martedì 22 agosto 2023

Disertori della crescita - Paolo Bosca

  

Abbandonare il modello dominante per tornare a immaginare delle alternative: l’invito alla “biforcazione” dei laureandi dell’AgroParisTech.



Al termine del loro percorso di studi presso AgroParisTech, una delle più prestigiose istituzioni di formazione agrotecnica d’Europa, i laureandi 2022 hanno tenuto il loro discorso di fronte alla platea radunata per il graduation day. Si è trattato di un discorso a più voci, in cui gli studenti hanno preso una posizione comune che ha assunto la forma di un appello: biforquer, biforcare. Biforcare significa per loro prendere un’altra strada rispetto a quella per cui sono stati formati, “rifiutare la scelta che gli si offre”, per dirla con il linguaggio degli undercommonsnegare l’esistenza di un solo modello di agricoltura per contribuire attivamente alla costruzione di un modello agricolo in cui la vita va di pari passo con il lavoro, l’attivismo, l’ecologia. 

Nella prima parte del loro intervento gli studenti criticano l’intero sistema di potere dominante, che si estende ben oltre il campo dell’agroindustria. Fanno riferimento alle promesse della green economy, del mercato e della crescita, accusandole di produrre un modello di vita basato sul lavoro alienato, precario e ricattatorio. Biforcare, affermano, è smettere di prestare le proprie energie a questo sistema, superandone i valori e i giudizi. È un appello radicale, specialmente perché proviene dalle punte di diamante di un’istituzione che, come recita il sito, mira a formare i “talenti di un pianeta sostenibile”. 

Malgrado gli sia stato dedicato solo qualche trafiletto sui giornali europei, il video ha raggiunto quasi un milione di visualizzazioni. Alla fine uno dopo l’altro gli studenti si alternano al microfono per dichiarare dove li ha condotti per ora la biforcazione: c’è chi ha cominciato a fare l’agricoltore in un paese, chi sta imparando a produrre miele, chi lavora per i diritti della terra contro l’accaparramento edilizio, chi fa il panettiere. Mestieri umili che “deludono le aspettative”, ma sono il risultato di una scelta consapevole che può aiutare a rileggere almeno tre questioni fondamentali del presente. 

Prima, la Great Resignation, cioè l’abbandono da parte di fette sempre più grandi della popolazione di posti di lavoro salariato senza apparente motivo, senza avanzamenti di carriera o successive certezze; in secondo luogo il fenomeno del neo-ruralismo, cioè il ritorno di sempre più persone spesso giovani a una vita rurale, fatta di lavoro agricolo svolto in aree non urbane; infine, la crisi della partecipazione politica, con percentuali sempre minori di votanti e un disinteresse diffuso verso l’attività democratica. 

Biforcare significa prendere un’altra strada rispetto a quella per cui sono stati formati, negare l’esistenza di un solo modello di agricoltura.

Tutti e tre questi fenomeni sottintendono una domanda fondamentale riguardo alla fiducia in quelle che sono state le parole d’ordine della modernità. Il progresso, la scienza e la tecnica come soluzioni universali, l’agroindustria stessa, ma anche la cultura dominante, il sistema di produzione di merci e immagini, il denaro come fonte di sostentamento, la risoluzione proposta attualmente alle emergenze naturali. “L’innovazione tecnologica e le startup non salveranno nulla se non il capitalismo”, afferma uno dei laureati dell’APT. 

Si tratta di una sfiducia così profonda nei confronti del modello attuale  da investire “tutto l’essere”, ogni aspetto della realtà, afferma Bifo nel capitolo finale del suo ultimo libro, DisertateBifo non è nuovo alle provocazioni rivoluzionarie, ma per la prima volta sembra trovarsi alle strette con le potenzialità dell’agire politico, che non sembra più in grado di rispondere alle problematiche poste dal cambiamento climatico e dal capitalismo avanzato. “La storia umana è giunta al punto in cui non è più data la possibilità di azione volontaria efficace”, sostiene nelle prime pagine. E allora l’unica via è disertare, lasciare il campo di battaglia, rifiutare la guerra insieme ai valori di tutte le parti coinvolte per fuggire verso un luogo dove cominciare a ricostruire. 

Infatti, secondo Bifo, non tutto è perduto. Proprio quando sembra che di fronte non ci siano altro che macerie tornano ad affacciarsi tra le righe del filosofo – e nelle parole dei giovani agroecologi – parole scomparse da tempo, come gioia, grazia, erotismo, partecipazione. Le parole chiave di Disertate sono affermative: empatia, sensibilità, attenzione all’altro e amore di sé sono i punti di partenza per la progettualità libera dei disertori, l’unica capace di rianimare la forza del desiderio che sembra aver abbandonato da tempo il campo sociale. Se la diserzione è così profonda da riguardare tutto l’essere, allora un ruolo chiave, sostiene Bifo, ce l’ha l’immaginazione, l’unica facoltà in grado di trovare nuove vie dove non sembra esserci nulla, in un gioco continuo di creazione di nuovi elementi e interpretazione dello stato di cose. L’immaginazione è una facoltà attiva e creatrice. La biforcazione degli studenti dell’APT è un possibile risultato della capacità di immaginare una strada ulteriore rispetto a quella visibile.

È ora di prendere sul serio l’ipotesi che dietro la perdita di attrattiva da parte di molti dei valori sui quali si fonda la società da almeno mezzo secolo non ci sia una misteriosa epidemia di depressione da curare, ma al contrario la presa di coscienza da parte dei “malati”, che è il primo passo verso la guarigione. La radicalità delle idee di biforcazione e diserzione sta nel fatto che differenti aspetti del mondo contemporaneo vengano letti in modo unitario, rendendo il rifiuto efficacemente rivolto verso un destinatario preciso, anche se multiforme: l’intero sistema di norme, pratiche e valori nel quale viviamo immersi. Un sistema che ha perso di solidità, finendo per esercitare minore attrattiva. 

Dietro la perdita di attrattiva di molti dei valori sui quali si fonda la società potrebbe non esserci un’epidemia di depressione, ma una presa di coscienza.

La scelta radicale degli studenti dell’APT non è un sacrificio. Nonostante la formazione di altissimo livello si può scegliere un mestiere umile. Lavorare la terra non significa abbandonare il proprio sapere, ma metterlo al suo massimo frutto per cercare gratificazioni differenti. Siamo abituati a pensare che il percorso che passa dalla formazione scolastica conduca alla professione in modo lineare. “Nella sua attuale occupazione, quanto le sono state utili le competenze acquisite durante il percorso di studi?” è una tra le prime domande di qualsiasi indagine sui lavoratori neodiplomati o neolaureati. Un lavoro è tanto più confacente quanto più si approssima alle previsioni del corso di studi. E tanto più il percorso di studi è lungo e complesso, quanto più ci si auspica che il lavoro cui conduce sia specializzato, prestigioso, ben pagato e d’alto profilo all’interno del sistema sociale. In questo contesto è chiaro che nessuna delle biforcazioni è accettabile.

Tuttavia è proprio il percorso di studi che ha portato questi studenti a ipotizzarne la possibilità, perché esiste un altro senso dello studio, oltre alla sua conversione in posizione sociale. Sapere è qualcosa di più di acquisire competenze tecniche da mettere a frutto. Conoscere meglio il mondo permette di farsi un’idea chiara su come posizionarsi al meglio al suo interno. Quando il sistema non è più accettabile, occorre disfarsene, biforcare. Lo afferma ironicamente uno degli studenti, quando descrive cosa vede all’orizzonte se proseguisse seguendo la via che gli viene prospettata: “a voi che siete seduti su una scrivania, e cercate la libertà fuori dalla finestra; voi che prendete il TGV tutti i week end in cerca di un benessere che non arriva; a chi è frustrato perché sperava di cambiare da dentro un sistema che non accenna a mutare: non siete i soli a pensare che ci sia qualcosa che non va. Perché c’è qualcosa che non va. […] Se avete paura di abbandonare il sentiero, pensate a questo: che vita volete? Un capo cinico, un salario che permetta di prendere spesso l’aereo, un mutuo trentennale per una casa suburbana, cinque settimane di vacanza, un’auto elettrica, un fairphone, una carta fedeltà al supermercato green e poi un burnout a quarant’anni? Non perdiamo il nostro tempo.” 

