa, compresi scioperi dei negozianti, boicottaggio dei prodotti israeliani, una rivolta fiscale e proteste quotidiane contro le forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione del coprifuoco, la limitazione della libertà di movimento e arresti di massa (per citare solo alcune delle misure violente). Tra il 1987 e il 1994, per esempio, i servizi segreti interrogarono più di 23.000 palestinesi, uno ogni cento abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Ora sappiamo che molti di loro vennero torturati.
Quindi il dramma è che questo massacro di Pasqua non fa che unirsi a questa lunga lista della resistenza nonviolenta che è stata storicamente affrontata da Israele con la violenza e la repressione.
“Le sommosse sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”
Immaginiamo per un momento cosa significhi vivere in una prigione a cielo aperto, anno dopo anno. Immaginiamo di essere i prigionieri e che il carceriere abbia il potere di decidere quanto cibo possiamo mangiare, quando possiamo avere l’elettricità, quando possiamo ricevere trattamenti sanitari specialistici e se possiamo avere abbastanza acqua da bere. Immaginiamo anche che ogni volta che camminiamo nei pressi della barriera diventiamo bersaglio delle guardie. Quali azioni di resistenza nonviolenta sono effettivamente a nostra disposizione? Andreste pacificamente ad attraversare la barriera? Migliaia di palestinesi l’hanno coraggiosamente fatto e molti hanno pagato con la vita.
Anche se Gaza è, da molti punti di vista, unica, storicamente le popolazioni indigene si sono trovate in situazioni simili. Ciò è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, quando hanno affermato “la legittimità della lotta dei popoli per la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione ad altri con ogni mezzo possibile, compresa la lotta armata.” Lo stesso Gandhi pensava che in certe circostanze la violenza fosse una scelta strategica legittima: “Io credo”, scrisse, “che dove c’è solo la scelta tra la vigliaccheria e la violenza io raccomanderei la violenza…Pertanto io sostengo anche l’addestramento all’uso delle armi per quelli che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il proprio onore piuttosto che diventasse o rimanesse vigliaccamente testimone impotente del proprio disonore.”
Si potrebbe sperare altrimenti – ed io sicuramente lo faccio -, ma nessun progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati abbiano fatto ricorso alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o persino domandare con rabbia la liberazione non è mai stato efficace.
Ironicamente questo è anche uno dei messaggi fondamentali della festa della Pasqua ebraica. La storia dell’Esodo racconta come Mosè si rivolse varie volte al faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù. Eppure ogni volta il faraone rifiutò. Fu solo dopo che una terribile violenza venne scatenata contro gli egiziani che gli israeliti vennero liberati.
Questa di certo non è una cosa che possiamo mai augurarci, ma quando si guarda la risposta di Israele alla marcia non violenta dei palestinesi, quello che è chiaro è che dobbiamo urgentemente trovare un modo per capovolgere la domanda sionista per evitare futuri bagni di sangue. Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi hanno diritto alla libertà?

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.
(Traduzione di Amedeo Rossi)
da qui

Nessun commento:

Posta un commento