giovedì 31 ottobre 2019

Se le ong potessero riformare il Trattato di Dublino lo riformerebbero così

Intervista di Angelo Ferrari a Paola Crestani, presidente di LINK 2007, network che raggruppo tredici tra le più importanti organizzazioni non governative impegnate nella cooperazione allo sviluppo. “Continuare a parlare di emergenza è un errore o è una bugia.


Migranti: emergenza o fenomeno gestibile? Quali politiche l’Unione Europea può mettere in campo per governare questo fenomeno che sta catalizzando la politica di tutti gli Stati europei? La revisione del trattato di Dublino è oggi più che mai necessaria per affrontare le migrazioni in maniera organica e solidale tra Stati. La cooperazione allo sviluppo internazionale come può contribuire ad affrontare il problema e quali politiche attive per l’Africa si possono adottare per affermare il diritto a non emigrare. Un “Piano Marshall” per l’Africa può diventare concretezza o rimanere una mera enunciazione?
Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato con Paola Crestani, presidente di LINK 2007, che a marzo 2019, ha ereditato la responsabilità e l’impegno di Paolo Dieci nel coordinamento della rete di Ong LINK 2007, dopo l’incidente aereo in Etiopia in cui ha perso la vita. Link 2007 è nata dodici anni fa e raggruppa parte (13) delle più importanti e propositive Ong italiane di cooperazione internazionale e aiuto umanitario. Uno dei temi approfonditi dalla rete è il nesso tra migrazioni e sviluppo.

Migranti e accoglienza: emergenza o sopravvalutazione del fenomeno?
Le Ong della rete LINK 2007 l’hanno più volte ribadito: continuare a parlare di emergenza, come se fossimo fermi agli anni 2014-2017, è un errore o è una strumentale bugia finalizzata ad alimentare tensioni a fini politici. Come è possibile parlare di emergenza se, per fare un esempio del Nord, nella provincia di Venezia i migranti ospitati sono 820, su 860.000 abitanti, l’uno per mille? Dov’è l’emergenza se il numero complessivo dei migranti sbarcati in Italia dal primo gennaio al 19 settembre 2019 è di 6.570? Sono dati non delle Ong ma del ministero dell’Interno. Essi attestano una diminuzione del -93,62% rispetto ai 102.954 sbarchi del 2017 e del -68,50% rispetto ai 20.859 del 2018.
Le percezioni diffuse nella popolazione sono purtroppo diverse, spesso alimentate ad arte, con parole come “invasione” che creano preoccupazioni e paure, ma la realtà è questa: non esiste più alcuna emergenza. La presenza straniera complessiva è pari all’8,7% della popolazione ed è inferiore a quella tedesca (11,7%), austriaca (15,7%), del Regno Unito (9,5%) e di poco superiore a quella francese (7%). Siamo un paese normale dal punto di vista dell’immigrazione. Ma sembra che non si voglia prenderne atto.
Quali politiche occorre mettere in campo perché le popolazioni non subiscano un fenomeno che suscita preoccupazione e, spesso, paura?
L’Italia è uno dei paesi Ocse con la più alta distanza tra percezione e realtà. Per la maggioranza degli italiani, dal 2000 a oggi gli omicidi sono aumentati, quando in realtà hanno visto un calo vertiginoso e sono diminuiti del 47%. Gli immigrati extraeuropei rappresentano nel nostro paese il 7% della popolazione totale, ma per l’opinione pubblica sono il 25%, ovvero uno su quattro, stando ai ripetuti sondaggi d’opinione. Il 47% degli italiani crede che ci siano più irregolari che immigrati regolari, mentre i primi rappresentano non più del 10%. Ovviamente c’è un difetto di comunicazione, a cui anche i media dovrebbero rimediare, e talvolta una vera mancanza di conoscenza nelle stesse autorità politiche.
Però, anche se i dati delle percezioni sono sbagliati, le paure generate sono vere. Si deve quindi mettere in atto, con l’impegno di tutti, quanto necessario per riuscire a dissolverle e dare ai cittadini il segnale che davvero le cose stanno cambiando e che si intende governare l’immigrazione in modo ordinato, regolare e sicuro. Sono, queste, le tre parole chiave del Patto globale sulle migrazioni, a cui il governo italiano dovrebbe ormai aderire, insieme agli altri 164 paesi che già l’hanno sottoscritto. Diverso è il discorso che riguarda contesti già di per sé socialmente difficili e con scarsa possibilità di integrazione degli immigrati. In tali contesti, i cui problemi sono spesso delegati al volontariato, non si vivono percezioni ma difficoltà e contrapposizioni reali. Essi dovrebbero essere maggiormente e particolarmente sostenuti dalle pubbliche amministrazioni. Quando la forbice dell’inclusione si allarga troppo, emarginando, discriminando, negando diritti basilari ad ampie fasce di popolazione, le società entrano in crisi. La necessità di politiche e azioni finalizzate all’inclusione vale per gli immigrati ma, più in generale, per tutti i cittadini in posizione di fragilità e marginalizzazione”.

L’approccio al fenomeno deve superare i confini degli Stati ed essere affrontato a livello europeo?
Dobbiamo avere chiaro il punto da cui partire: la migrazione e la mobilità internazionale sono realtà che esistono da sempre e che non possono essere fermate. Possono però e devono essere governate, regolate, uscendo dalla visione emergenziale che non permette passi avanti. Se viene impedita la possibilità di entrate in un paese in modo regolare – ed in Italia è così da anni – si favoriscono gli ingressi irregolari e i trafficanti criminali che li favoriscono e che trovano sempre vie nuove per superare controlli e divieti. E ciò che vogliamo? No, senza alcun dubbio: potrebbe quindi essere questo un comune punto di partenza.
Stabilire regole precise di ingresso nel rispetto dei diritti umani e della dignità della persona è la via maestra per combattere l’irregolarità e per permettere un’adeguata accoglienza e integrazione. A partire da chi ha bisogno di aiuto e protezione ma soprattutto per definire precisi e appropriati criteri di legalità per chi intenda venire in Italia per lavoro o per studio, anche sperimentando strumenti innovativi per la migrazione circolare e quella ciclica legata alla stagionalità”.
L’apertura alla possibilità di ingressi regolari può anche legittimare opzioni politiche di fermezza contro un’immigrazione incontrollata. Si tratta della migliore arma contro l’illegalità e i traffici clandestini della criminalità organizzata. Ma lei ha ragione ad evidenziare che questa realtà va affrontata a livello europeo, data la sua ampiezza e complessità che rende velleitario ogni tentativo di gestione solo nazionale. La libera circolazione all’interno dell’Ue è uno dei pilastri dell’architettura politica e del processo di integrazione e va salvaguardata, senza barriere tra Stato e Stato. Ma questo richiede strumenti che impediscano ingressi incontrollati. E’ quindi indispensabile affrontare la realtà dell’immigrazione a livello europeo, con regole comuni, solidarietà nell’accoglienza e accordi complessivi con i paesi di maggiore emigrazione”.

La riforma del trattato di Dublino, in tal senso, è un passo decisivo perché le politiche della Ue siano efficaci?
Ad avviso di Link 2007 tre priorità vanno tenute presenti. Recuperare anni di ritardi, sottovalutazioni e cattiva gestione della presenza di immigrati e rifugiati, che l’Ue e gli Stati membri hanno a lungo sottovalutato. Adottare politiche comuni a livello europeo, almeno tra gli Stati che ci stanno, nella condivisione dell’accoglienza e nel superamento di normative e vincoli ormai sorpassati dalla realtà. Modificare il regolamento di Dublino.
Tale regolamento si riferisce ai rifugiati e prevede che il primo paese di arrivo debba provvedere alla valutazione delle richieste di asilo e all’accoglienza. È una regola che aveva senso per i rifugiati dall’Est europeo negli anni ‘90 per evitare duplicazioni di domande; ma nella realtà attuale deve essere modificata, perché il peso ricade da tempo solo sui paesi in prima linea, come l’Italia”.
Il Parlamento Europeo, dopo un anno e mezzo di approfondito lavoro, ha approvato nel novembre 2017 con la maggioranza dei due terzi una proposta di revisione che risponde molto alle esigenze italiane. Essa prevede che tutti gli Stati membri debbano accettare di condividere equamente la responsabilità dei richiedenti asilo. Viene eliminata la disposizione del primo paese di arrivo e i rifugiati devono accettare di restare nello Stato che sarà individuato, che diventa quindi competente ad esaminare la domanda, assicurando la permanenza del richiedente sul proprio territorio; in caso di inadempienza sono previste penalizzazioni con limitazioni nell’accesso ai fondi europei. Questa proposta aspetta solo che il Consiglio europeo la ponga all’ordine del giorno senza tentennamenti”.

La cooperazione internazionale come dovrebbe affrontare questo tema? E quali sinergie tra agenzie nazionali a livello europeo possono essere efficaci per armonizzare l’intervento?
In un documento del 17 gennaio 2017, le Ong di LINK 2007 suggerivano di ripensare e ampliare la cooperazione internazionale per lo sviluppo, enfatizzando priorità quali la creazione di posti di lavoro stabili e dignitosi, il miglioramento delle condizioni di vita, il soddisfacimento delle aspettative formative dei giovani, lo sviluppo e il rafforzamento di istituzioni democratiche virtuose e capaci di lottare contro la corruzione e di favorire le fasce più vulnerabili, in una visione e programmazione di lungo periodo. Chiarendo però che i programmi di cooperazione allo sviluppo potranno affiancare gli accordi e i partenariati migratori, al fine di favorire ogni possibile sinergia, ma non dovranno mai essere confusi con essi: le due finalità possono infatti essere complementari ma non sostitutive l’una dell’altra…
L’Italia, l’Ue e gli Stati membri dovrebbero poi, nonostante le difficoltà, tendere mediamente al raddoppio delle risorse destinate allo sviluppo e agire in modo coordinato con i paesi partner per rendere efficaci e duraturi gli interventi di cooperazione e i piani di investimento, come quello messo in atto dalla Commissione europea, da elaborarsi con i paesi partner in un percorso di accompagnamento tecnico, di sostegno alle istituzioni per creare contesti favorevoli all’investimento, lottare contro la corruzione, attuare politiche fiscali e industriali adeguate, prestare grande attenzione ai contesti sociali e alla salvaguardia dell’ambiente, al fine della sostenibilità ed efficacia degli interventi. Le parole e gli inviti a controllare i flussi migratori non possono bastare: creare sviluppo costa, così come assicurare maggiore equità, benessere e istruzione, garantire sicurezza, prevenire. Gli attuali livelli degli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo sono ben lontani dall’essere adeguati di fronte a così ampi obiettivi, anche perché questi impegni finanziari, se usati bene, rappresentano un investimento per il futuro: dei paesi partner e nostro”.

Vi è un diritto, spesso non considerato, che è quello di “non essere obbligato a emigrare”. Tradotto potrebbe essere elaborato un piano Marshall per l’Africa. Quali potrebbero essere i capisaldi di un piano così fatto?
In una lettera inviata al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel 2018, LINK 2007 evidenziava proprio questo punto. Ad ognuno dovrebbe essere garantita la libertà di non dovere emigrare, trovando le condizioni per potere prendere in mano la propria vita, valorizzando il vivere nella propria terra per edificare il proprio futuro … Si tratta di una sfida complessa che, per essere vinta, richiede forti partenariati internazionali per lo sviluppo. La cooperazione, nelle sue molteplici articolazioni nazionali e internazionali, può avere un ruolo primario a sostegno di questo processo. Ma va intesa correttamente, coordinando le varie iniziative e i vari soggetti e strumenti in una comune strategia di intervento e nella coerenza delle politiche. Aiutarli ad essere liberi a casa loro, da slogan deve diventare strumento di cambiamento, con una svolta nell’approccio politico e nei partenariati internazionali. Tenendo in particolare considerazione l’Africa, che in trent’anni raddoppierà la popolazione arrivando a 2,4 miliardi di persone e si troverà con un’ampia maggioranza giovane, in gran parte istruita, pronta al lavoro, di fronte al continente europeo in calo demografico e invecchiato”.
Non serve puntare su un “piano Marshall”, anche perché a nostro avviso rimarrà una mera enunciazione. La via intrapresa dall’Italia e dall’Ue degli accordi di partenariato per lo sviluppo dovrà essere rafforzata e perfezionata in una prospettiva di lungo termine e di cammino comune, non a senso unico ma a reale vantaggio reciproco, un co-sviluppo, con positive ricadute sulla popolazione e lo sviluppo delle comunità.
In tema di migrazione, gli accordi di partenariato non devono mai contemplare forme di pressione o intimazione, esercizio di poca utilità e comunque di breve periodo, che annullerebbero sul nascere la pari dignità che dei partenariati è elemento fondamentale. Solo rapporti di rispetto e reciprocità collaborativa permettono di stabilire cooperazioni proficue e durature, a mutuo interesse. Permettono anche di pattuire con i paesi partner quote di ingressi che al contempo rispettino le loro programmazioni e siano compatibili con le nostre possibilità ed esigenze; e anche di concordare condizioni e vincoli ragionevoli di selezione”.
Co-sviluppo può derivare anche dalla valorizzazione delle diaspore, delle comunità organizzate di immigrati inseriti e riconosciuti nelle nostre realtà regionali e territoriali dove sono integrati, mantenendo legami stretti con le comunità di origine. Queste realtà diasporiche mostrano spesso una spiccata iniziativa imprenditoriale investendo nelle due realtà, sia qui in Italia che nei propri territori di origine. Il loro transnazionalismo e translocalismo li fa sentire pienamente qui e lì, rappresentando così un potenziale fattore di collaborazioni e co-sviluppo a livello territoriale. Questa presenza transnazionale potrebbe infatti favorire e facilitare accordi quadro di partenariato tra le due amministrazioni territoriali, da cui potrebbero derivare specifici accordi di cooperazione coinvolgenti le realtà economiche, culturali, imprenditoriali, sociali dei due territori, a reciproco vantaggio e interesse e a maggiore integrazione delle comunità immigrate.

Un piano che, tuttavia, potrebbe scontrarsi con l’organizzazione di diversi Stati africani che, in molti casi, sono cleptocrazie, dittature, dove i diritti elementari della persona sono totalmente disattesi e dove la corruzione è endemica. L’Europa cosa può fare, in questo contesto affinché le sue politiche raggiungano davvero le popolazioni?
È un tema difficile da affrontare in poche righe. L’Europa può fare poco, purtroppo, dato che i condizionamenti, come le sanzioni, raramente hanno indebolito i dittatori ma hanno peggiorato le condizioni, già precarie, della maggioranza della popolazione ed in particolare dei più vulnerabili. E poi, siamo così limpidi nei paesi europei e non siamo forse co-responsabili della dilagante corruzione in molti paesi partner nel mondo? Gli stessi Stati africani e l’Unione africana hanno ben presente la situazione e stanno cercando, nella costruzione e nel rafforzamento dell’Unità africana, di provvedervi. Questa è la migliore e giusta strada: che dovrà essere severa all’interno e verso l’esterno, anche verso i paesi promotori di partenariati.



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