sabato 13 agosto 2022

Perché parliamo ancora di fascismo - Francesco Filippi

 


Nonostante gli sforzi per storicizzarlo, consegnandolo al passato, questo termine non vuole restare nel novecento. Un secolo dopo la violenza squadrista, sono troppi quelli che in Italia rivendicano l’eredità del regime o ne usano il linguaggio per prendere voti

 

Tutte le parole hanno una storia. Le parole che parlano di passato ne hanno addirittura due: quella che provano a raccontare e quella che gli cuce addosso chi le pronuncia, generazione dopo generazione.

Fascismo è un termine che viene da lontano, attraversa molti sentieri del ricordo in Italia e con la sua evoluzione accompagna il rapporto che il paese ha con la sua memoria. Come una gomma da masticare appiccicata sotto la suola delle scarpe, nell’ultimo secolo ha raccolto e inglobato molti significati. È stata di volta in volta sinonimo di violenza, rivoluzione, ordine, potere, degrado, dittatura, guerra, morte. E anche di nostalgia. Si è ritrovata saldata a prefissi che sono serviti ad attenuarne o appesantirne il significato: ecco che quindi si è parlato e si parla di vetero-, post-, para, a-, neofascismo. E ovviamente di antifascismo.

Con il passare del tempo si è assistito a uno sforzo per contestualizzarla, visto che si trascina dietro troppi accenti, troppe immagini e troppi fraintendimenti per essere richiusa in un unico recinto di senso. C’è chi sostiene che vada utilizzata per definire solo un determinato fenomeno storico che ruota attorno alla parabola politica e umana del suo fondatore, Benito Mussolini, e che pertanto tutto ciò che è successo dopo il 1945, anche se magari somiglia molto al fascismo storico, non si possa definire in questi termini.

E c’è chi al contrario prende atto della sua forza propulsiva, in grado di sopravvivere a Mussolini e alla dittatura, e di riempire di significati luoghi e ragioni della politica, della cultura e della società. Insomma, una parola atemporale o, se si preferisce, eterna.

In ogni caso, al di là delle discussioni sul suo utilizzo, c’è un fatto che è il più eccezionale per chi si imbatte nello studio del fascismo. Nonostante gli sforzi di studiose e studiosi di storicizzarlo, ossia di come consegnarlo al passato, questo termine nel passato non ci vuole proprio stare.

Una lettura edulcorata

Sono infatti sempre di più, e sempre meno pavidi o mimetizzati, quelli che in Italia si definiscono fascisti e che non chiedono il permesso di poter essere chiamati così da qualcun altro, appropriandosi della parola, dandole gambe e voce, rendendola viva e attuale. E, ancora una volta, a nulla valgono gli interventi di diversi esperti per ribadire che definire quello di oggi come fascismo potrebbe essere formalmente scorretto e poco preciso.

Come nella falsa leggenda sul calabrone, che secondo le leggi della fisica non dovrebbe volare ma che non conoscendole vola, l’Italia si trova di fronte a persone che per la storiografia ufficiale non potrebbero essere chiamati fascisti ma, siccome la storia non la conoscono, si definiscono lo stesso così.

E non solo lo rivendicano – senza tenere conto delle norme che fanno del fascismo un crimine e non un’opinione, a partire dalla XII disposizione transitoria e finale della costituzione – ma addirittura riprendono comportamenti, frasi, riti e azioni di quello che con una punta di speranza si vorrebbe tanto definire “fascismo storico”.

Il cognome Mussolini è diventato un brand da esibire nelle contese politiche

Il 9 ottobre 2021, a margine di una manifestazione contro le politiche del governo sulla pandemia, un gruppo di fascisti (perché tali si sono in più occasioni definiti) hanno preso d’assalto la sede del più importante sindacato italiano, la Cgil, in una sorta di revival degli assalti alle camere del lavoro che giusto un secolo fa erano la prerogativa del movimento di Benito Mussolini, prima della presa del potere.

Questo è solo un esempio di una riproposizione di temi e tecniche che si rifanno a un passato che evidentemente non passa. Mentre alcune date del calendario civile italiano come il 25 aprile (giorno della liberazione dal nazifascismo) e il 2 giugno (festa della repubblica) finiscono spesso al centro del dibattito pubblico perché qualcuno le considera “divisive” – la prima perché ricorda la sconfitta della dittatura e la seconda perché celebra la vittoria della democrazia – c’è chi commemora pubblicamente il 28 ottobre, giorno della marcia su Roma, cioè l’inizio della fine dello stato liberale e delle libertà.

Fine incitata, voluta e pianificata dal fascismo. E non generano neanche scandalo. Ancora, mentre da una parte in molti si stupiscono per la scarsa attenzione con cui si discute della storia del paese, il cognome Mussolini è diventato un brand da esibire nelle contese politiche: sono ormai diversi i discendenti del duce che si presentano alle elezioni sbandierando un nome che secondo loro dovrebbe essere una garanzia. Poi non tutti riescono a intercettare voti a sufficienza.

Ma comunque il fatto che in Germania alcuni discendenti di Hitler abbiano scelto di cambiare il proprio cognome per evitare di essere associati al führer mentre in Italia avere quello del duce fa curriculum, dovrebbe far riflettere sulla pervasività di un’immagine e di un immaginario che evidentemente sono riusciti a scavalcare senza problemi i rigori del tempo.

