venerdì 25 ottobre 2019

Eh, no, caro Siti: difendere la letteratura non è più importante che difendere i migranti - Riccardo Chiaberge




Credevo di sapere quasi tutto, vita, morte e miracoli di Karl Popper, un titano del pensiero del 900 che ho avuto la fortuna di conoscere e intervistare più volte. Mi sbagliavo. Non sapevo, per esempio, che fosse così puritano da non baciare mai sua moglie sulla bocca – e se non lo faceva con la moglie amatissima, è improbabile che lo abbia fatto con altre donne. A rivelarmi questi e altri dettagli sul conto del grande filosofo è Mario Vargas Llosa nel suo libro Il richiamo della tribù, da poco uscito per Einaudi. Una volta tanto, il detto “un saggio che si legge come un romanzo” non è un vuoto luogo comune, forse perché in questo caso l’autore del saggio è un romanziere. Decisamente, ci voleva un premio Nobel della letteratura, un genio della narrativa erotica, per farci scoprire che Sir Karl tutto era, tranne che l’equivalente austriaco di don Rigoberto. Ma lasciamo stare i gossip. Un’altra cosa, ben più seria, che ignoravo, o non ricordavo di avere letto, è l’invettiva di Popper contro gli intellettuali, citata da Vargas:
«Perché penso che noi, gli intellettuali, possiamo renderci utili? Semplicemente perché noi, gli intellettuali, da secoli abbiamo provocato i danni più orribili. L’assassinio di massa in nome di un’idea, di una dottrina, di una teoria, di una religione – questa è opera nostra, nostra invenzione: l’invenzione degli intellettuali. Se noi smettessimo di aizzare gli uomini gli uni contro gli altri, sarebbe già tanto di guadagnato».

Ad “”aizzare gli uomini gli uni contro gli altri” sono gli agitatori populisti o sovranisti, gli hater sui social e gli urlatori da talk show, non certo i professori universitari
Popper ce l’aveva con gli intellettuali di regime, gli intellettuali organici al servizio del comitato centrale o del dittatore. I “chierici traditori” di Benda, che invece di impegnarsi in difesa dell’umanità propugnano la lotta di classe o firmano il manifesto della razza, predicano l’odio contro la borghesia o contro gli ebrei. Oggi, chiuso il secolo dei totalitarismi, questa specie di intellettuali si può ritenere felicemente estinta. Ad “aizzare gli uomini gli uni contro gli altri” sono gli agitatori populisti o sovranisti, gli hater sui social e gli urlatori da talk show, non certo i professori universitari. A parte poche eccezioni, tipo i Fusaro o i Gervasoni, che si prestano a nobilitare la canea con le loro omelie contro il turbocapitalismo e la sostituzione etnica. E a meno di non includere tra gli intellettuali i Mario Giordano e le Maglie. Al netto delle residue faziosità e di qualche nostalgico della vecchia sinistra, gli intellettuali, almeno in Italia, non aizzano più, semmai tentano con voce sempre più flebile di sovrastare i latrati degli aizzatori, beccandosi in cambio il marchio infamante di élite della Ztl. Si schierano, come auspicavano Popper e Benda, dalla parte dell’umanità e non di un’ideologia o del popolo inteso come tribù chiusa e identitaria.

Ci sono poi anche gli intellettuali non schierati, scrittori che contrappongono la letteratura all’impegno civile. Il massimo esponente della categoria è Walter Siti, che mi è capitato di rivedere martedì scorso su La 7, maglione patchwork e sorrisino annoiato da cinico chic, mentre ironizzava sulla tendenza di tanti di noi a considerare i sovranisti “il babau” e a dipingere gli immigrati sempre e solo come vittime, «quando poi, arrivati qui, si fanno la foto davanti a un’auto di lusso e la mandano a casa, per far vedere ai parenti che successo hanno avuto». Qualche settimana fa, lo scrittore premio Strega aveva fatto le bucce a Roberto Saviano in un lungo articolo con il seguente, notevole incipit: «Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti». Eh no, Walter. Con tutto il rispetto, quando la casa brucia, forse anche il letterato potrebbe dare una mano a spegnere l’incendio, invece di continuare a temperare le matite come se niente fosse. Perché il rischio, alla lunga, è un “tradimento dei chierici” non poi così lontano da quello denunciato da Julien Benda negli anni Trenta: al posto dell’intellettuale che si mette al servizio dei carnefici, l’intellettuale che li lascia fare.


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