giovedì 31 ottobre 2019

Una difesa degli studi classici - Paolo Di Remigio




Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente: appena consegnato il testo da tradurre, i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole sul vocabolario.  I risultati sono univoci: per la maggior parte le versioni consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Lo studio delle lingue classiche finisce per suggerire agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili. Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Anche nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa. A questa contestazione Hegel replicava innanzitutto dal lato del contenuto. A chi sosteneva che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel rispondeva che l’esercizio non è indifferente alla materia: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità. “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali. Se la didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; l’attuale scuola pubblica non fa meglio sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta.

1.
Osservando[1] una volta il corso di recupero di latino di un mio collega che con meravigliosa finezza filologica estraeva davanti agli alunni morfologia, semantica ed etimologia da ogni parola, mi sono chiesto se gli amorevoli indugi di quel recupero non comportassero la rinuncia ai vantaggi della quantità: è almeno probabile che la traduzione di cinquanta frasi permetta di memorizzare più parole e più regole sintattiche, permetta di acquisire più familiarità con lo spirito della lingua, di quanto possa fare lo scrutinio dei misteri di tre frasi. Il mio collega procedeva secondo il suo apprendistato nel liceo gentiliano che, sicuro del lavoro della scuola media e incurante se non desideroso di future perdite di alunni, si dedicava di preferenza all’approfondimento filologico.
L’eredità dell’impostazione gentiliana e la fine dello studio del latino e della grammatica italiana alle medie hanno generato la convinzione diffusa della difficoltà enorme, addirittura insormontabile della versione. Eppure la traduzione di testi scritti richiede una competenza meno elevata di quella richiesta da una lingua straniera – infatti è già meno agevole capire chi la parla, e parlarla e redigervi testi scritti è ancora più difficile. Non solo, tra il lessico italiano e quello latino (un po’ meno quello greco) si presenta una forte somiglianza. Risulta dunque un’unica vera difficoltà di traduzione, quella per cui le lingue classiche si differenziano dall’inglese e dal francese, ma sono simili al tedesco: l’ordine tipico delle loro frasi non è quello a cui siamo abituati dalla nostra lingua: soggetto – predicato – complementi, ma uno diverso: soggetto – complementi – predicato.
Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente durante la sorveglianza agli esami di Stato. Appena consegnato e letto il testo da tradurre, si apre la fase ventilata dello sfogliare il vocabolario: i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole. Ma iniziare così la versione è il modo migliore per fallirla: le parole hanno più significati e la loro ambiguità si accentua a scuola, che propone non le lingue usate in un unico momento storico, ma sviluppate in una lunghissima diacronia. I risultati rilevati in fase di correzione sono univoci: per la maggior parte le versioni non tanto contengono errori gravi di comprensione, quanto consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Questo fallimento generale non è rilevato dai commissari che, in esecuzione del principio ‘inclusivo’ della scuola attuale, accettano tutto e trasformano la valutazione da atto del riconoscere il valore ad atto del dare un valore. Che alunni con simili abilità di traduzione siano stati ammessi all’esame di Stato dimostra peraltro che l’atteggiamento valorizzante dei commissari è stato già proprio dei docenti nei precedenti anni di liceo.
La conclusione non può che essere questa: attualmente lo studio delle lingue classiche suggerisce agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili, che gli autori classici, pur essendo i creatori del nostro linguaggio e della nostra cultura, ci abbiano lasciato testi adeguatamente traducibili in modo assurdo. In altri termini: lo studio delle lingue classiche, che nella scuola gentiliana era la palestra delle competenze più raffinate, è diventato nella nuova scuola la zona oscura in cui cessa di valere la logica e si regredisce alla libera associazione.
Tutto ciò sembra non costituire un danno evidente perché il liceo classico attrae scarse iscrizioni e soltanto i pochi diplomati che sceglieranno gli studi letterari sentiranno (c’è almeno da sperarlo) la sofferenza per la loro impreparazione. Ma non soffrire non significa essere in salute. Anche nel caso meno grave che la convinzione di poter scrivere impunemente assurdità sia arginata entro l’ambito nel quale ci si è abituati a farlo e non esondi su tutta l’intelligenza, resta tuttavia il danno della mancata acquisizione delle conoscenze e delle competenze che nascono dallo studio delle lettere classiche.
Queste hanno la particolarità di essere studiate su testi che il tempo ha selezionato in modo drastico, spesso crudele; per questa selezione esse sono lingue dotte, lingue non funzionali ai bisogni quotidiani, per i quali spesso sarebbe sufficiente la gestualità e l’espressione linguistica si aggiunge per cortesia, ma dirette all’argomentazione – filosofica, storica, retorica – e alla forma artistica. Esse non sono lingue morte (è morto il tronco da cui si diparte il ramo?), come si sente spesso, ma sono il fondamento della cultura, perché nella maggioranza delle attuali lingue europee le forme sintattiche sono debitrici della sintassi latina e i termini astratti derivano dal greco attraverso la mediazione del latino. Lo studio delle lingue classiche permette dunque di acquisire la padronanza del periodo complesso, di tesaurizzare le parole astratte indispensabili a ogni discorso teorico e di connetterle ai gesti a cui in definitiva risalgono. A questo proposito si pensi, per esempio, alla parola ‘concetto’ la cui etimologia riconduce alla presa riuscita dell’oggetto (da cui anche il tedesco ‘Begriff’). L’etimologia non può sostituire la semantica e la sintattica; assicurando però la connessione del termine astratto al gesto, è uno strumento indispensabile per afferrarne il contenuto, dunque per impedire che le catene argomentative si risolvano in un calcolo, che i termini diventino pure convenzioni esterne e quindi più sorgenti di perplessità che elementi di scienza.
Che la complessità sintattica, il lessico astratto e l’etimologia siano appresi direttamente dalle opere classiche ha un ulteriore significato: confutare la convinzione ingenua che il mondo sia appena venuto fuori dal nulla, che tutto sia possibile e dipenda dalla nostra spontanea creatività, che dunque ci si dia alla creatività prima di avere imparato. Le lingue classiche sono l’ostacolo più importante alla presunzione e al dilettantismo.
2.
Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Altrove e in passato non è stato così. Nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento il periodo complesso non era ancora stato emarginato dal giornalismo, le lingue classiche non costituivano il passato della lingua in uso e quindi non offrivano approfondimenti etimologici, l’ignoranza non era così fitta da comportare il disprezzo del passato. A quel tempo era possibile scorgere altri motivi per lo studio delle lingue classiche. Quelli più decisivi sono indicati in uno dei discorsi ginnasiali di Hegel[2].
In accordo con lo spirito della sua filosofia, a differenza dell’intelletto, che è la capacità di scoprire le costanti generali che regolano l’inquietudine della realtà, ragione è la facoltà superiore che dapprima, come dialettica, scopre le antinomie nel generale, poi, come speculazione, le risolve, così da pervenire a conoscere l’essenza della realtà. In pedagogia la dialettica si mostra come esigenza di estraniarsi da sé del soggetto, come esigenza di cercarsi nel lontano; la speculazione è invece un ritrovarsi nel lontano, quindi il conciliare la sua estraneità e ritornarvi a sé. Il sistema filosofico hegeliano contiene dunque una critica profonda di ogni pedagogia che presupponga uno sviluppo individuale secondo un progresso rettilineo dall’incompetenza alla competenza e si arrovelli per bruciarne le tappe: contrariamente a un pregiudizio molto diffuso, la filosofia hegeliana non è dominata dall’idea di progresso, ma la coniuga con la circolarità; così che lo sviluppo non è indeterminato, ma ha come fine il ritorno all’inizio, e la sua fecondità è condizionata dalla capacità di consegnarsi al lontano.
Ripercorriamo in breve le argomentazioni del discorso di Hegel. Egli osserva che in passato l’apprendimento del latino era a tal punto la parte più essenziale dello studio teorico, che alle altre discipline si riconosceva utilità pratica, non dignità formativa. In seguito la giusta esigenza che un popolo esprima nella propria lingua i tesori della conoscenza scientifica, i metodi meccanici o erronei adottati nello studio del latino e la preoccupazione per il ritardo con cui si acquisivano molte importanti conoscenze e abilità misero in crisi la certezza che il latino fosse il mezzo formativo principale se non unico. Dalla crisi è emerso un sistema scolastico distinto su tre livelli: quello che insegna nozioni e abilità pratiche, quello che offre competenze superiori senza la letteratura antica, quello che ha conservato lo studio delle lingue classiche come base dello studio teorico.
Si contestò tuttavia, e lo si fa ancora oggi, che gli studi classici dovessero conservare questa funzione: sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa.
A questa contestazione Hegel risponde innanzitutto dal lato del contenuto. La letteratura greca, e poi quella latina, rappresentano l’eccellenza da cui occorre partire nell’azione didattica: “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. A chi ribatte che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel risponde che l’esercizio non è indifferente alla materia, che questa è un nutrimento per la mente che vi si esercita: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità.
Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Poiché la forma va perduta nelle traduzioni, occorre imparare le lingue classiche. Lo sforzo richiesto per imparare il latino e il greco appare un indugio nel progresso dell’apprendimento; ma questo indugio è un bisogno essenziale della mente. Perché siano oggetti conosciuti, la natura e la mente devono prima essere oggetti, devono cioè essere estranei alla mente; la cultura teorica non può dunque che iniziare dal non-immediato, dallo straniero, da ciò che esiste soltanto nel ricordo. L’esigenza di separazione è così necessaria da mostrarsi come istinto, come forza di attrazione esercitata dal lontano. Cercare la profondità nella lontananza potrebbe sembrare un inganno, ma è un inganno necessario, perché la forza della mente si misura dall’ampiezza del suo scostamento dal centro in cui era immersa e in cui aspira a ritornare. L’opportunità di portare la mente dei giovani in un mondo lontano e straniero poggia sull’impulso centrifugo che la domina.
Il muro del mondo antico e della sua lingua, che separa da sé stessi, contiene d’altra parte anche i fili del ritorno a sé: la meccanicità nell’apprendimento delle lingue classiche è qualcosa di più di un male necessario per arrivare ai contenuti eccellenti; proprio essa è l’estraneo che la mente assimila per tornare a sé stessa. Alla meccanicità si connette infatti lo studio della grammatica, che non può essere mai abbastanza celebrato perché è l’inizio dell’educazione logica: la grammatica procura il primo incontro con le categorie, cioè con i prodotti propri dell’intelligenza. Per la loro semplicità esse sono quanto di più comprensibile, adatte dunque a essere apprese da menti giovani non ancora capaci di assimilare il molteplice nella sua ricchezza; per loro tramite l’intelligenza inizia a comprendere sé stessa; i nomi con cui la grammatica le indica permettono infatti di distinguerle, e possedere queste differenze è il primo passo per acquisire la capacità di muoversi tra le astrazioni, presupposta dallo studio della logica. La grammatica, contrariamente a un’opinione comune, è dunque il fine, non il mezzo, dell’apprendere.
Mentre infine l’abitudine irriflessa guida la comprensione della lingua madre, la comprensione delle lingue classiche dipende dalla conoscenza e dall’applicazione delle loro regole; il lavoro sulle lingue classiche genera dunque l’abitudine a sussumere il particolare sotto il generale e a particolarizzare il generale; propriamente in questa abitudine a superare il contrasto tra particolare e generale consiste la ragione. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali.
3.
L’inquietudine per la decadenza della cultura liceale in Italia mi induce a espormi al rimprovero di dilettantismo e a divulgare un procedimento il cui uso mi facilita notevolmente la traduzione dei testi. Esso presuppone la padronanza della logica della frase e del periodo: occorre saper distinguere la principale dalle secondarie, il predicato e il soggetto; presuppone quindi la conoscenza delle congiunzioni, dei pronomi relativi e dei participi. La successione dei passi, da osservare rigidamente, è la seguente:
·         Prima di leggere, segnare con una doppia sbarra “||” il più vicino segno forte di punteggiatura (il punto, il punto e virgola, il due punti e i segni corrispondenti nel greco), in modo da concentrare l’attenzione al periodo da tradurre.
·         Leggere e rileggere fino alla doppia sbarra in modo da eliminare errori.
·         Individuare gli incisi e metterli tra parentesi “(…)” per posticiparne la traduzione.
·         Per lo stesso motivo, cercando le congiunzioni subordinanti, i pronomi relativi e i participi, individuare le secondarie e metterle tra parentesi.
·         Individuare la principale.
·         Individuarne il predicato (in latino è particolarmente facile perché le sue terze persone, a differenza di quasi tutte le altre parole, finiscono con la lettera ‘t’) e sottolinearlo “___”(elegantemente, se possibile); isolare la principale con una sbarra “|” da eventuali coordinate; osservando la persona e il numero del predicato, individuare il soggetto e segnarlo con un cerchio (elegantemente, se possibile); se il verbo è transitivo, individuare il complemento oggetto.
·         Solo a questo punto precisare, con l’aiuto del vocabolario se occorre, il significato delle parole della principale e tradurla. Memorizzare la traduzione prima di procedere.
·         Tradurre gli incisi.
·         Tradurre le coordinate usando lo stesso metodo.
·         Individuare i predicati delle secondarie e mediante persona e numero risalire ai loro soggetti che devono essere segnati (elegantemente, se possibile) con una “x” sopra la prima sillaba.
·         Controllare la nitidezza della traduzione e applicare lo stesso metodo ai periodi successivi.
Come si vede, questo procedimento, oltre al vantaggio di affrontare innanzitutto la difficoltà più grave, quella del diverso ordine delle parole nelle frasi, e di individuare gli elementi centrali del periodo, consente il ricorso al vocabolario soltanto dopo che l’emersione del contesto aiuta a selezionare il giusto significato dei singoli termini.
L’altezza degli obiettivi della didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; tuttavia l’attuale scuola pubblica, assoggettata all’imperativo irrazionale della “vera inclusività”, rinuncia a insegnare, né fa meglio di quella gentiliana sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta e lo rallenta rispetto a chi frequenta la scuola a pagamento. Nel suo contesto la preoccupazione di rimodulare il primo approccio alle lingue classiche può soltanto far sorridere. Questo tentativo valga almeno come augurio di tempi migliori.
[1] Ringrazio il prof. Fausto Di Biase per i preziosi consigli durante la stesura di queste riflessioni.
[2] Una nostra traduzione del discorso menzionato è disponibile al seguente indirizzo: http://www.badiale-tringali.it/2016/08/un-discorso-di-hegel.html


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