domenica 29 aprile 2018

Ragazze in fuga: fra patriarcato violento e amore - Martina Castigliani




Sono dodici mesi che Shaheen non esiste più. Non c’è a casa, non c’è a scuola. Non la incontri mentre passeggia con la mamma. Se la chiami risponde una voce registrata: il numero è bloccato. Non c’è su Facebook, non ha una mail e il medico assicura che non risulta in nessun ospedale. Shaheen ora si chiama Jasmine e, seduta nel salotto di un luogo segreto nel Sud Italia, racconta a bassa voce di come è morta. Straniera cresciuta in Italia, ribelle senza velo di una famiglia musulmana, è stata promessa in matrimonio dai fratelli per salvare l’onore della famiglia. Da quel giorno è iniziata la fuga, da quel giorno non è più al sicuro da nessuna parte. «Se mi trovano rischio la vita. Io ho paura, sempre». Parla e gli occhi bruciano di tutto il coraggio che le è servito per arrivare fino lì. Raccontare la sua storia è un pericolo, ma, dice, va fatto per aiutare le altre che non hanno la forza di morire per una libertà. Sono tante, anche se non si sa quante. Sono figlie di famiglie straniere, quasi sempre senza cittadinanza, nate già donne che chiedono di potersi scegliere la vita.
Se chiedete il numero dei matrimoni forzati in Italia, nessuno ve lo sa dare. Se chiamate i centri antiviolenza e i servizi sociali, vi spiegheranno che sono decine le ragazze che chiedono aiuto ogni mese e che cercano di scappare da unioni combinate contro il loro consenso. Sono originarie di Pakistan, India o Bangladesh e hanno tra i 16 e i 25 anni: troppi per parlare di “spose bambine”, pochi per lasciare che siano mogli di chi non hanno scelto. Per ribellarsi serve una denuncia per maltrattamento e denunciare la propria famiglia è la parte più difficile. Chiedono di scappare, ma un sistema di protezione ufficialmente non esiste.
Così se lo sono inventato le operatrici sociali, abituate a risolvere i problemi prima ancora che intervenga una legge. Dato l’allarme, le ragazze vengono prelevate come fossero testimoni di giustizia in fuga dalla mafia: si scelgono giorno e ora, si trova una scusa per farle allontanare dalla famiglia. O la ragazza riesce a uscire di casa spontaneamente, oppure, con la complicità delle forze dell’ordine, interviene un esterno (un medico, una professoressa o un’amica). Di solito si inventa una scena con attori e comparse: dettagli non se ne possono rivelare, perché il sistema, per funzionare, deve restare segreto. Se la famiglia ha già portato la figlia all’estero, per la legge la causa è persa. Ma il “servizio protezione” fai da te smuove in modo informale conoscenze sul posto, anche nelle ambasciate: si stabilisce un canale di comunicazione clandestino e si aiutano le ragazze a trovare una scusa per raggiungere l’aeroporto. Poi in Italia inizia la vera fuga.
L’unica soluzione è scomparire: un giorno sei figlia, il giorno dopo nessuno sa niente di te. Si ricomincia altrove con una nuova identità e lasciandosi dietro tutto e tutti: la famiglia, gli amici e pure i fidanzati clandestini. Perché se vuoi essere libera, devi dimenticare persino chi amavi di nascosto e avresti voluto con te nella nuova vita. Tiziana Dal Pra, presidente di Trama di Terre, una delle poche associazioni in Italia che aiuta queste ragazze, sceglie una frase di Christa Wolf per spiegarlo: «“Tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere”. Ossia per queste donne, fra l’uccidere una parte di sé e il morire per mano delle loro famiglie, c’è la vita». Per le ragazze è impossibile non fare errori, riuscire a stare lontano da tutti e non cedere ai tentativi di riavvicinamento. Ma è l’unica strada.

Jasmine non ce l’ha ancora fatta. Seduta in quel salotto, lontana chilometri da casa sua, racconta della solitudine che la mattina ammazza il fiato e della libertà che fa a pugni con il ricordo di aver abbandonato una madre. A Fq Millennium dice che il giorno in cui ha deciso di scappare di casa è durato un istante. Ha preso un sacchetto e nascosto i vestiti sotto un quaderno: «Sai quando dici che sei partito con una valigia mezza vuota? Io non avevo nemmeno la valigia». Sotto il braccio la borsa grande da riempire fino a sfondare e dentro quasi niente. «Ho preso le foto. Ma ho dovuto lasciare gli orsacchiotti di peluche». Nessun tempo per ripensare al piano: ha attraversato il corridoio, chiuso la porta e all’improvviso non esisteva più. «Non ho potuto salutare la mia mamma, nessuno. Mi dispiace, è una colpa che sento».
Colpa. È la parola che ripete continuamente. «Non so se ha capito o se mi odia per quello che ho fatto. Ero molto cambiata e ho dovuto fare questa scelta per me stessa. Quando perdi qualcuno però ripensi a tutte le cose che non gli hai dato». Jasmine, nata in Pakistan e orfana di padre, è in Italia da quando aveva dieci anni. Viene iscritta a scuola, ma presto si accorge che è una formalità: deve stare in casa con la madre. Per un po’ riesce a resistere, ma le pressioni si fanno ogni giorno più forti: non può andare in gita, frequentare le feste, indossare vestiti stretti, iscriversi in palestra o fare stage di lavoro. Lei vuole, ma non può.
Le cose peggiorano quando decide di togliere il velo: «Vedevo le mie compagne che si facevano le acconciature e pensavo ai miei capelli lisci che non potevo far vedere a nessuno. Non è giusto. Perché i miei fratelli possono fare quello che vogliono e io no? Sono testarda e so che rispondevo sempre male. Ma loro mi provocavano: mi svegliavano di notte per farmi pregare. Neppure loro sono praticanti, che senso ha?». Poi la frase, ripetuta sempre e ossessivamente: «Sei la vergogna della nostra famiglia. Se papà fosse vivo ti avrebbe già uccisa». Si ferma: «Sono sicura che l’avrebbe fatto». Lo dice con tutta la freddezza di mesi a costruirsi una maschera, senza muovere un muscolo: «Mio fratello maggiore ha alzato due volte il coltello contro di me. Da quel momento non ho più reagito. Rischiavo troppo». Per un po’ tiene duro, fino a quando la mamma non le rivela il piano: «Mi disse: “Hanno ragione i tuoi fratelli, ti manderemo in Pakistan per farti sposare”. Ho capito che non potevo più aspettare».
Quella è stata la parte con l’adrenalina, quando tutto va troppo in fretta per pensare e c’è solo da seguire l’istinto. Poi la nuova vita e la lotta quotidiana contro il vuoto di non poter più chiamare la mamma. Neppure per litigare. «Il mio sogno era andarmene via con lei. Vivere sole noi due. Ma diceva che non era possibile. È difficile per lei capire, è anziana ed è cresciuta in quella cultura. So che le hanno fatto il lavaggio del cervello. Ma io sono cambiata. Mi spiace così tanto. Avrei dovuto essere il suo aiuto». Il nome finto che ha scelto per sé viene da un film, è quello di una delle eroine. «È bella e forte. Come voglio essere io». Il problema è il passato che non la lascia andare, che non le dà tregua e la assale quando meno se lo aspetta: «Sono molto fredda. Ho congelato i ricordi e faccio finta di niente. Ma quando penso di aver dimenticato, all’improvviso tornano. E piango, è ovvio». La parte più difficile ora è cosa fare con la libertà. «Molti pensano che dopo che sei scappata inizi a bere, fumare e vuoi solo andare a letto con qualcuno. I miei fratelli pensano che io faccia la prostituta. Ma io non bevo e non fumo e voglio trovare l’uomo giusto per il mio futuro. Poi magari faremo dei figli insieme. Se succederà, darò loro tutto quello che non ho avuto. Le attenzioni, i giochi. Tutto». Qui fa il primo sorriso: «C’è un ragazzo che mi piace. Dovrei scrivergli un messaggio? Non so come si fa. Devo fare il primo passo? Sono timida. Mio fratello mi gridava sempre: “Senza di me non sei nessuno”. Te lo credo che non ho fiducia in me. Adesso ho paura che rimarrò sola per sempre. Ma almeno posso decidere. Lo dicevo ai miei fratelli: “Dormo io, sposo io”. Sono io che devo dormire ogni notte con un uomo, sempre io che devo scegliere chi sposare».
È un percorso lungo, cercare quello che si voleva essere e provare a diventarlo da soli. «Potrei telefonare a casa, ma ho paura. So che mi insulterebbero e non sono ancora pronta per quelle parole. Però so anche che la mia mamma è malata e che quando avrò il coraggio di chiamarla, potrebbe essere troppo tardi».

Tra chi ce l’ha fatta c’è Prya, indiana promessa al cugino di primo grado quando era minorenne. Per tanto tempo ha detto che non se la sentiva di sposarlo perché era troppo piccola. La famiglia ha fatto finta di ascoltarla, finché l’ha portata in India. Anche lì ha cercato di ritardare la cerimonia, ma la sorte era già scritta. L’ultima resistenza è stata rifiutarsi di andare a letto con il marito. Un disonore troppo grande e il padre l’ha punita. Nonostante le botte, subite ogni notte per settimane, Prya non ha mai ceduto e una volta tornata in Italia è scappata. Ci sono voluti anni per ricostruire la sua vita, ma ora è riuscita a ricongiungersi con la mamma e la sorella. È solo una delle tante. Durante le ricerche contattiamo Shirin, pakistana. La storia è simile a tante altre: il biglietto aereo in piena estate per tornare in patria, le nozze combinate e la richiesta d’aiuto dal Pakistan inviata a un’amica. Un miracolo delle operatrici permette il rientro in Italia e quindi la fuga: prima il contatto con l’ambasciata sul posto e poi l’interessamento delle istituzioni in via informale. Anche quando non puoi fare nulla di concreto, le pressioni aiutano. Shirin sembrava disposta a raccontare la sua storia e ci ha pensato una settimana prima di annullare tutto: la famiglia l’ha già rintracciata una volta e lei ha dovuto morire, cioè sparire, di nuovo. Non se la sente.
Stesso copione per Asiya: 23 anni e originaria del Nord Africa. Per due anni ha vissuto con l’uomo scelto dalla famiglia. Si è ammalata di depressione e che lei stava male se ne è accorta un’operatrice. Ora vive nascosta sperando che si dimentichino di lei. Un’intervista? Sa che servirebbe per aiutare le altre, ma ha troppa paura.

In Italia non esiste una legge sui matrimoni forzati, ma, grazie alla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne (2011), questi abusi rientrano nel reato di maltrattamenti, puniti con l’articolo 572 del codice penale (da 2 a 6 anni di carcere). In mezzo c’è il lavoro quotidiano di operatrici ancora troppo sole. C’è una rete che, se funziona, vede in prima linea i servizi sociali e i centri antiviolenza. Chi da anni lavora sul tema ed è considerata un’eccellenza è l’associazione Trama di Terre, fondata a Imola nel 1997. Dal 2011 si è occupata di 49 donne: 31 dal Pakistan, 4 dall’Albania, 3 dal Bangladesh, 3 dal Marocco, 2 dall’India, 1 dallo Sri Lanka, 1 dalla Tunisia, 1 dalla Costa d’Avorio, 1 dall’Afghanistan, 1 dal Kurdistan, 1 dall’Iran.
L’assistenza è un percorso lungo e il primo problema è a chi dare l’allarme: servono il momento e la persona giusta, che sia l’insegnante, una bidella o il referente dello stage. «Dopo la prima richiesta», spiega l’operatrice e responsabile del centro antiviolenza di Trama, Alessandra Davide, «cerchiamo di vedere di nascosto le ragazze e ci vogliono vari colloqui prima che decidano di scappare. È complesso comunicare e dobbiamo inventarci strategie per incontrarle dove non sono controllate dalla famiglia». Se la giovane ha meno di 18 anni vengono contattati i servizi sociali, quindi la Procura dei minori e si può procedere con l’allontanamento. Se maggiorenne, invece, è la ragazza che deve decidere da sola.
La parte più difficile è preparare alla separazione dagli affetti: «Come si fa? Si dice la verità», spiega Alessandra Davide. «Il vuoto che ti lascia l’addio alla famiglia è devastante. Noi offriamo sostegno per affrontare il dolore, ma quel vuoto non lo riempirà mai nessuno. Si annullano per poi ricostruirsi un’identità, è un processo difficile».
Sul matrimonio di queste donne si gioca l’onore della famiglia. Spesso vengono sposate con i primi cugini per far sì che le ricchezze non escano dal nucleo, mentre altre, se hanno la cittadinanza italiana, diventano il modo più veloce per dare il passaporto a un familiare. In alcuni casi poi, è una punizione per quelle che non seguono le regole della comunità e vogliono vivere all’occidentale. «Le ragazze che chiedono aiuto hanno chiaro in testa che non vogliono condividere nessuna intimità con chi non hanno scelto. Noi riteniamo che si tratti di un vero e proprio stupro legalizzato. Ma a volte nemmeno questo basta per denunciare i genitori». Per chi decide di andare avanti si prepara la fuga. «Per sicurezza, le ragazze sono trasferite il più lontano possibile da casa e chiediamo loro di scegliere un falso nome, anche se poi non abbiamo il diritto di modificare i documenti. È la banalità della burocrazia quotidiana: c’è sempre il rischio che, durante una pratica, la notifica finisca alla residenza della famiglia».
Il controllo della comunità d’origine è sistematico: subito dopo la scomparsa della ragazza, inizia un’indagine tramite i referenti sul territorio e le informazioni circolano velocissime.

Il pericolo non è solo essere rintracciate, ma rimettere in gioco la decisione. Passano i mesi e iniziano i tentativi di contatto da parte delle famiglie: lettere, richieste di incontri e, per chi ce la fa, telefonate. Tramite avvocati, operatrici o mediatori, le famiglie abbandonate fanno di tutto per riavere a casa le figlie. «Le mamme, i papà e i fratelli», continua Alessandra Davide, «sono attori incredibili. Colgono la tua fragilità e la utilizzano per farti tornare. Promettono che tutto sarà diverso o fanno leva sulla minaccia che ci saranno ritorsioni sulle madri, le sentinelle che erano incaricate di vigilare su di loro. Capita che le ragazze non solo riallaccino i rapporti, ma anche decidano di tornare a casa». Se maggiorenni, nessuno le può fermare. «Ognuna decide per sé, noi possiamo solo dare consigli e continuare a seguirle. Le promesse delle famiglie non vengono quasi mai rispettate e il controllo diventa ancora più rigido». Con il rischio che, una volta rientrate, siano portate nel Paese d’origine per riparare al disonore con un matrimonio. «Una volta fuori dall’Italia, non possiamo più fare niente. Il fatto che non sia stata approvata la riforma della cittadinanza è stato un grave danno. Se le nate qui fossero italiane, avremmo più strumenti di intervento. Se non si svincola il permesso di soggiorno dalla famiglia, questo diventa inevitabilmente un ulteriore ricatto».
Il rientro è uno dei momenti più delicati per chi ha seguito da vicino un percorso di “autodeterminazione”, che a Trama ci tengono a definire femminista perché «mette al centro il tuo essere donna». «Vedo nei loro occhi», spiega la presidente Dal Pra, «la fiamma di chi sa che deve lottare per se stessa. Ma è dura. Da poco una delle nostre è tornata a casa e sappiamo che è in pericolo. Ora le dicono: “Se scappi ti ammazziamo”, mentre prima non c’era questa minaccia. Qui si vede il nostro limite». Il ritorno è la parte più difficile da capire. «Sono donne sole. Pagano e pagheranno per tutta la vita l’emarginazione culturale e dalla loro comunità». E anche per questo è sbagliato pensare che fuggano perché affascinate dall’Occidente: «Vogliono solo essere libere di amare. Ma per esserlo, sono costrette a lasciare affetti che non troveranno più. È un dolore straziante. Credo che servirebbero dei gruppi di auto-aiuto delle donne, dove chi è fuggita diventa un sostegno per altre. Il mix di patriarcato e controllo dovuto alla religione è micidiale e non basta quel bisogno primario di libertà a permetterti di resistere».
Il problema per Dal Pra è anche la solitudine di chi tratta queste storie: «Il relativismo culturale porta tanti a giustificare i matrimoni forzati. A dire “è la loro cultura”. Noi abbiamo subito negli anni un forte isolamento politico per le nostre posizioni».
Il matrimonio forzato è un reato in molti Paesi europei: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Germania, Gran Bretagna e Norvegia. Ma il dibattito è molto acceso.
L’associazione inglese Southall Black Sisters, con cui ha collaborato anche Trama di Terre, sostiene che penalizzare il reato sia negativo perché molte non vogliono che le famiglie siano perseguite e sono disincentivate a ribellarsi. Secondo l’avvocatessa Monica Miserocchi, che ha seguito numerosi casi, avere un reato specifico serve invece a fare chiarezza: «Sarebbe un messaggio importante per le comunità, far capire che questa pratica è sbagliata e che da noi non si può fare». Attualmente in Italia, dice, se ne sottovaluta la gravità: «La lentezza dei procedimenti», spiega, «lascia le ragazze in un limbo dolorosissimo. Senza contare che, se la loro sicurezza non è a rischio, non vengono emesse misure cautelari nei confronti dei parenti e quindi i tempi delle decisioni giudiziarie diventano ancora più lunghi». E non avere una sentenza, per vittime combattute tra la fuga e il ritorno, mette a rischio la vita. «Vogliono tutte salvare la madre o la sorella, ma devono prima salvare loro stesse», chiude Miserocchi. «Se tornano non cambierà nulla, ma non possiamo fermarle».
Che cosa fa lo Stato? Il dipartimento per le Pari opportunità ha inserito il contrasto ai matrimoni forzati nelle linee guida 2017-2020 del Piano d’azione contro la violenza sessuale e di genere. Ma poi la legislatura è finita e di evoluzioni concrete ce ne sono state poche. L’urgenza è quella di saper riconoscere i casi in cui l’unione combinata è un maltrattamento e riuscire a strutturare un sistema di protezione non affidato, come ora, solo a soluzioni “creative”.  «Serve un lavoro di rete», spiega Maria Concetta Storaci del Consiglio nazionale assistenti sociali. «Spesso sono vittime invisibili. Se non frequentano la scuola, gli unici a poterle segnalare sono i medici. Gli episodi sono destinati ad aumentare in una Italia in evoluzione e a fronte di nuovi arrivi». Un primo passo sarebbe cominciare a contare i casi: a Palermo è nato a dicembre scorso l’Osservatorio per spose bambine e matrimoni forzati. È qualcosa, ma è solo l’inizio.
Fondamentale resta il dialogo con le comunità etniche, dove la pratica di imporre un marito alle giovanissime è ancora largamente accettata. Iqbal Singh, indiano da oltre dieci anni mediatore culturale a Reggio Emilia, ha seguito molte ragazze che hanno deciso di scappare. «Sono casi che spesso avvengono in contesti di fragilità. I padri sono lavoratori sfruttati che vengono da famiglie in difficoltà, poi colpite dalla crisi economica. Non hanno il tempo di pensare». La questione è generazionale e le cose cominciano a cambiare: «I figli iniziano a mettere in discussione il modello, ma con difficoltà. È come se vivessero in due mondi: vanno a scuola in Italia, tornano a casa e sono in India o in Pakistan. Cercano autonomia, anche economica, ma sono ancora dipendenti dalla loro comunità. Il percorso è lungo».
Sabika Shah Povia, giornalista pakistana nata in Italia e parte del movimento Italiani senza cittadinanza, la chiama “generazione di transizione”: «Siamo divisi tra il desiderio di mantenere il legame con la famiglia e quello di far parte della società italiana, i cui valori spesso sono diametralmente opposti». Tra cui la diversa concezione del matrimonio: «Non dobbiamo vederlo con la lente dell’Occidente. Da noi è considerato un contratto, l’amore va in secondo piano. È la nostra cultura. I genitori ti propongono una persona con cui credono tu possa avere affinità, spesso scelta per comodità all’interno della famiglia, e molte l’accettano. Ci sono pressioni, ma dipende dai contesti. Servirà ancora tempo perché cambi la tradizione».
Intanto Jasmine, nel salotto della sua casa rifugio, dice che dove la porterà il destino va bene.
Basta che sia in un posto dove può essere libera.

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