Termometro democratico

Più si ricorre a paragoni impropri con il passato totalitario dell’Italia e più si cerca, più o meno implicitamente, di criticare il sistema democratico di oggi. Da questo punto di vista la parola fascismo, la sua diffusione e i suoi significati contrastanti e contrastati, sono una specie di termometro che aiuta a misurare la crisi democratica del paese: se la parola fascismo sta bene, vuol dire che la parola democrazia sta malissimo.

Il presunto passato positivo dell’Italia sotto il fascismo è messo a confronto con il presente in modo spericolato. La lotta è impari perché, se le storture dell’odierno sistema democratico sono sotto gli occhi di tutti, i presunti e per lo più falsi meriti del fascismo sono avvolti dalla nebbia del tempo, tra un “mio nonno mi diceva sempre” e “una volta ho letto che…”. Da questa lotta sta uscendo una vecchia e allo stesso tempo nuova – qualcuno ancora una volta direbbe atemporale o eterna – visione di un passato mitico sempre più desiderabile, con effetti stupefacenti.

Il fascismo, pur avendo una cattiva storia, gode di una buona memoria

Assodato che la parola fascismo è ancora molto forte e presente, bisognerebbe interrogarsi sul cuore della questione, vale a dire: che vuol dire, oggi, fascismo? Cosa si intende quando si utilizza questo termine, e che effetto fa in chi lo ascolta? Alcune risposte si trovano in una serie di esempi concreti.

Fascismo oggi non è una brutta parola. O, meglio, non è una parola così brutta come la storia di vent’anni di dittatura e violenza potrebbero suggerire. A differenza degli omologhi regimi totalitari nati nella prima metà del ventesimo secolo in Europa, il fascismo italiano gode di una lettura edulcorata e spesso assolutoria. Pur essendo il primo in ordine di tempo tra i grandi sistemi totalitari di destra prodotti dal continente ed esempio per molti che lo seguirono, il regime di Mussolini non è mai stato visto, nell’immaginario italiano ed europeo, come “cattivo tra i cattivi”.

Complice un’opinione pubblica poco responsabilizzata sulla propria storia e un’attenzione internazionale concentrata sul ricordo e l’analisi degli orrori del nazismo hitleriano, la dittatura italiana è spesso scivolata in secondo piano nella rappresentazione dei regimi novecenteschi. Nella primissima stesura, poi emendata, del controverso documento votato dal parlamento europeo nel settembre 2019 per condannare i totalitarismi che hanno oppresso il continente, la parola fascismo non è neanche citata.

Verrà poi introdotta in un paio di passaggi nel testo finale, quasi terzo incomodo minore rispetto ai due grandi protagonisti della mozione, il nazismo tedesco e il comunismo staliniano. Questo significa che, nel momento di stigmatizzare pubblicamente gli orrori del novecento europeo, agli estensori della proposta di condanna la parola fascismo non è neppure venuta in mente.

Il fascismo, insomma, pur avendo una cattiva storia, gode tutto sommato di una buona memoria. Talmente buona che in Italia chi lo invoca apertamente non solo non va in galera, ma rischia pure di fare carriera politica. Al di là delle sparate a uso e consumo dei mezzi di informazione sull’opportunità di un ritorno al fascismo, una classe politica sempre più in cerca di sensazionalismo continua a utilizzare con disinvoltura temi legati alla dittatura per portare avanti un’operazione particolarmente rischiosa: il confronto semantico con il presente democratico. Analizzando il termine fascismo, i suoi usi e la sua diffusione, si può verificare lo stato di salute della parola che ne è il contrario, e cioè democrazia.

La parola fascismo, con i suoi molteplici problematici significati, non se n’è mai andata

Alla fine del primo lockdown in Italia, nella primavera 2020, un sondaggio ha evidenziato che più di cinque italiani su dieci ritenevano che bisognasse affidare la soluzione dei problemi del paese a un “uomo forte”. Una figura in grado di dominare la scena e fare, in solitudine, il bene di tutti.

Invece di gustarsi le gioie della libertà ritrovata dopo il più lungo periodo di restrizioni dalla fine della seconda guerra mondiale, una fetta consistente degli intervistati si è insomma detta aperta alla possibilità che l’attuale sistema di garanzie democratiche sia sostituito da un uomo solo al comando.

Un dittatore, sì, ma buono. Una contraddizione in termini che ha permesso per esempio all’estrema destra, nella confusione generale, di prendere il controllo di alcune manifestazioni contro le politiche sanitarie del governo al grido di “No alla dittatura!”.

Fascisti contro la dittatura: un bel salto semantico, non c’è che dire. In realtà si tratta di un copione già visto. Nel 1919 il movimento guidato da Mussolini parlava di lotta e rivoluzione. Salvo poi, una volta al potere, incarnare il partito dell’ordine.

Si direbbe un eterno ritorno dei temi che la parola fascismo porta con sé, non fosse per il fatto, abbastanza triste, che non si tratta di un ritorno. La parola fascismo, con i suoi molteplici, contraddittori, sempre problematici significati, non se n’è mai andata.

Da un secolo fa parte, nel bene ma soprattutto nel male, della dialettica sociale in Italia: a volte mascherata, a volte esposta, a volte in sordina, a volte sul proscenio, ma sempre presente. Come un cartello che ci invita alla prudenza nel trattare il passato o come una spia che segnala anomalie e malfunzionamenti del presente. Oggi pericolosamente accesa.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento