martedì 15 ottobre 2019

10159 - Riana Rocchetta


Ebe Gasparri, a soli tre anni, sapeva già contare fino dieci.

Andava a piedi alla scuola materna, aggrappata alla mano della mamma e contava i passi. Arrivava fino a dieci, e poi ricominciava daccapo. A sei anni, quando cominciò ad andare alle elementari sapeva contare fino all’infinito, e anche di più, sosteneva lei. Contava i passi per andare a scuola, contava i suoi compagni, dieci maschi e undici femmine, lei compresa, contava le teste bionde della sua classe: due, le teste brune, un nero. Contava sempre. Le persone alla fermata dell’autobus, gli scalini quando saliva e quando scendeva, le merende degli altri bambini. Tutto questo contare avrebbe forse lasciato intravedere un futuro di studi matematici, ma Ebe era molto distratta. E poi non le interessava molto andare oltre al conto di quello che le stava intorno. I bottoni della camicetta della professoressa, le foglie che spuntavano sul ramo che vedeva dalla finestra dell’aula, il numero delle interrogazioni; di italiano, matematica, storia. Dopo le scuole superiori, che non riuscì a finire per via di tutto quel contare, fece domanda come cassiera in un supermercato. Era una ragazza carina e fu assunta subito. Fra articoli, prezzi e scontrini numerati era felice. Un giorno si fermò alla sua cassa un bel ragazzo, che l’aspettò all’uscita del lavoro. Ebe gli chiese età, peso, altezza e decise di fidanzarsi con lui. Si sposarono e, dopo un po’ di tempo, Ebe andò dal dottore.
«Dottore» gli disse, «ho un problema.»
Il medico si dispose a ascoltare.
«Vede» spiegò Ebe, «io conto tutto. Devo contare tutto. Anche i maccheroni che butto per la pasta.»
Il medico si sistemò sulla sedia, si mise gli occhiali e la guardò con più attenzione.
«Continui.»
«Ecco» Ebe fece una pausa imbarazzata, «quando faccio l’amore con mio marito, io conto le spinte.»
Qui si interruppe. Si guardò le mani, contò le dita e prese a giocherellare con la fede nuziale.
«E questo è un problema?» chiese il dottore, ormai molto incuriosito.
«No… ma quando arrivo a un certo punto, per non perdere il filo, io conto a voce alta e questo mio marito non lo sopporta.»
«E ci credo!» scappò di bocca all’anziano dottore. Nella sua lunga carriera fra tante che ne aveva viste e sentite questa non c’era.
«Il mio matrimonio sta andando a rotoli. Cosa posso fare?» Ebe aveva gli occhi lucidi.
Il medico ci pensò un poco su.
Prese un ricettario bianco, scarabocchiò un nome e un numero di telefono, staccò il foglio e glielo porse.
«Signora Gasparri, l’unico consiglio che posso darle è di rivolgersi a uno psichiatra. Tenga, le ho scritto il recapito di un amico. Spero che possa aiutarla. Faccia quattro chiacchiere con lui.»
Ebe ringraziò, uscì dallo studio, contò i passi fino a casa e prese appuntamento con lo psichiatra.
Il giorno fissato si vestì elegante, perché voleva fare una bella impressione al dottore nuovo. Si spazzolò cento volte i capelli e uscì. Contò le fermate dell’autobus, salì a piedi le scale, giusto per contare gli scalini e si presentò alla visita.
Il dottore aveva circa cinquant’anni, Ebe non osò chiedere.
Portava il pizzetto e gli occhiali di tartaruga. Più altre due paia di occhiali sulla scrivania.
Accese il registratore e ascoltò paziente la storia della vita di Ebe.
Lei cercò di farla più corta possibile, in fondo non c’era tanto da dire mentre cedeva alla tentazione di contare tutti i libri che stavano sugli scaffali.
Alla fine lo psichiatra spense il piccolo registratore, la guardò a lungo e le fissò un altro appuntamento per la settimana successiva. Lei pagò senza batter ciglio i cento euro della parcella; senza ricevuta perché era mandata da un amico. E tornò a casa.
Il giorno dopo ricevette una telefonata.
«Signora Gasparri, posso chiamarla Ebe? Ho trascritto il nostro colloquio di ieri. E indovini un po’?» Lo psichiatra sembrava emozionato. «Sono diecimilacentocinquantanove caratteri.»
«Spazi compresi?» fu la prima cosa che le venne in mente.
«Sì» disse lui, «spazi compresi.»
Ebe si sentì rimescolare tutta.
«Dottore…» iniziò, e le parole rimasero sospese.
«Mi chiami Carlo. Sa, diecimilacentocinquantanove è un numero primo e la radice numerica è sette, il mio numero fortunato. Posso avere l’onore di invitarla a cena?».

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