È chiaro che questo racconto non rappresenta il futuro di chiunque scelga di cercare la propria strada tra quelle offerte, o di trovare un posto all’interno del sistema dominante. Ma la questione è che le garanzie offerte dal modello dominante si sono ristrette, il ventaglio di possibilità è meno ampio e per entrare a farne parte è necessario cedere sempre un pezzetto in più. Biforcare, in quest’ottica, è tutt’altro che irrazionale. Si tratta di un semplice bilancio costi-benefici. Certo, cambiano i criteri del bilancio: costi e benefici non si misurano solo sulle entrate di denaro, sul prestigio sociale o sugli agi materiali. Si tratta di costruire il progetto di un altro modo di vivere, e sulla base di esso compiere le proprie scelte. Anche qui il discorso dei laureati dell’APT cerca di non frammentare un fenomeno complesso: gli studenti si rifiutano di separare vita privata e lavoro, riconoscimento e salute, economia ed ecologia. La vita è un tutt’uno fatto di giorni e notti, biforcare significa cercare un equilibrio ecologico, un differente modo di vita

La biforcazione degli studenti dell’APT è nata proprio da incontri con persone che incarnano diversi modi di vivere: non promesse, non progetti, ma esistenze concrete. Nell’appendice etnografica che chiude il suo ultimo libro Essere natura, Andrea Staid ha intervistato persone che per vari motivi hanno disertato in questo senso. Li ha chiamati “Disertori della crescita” perché si sono affrancati più possibile da valori fondamentali del sistema dominante, uno su tutti la crescita, che sia professionale, economica, urbana o personale. Molti di loro provengono da ottimi percorsi d’istruzione e lavoro, hanno fatto parte della macchina sociale e infine hanno scelto di biforcare.

Le garanzie offerte dal modello dominante si sono ristrette, il ventaglio di possibilità è meno ampio e per entrare a farne parte è necessario cedere sempre un pezzetto in più.

Staid non racconta di vite romanticamente immerse nella natura e nell’ozio. I protagonisti della sua etnografia non testimoniano abbondanza né vite facili, perché le stesse promesse di abbondanza e comfort fanno parte del panorama desolante a cui serve cercare un’alternativa.Uno degli intervistati di Essere natura dice “è solo dal vissuto del qui e ora che si può produrre un cambiamento. Per me questa è la possibilità di una vita ecologica radicale che va contro quel tipo di civilizzazione che oggi consideriamo l’unica possibile: faccio fatica pensare una politica ecologica che non sia la vita stessa.”

Spesso oggi è una qualche forma di incontro con la natura a scatenare la critica radicale nei confronti del sistema dominante. Sperimentare l’ecologia profonda nella vita di altre persone è un primo passo per rendersi conto che un altro modo di vita c’è. Il punto centrale di ogni pensiero ecologico, afferma Staid è la presa d’atto che come esseri umani siamo parte della natura, obbediamo e rispondiamo alle sue regole come ogni altro organismo e, dagli altri organismi, abbiamo molto da imparare su come impostare un futuro vivibile e sensato. Solo facendo propria questa eco-logica è possibile rimanere nel mondo.  

La natura infatti offre continuamente esempi di eco-logica, un modello radicalmente opposto a quello a cui siamo abituati. Quest’ultimo infatti separa, frammenta, disunisce per sfruttare singole risorse e poi, quando qualcosa si rompe, lo trasforma in una “sfida” o un’ “occasione” da risolvere con premura da parte di chi ne ha l’expertise. Si traccia il confine di un “cantiere” su cui lavorare finché non torna tutto a posto. Biforcare significa anche rifiutare di lavorare in questi cantieri, boicottare la lottizzazione. La natura al contrario insegna l’interconnessione, l’interpolazione, il mescolamento, la sistematicità, la conservazione. “Ecologia” indica questo percepire interconnesso che sa vedere il piccolo nel grande e il grande nel piccolo, che sente e partecipa al flusso di annodamento e snodamento in cui appaiono quelle che chiamiamo “cose” o “oggetti” o “esseri umani” e che sono tutt’altro che autonomi. Allo stesso modo cambiamento climatico, crisi economiche, calo della biodiversità, non sono né questioni isolate né “oggetti”, ma al pari di ogni altra cosa del mondo vivono in una rete incredibilmente ampia di relazioni. 

L’abitudine a percepire, più che singoli fenomeni, i sistemi di cui essi fanno parte consente una “presa” critica particolarmente efficace sulla varietà di aspetti che compongono il “sistema dominante” rispetto a cui gli studenti intendono biforcarsi. Parlare di “sistema” crea sempre un certo imbarazzo. È una parola poco precisa, naïf. Ma guardando da una prospettiva ecologica alla molteplicità di “issues” a cui assistiamo oggi sotto il profilo ecologico diventa sensato parlare di “sistema” per nominare un insieme coerente, anche se non perimetrabile, di pratiche, valori e dispositivi che agiscono coerentemente per generare tutta una serie di effetti. Un esempio, tratto dal discorso degli studenti APT: non ha senso cercare di rendere l’agrobusiness sostenibile, dal momento che l’agrobusiness stesso si fonda su un’idea non sostenibile del territorio e delle risorse, guidata unicamente dal denaro come fine ultimo. Risolvere il problema implica addentrarsi eco-logicamente nei gangli del sistema dominante facendo propria la lezione della natura. In una logica della terra il consumismo, l’urbanizzazione, la precarizzazione del lavoro, la specializzazione e la privatizzazione dei saperi, l’economia di mercato, l’agroindustria sono legate da un’unità profonda, proprio come accade in un ecosistema. 

La natura offre continuamente esempi di eco-logica, un modello radicalmente opposto a quello a cui siamo abituati.

In ognuno dei tre esempi che abbiamo citato (Il discorso di laurea ad APT, Disertate Essere natura) è implicato il lavoro agricolo. Il mondo rurale, inteso anche nei termini di autoproduzione del proprio sostentamento, è all’origine di molte delle biforcazioni contemporanee. È il “terreno” dove queste finiscono per condurre. Nel caso degli studenti è evidente: come abbiamo detto all’inizio ciascuno di loro si è inserito in un contesto dove pratica agricoltura o allevamento di piccola scala. Lo stesso vale per i Disertori di Essere natura: molti di essi hanno scelto aree rurali e mestieri “umili”. Anche in Bifo però c’è un chiaro riferimento al tema della produzione agricola come punto fondamentale della diserzione. La fine del secondo e il terzo dei principi in cui si articola la strategia della diserzione suonano così: “Dedicate le vostre energie alla cura, alla trasmissione del sapere, alla ricerca, all’autosufficienza alimentare. Rompete ogni rapporto con l’economia. Non consumare più niente che non sia prodotto dalle comunità di autoproduzione. Boicottate la circolazione delle merci.” 

Garantirsi la possibilità di mangiare fuori dal sistema è il primo passo. Oggi la stragrande maggioranza delle persone si garantisce le necessità di base (cibo, tetto) grazie al denaro. Sono almeno decenni che facciamo lavori che non hanno alcun legame con le nostre necessità di base per ricevere il denaro con cui soddisfarle. Tuttavia il denaro, così come la tecnologia e la scienza, non è “né apolitico, né neutro”, afferma uno degli studenti. Fluttua, si muove, si accumula e si distribuisce secondo dinamiche sistemiche di cui nessuno ha il comando, nemmeno il sistema capitalistico stesso, che non può fare altro se non assicurare i propri cittadini dai rischi più gravi. Bifo cita la distinzione fatta sul New York Times da Ross Douthat tra practicals virtuals. I primi sono tutti coloro che lavorano, vivono e producono beni o processi nel mondo materiale. Sono practicals i camionisti, gli agricoltori, i netturbini, i pescatori. I secondi sono coloro che vivono grazie ai proventi di un lavoro che non appartiene né agisce immediatamente sul mondo materiale, ma che trae il proprio valore da elementi virtuali. Questa distinzione rispecchia un preciso modello di mondo che sottintende una precisa gerarchia tra i lavori teorici e astratti, quelli più prestigiosi, e quelli pratici, umili e meno d’avanguardia. Abbiamo già detto che questa gerarchia fa parte di un sistema di valori che la biforcazione mette in discussione. Questo non solo perché spesso la scelta di fare un mestiere pratico viene presa da chi ha un’alta formazione, ma soprattutto perché nella prospettiva di queste persone il lavoro pratico produce al contempo una varietà di valori “virtuali” di pari pregio, produce una nuova cultura. Produrre biodiversità è una questione, se non virtuale, sicuramente teorica, così come contribuire allo sviluppo di dinamiche virtuose di mutuo appoggio in contesti svantaggiati, o riabitare luoghi dismessi, combattere l’accaparramento di terre. 

La questione del sostentamento era centrale anche in Marx, e la sua teoria della frattura metabolica è il punto centrale di gran parte della sua ecologia. Le pagine del Capitale dedicate alla “rottura dell’interazione metabolica tra uomo e terra” sono state fondamentali per attualizzare gli scritti del filosofo tedesco alla luce dei problemi ambientali. John Bellamy Foster scrive nel 1999 un articolo che rilegge il marxismo come qualcosa di più di una filosofia solo antropo- e tecno-centrica, e lo fa proprio rileggendo le righe dedicate alla metabolic rift. Marx osserva una frattura nel rapporto tra uomo e terra, che sarebbe la conseguenza di due fenomeni interconnessi. Il primo è l’aumento rapido del numero di terre in affitto che l’agroindustria capitalista sottraeva alla produzione medio-piccola, costringendo gli abitanti a spostarsi in massa verso le città industriali. Il secondo è lo sviluppo dell’industria dei fertilizzanti che provocò una rivoluzione nella scienza dei suoli, consentendo uno sfruttamento delle risorse del terreno tale da rendere immediatamente evidenti gli effetti negativi sull’ecosistema. Questi due processi compongono quella che è stata chiamata la Seconda Rivoluzione Agricola e accadono tra il 1815 e il 1850. Rifondare un rapporto produttivo e metabolico con terra è l’unico modo per ricomporre questa frattura, nata proprio dalla perdita di circolarità tra uso, abitazione, consumo, fertilizzazione. Le biforcazioni e le diserzioni di cui parliamo rifiutano ambedue le cause del metabolic rift, implicando una continuità tra ciò che accadeva all’epoca di Marx e ciò che accade oggi, e soprattutto tra i timori del filosofo tedesco e quelli di coloro che oggi si impegnano a fronteggiare gli effetti estremi di quella frattura. 

Sappiamo che uno dei problemi del rapporto che oggi abbiamo con le emergenze climatiche è la sensazione di non poter fare nulla. La sensazione di inadeguatezza della volontà individuale, del sistema politico, scientifico ed economico nei confronti delle problematiche causate dal cambiamento climatico è il punto di partenza per capire anche i comportamenti politici delle persone. Il discorso degli studenti di APT è chiaro su questo: biforcare è un atto politico anche e soprattutto nella misura in cui rifiuta ogni tradizionale azione politica. La partecipazione democratica delle generazioni più giovani (e non solo) è in calo a livelli drammatici. Forse oggi, sostiene Bifo, nel momento della diserzione, non è più tempo di cercare di convincere i generali a interrompere la battaglia, non si cerca nemmeno il sollevamento di massa. Abbandonare e basta, “nulla di eroico” afferma il pensatore bolognese. Solo sopravvivenza e, forse, desiderio che va oltre le alternative presenti. Anche quando non è solitaria, la diserzione rimane al confine del campo politico, anche se è tutt’altro che priva di progettualità. La progettualità che traspare dal discorso degli studenti di APT quando dichiarano i primi approdi delle loro biforcazione, o quella dei disertori di Staid, fa pensare più all’azione diretta che al processo politico partecipativo. 

La sensazione di inadeguatezza della volontà individuale, del sistema politico, scientifico ed economico nei confronti del cambiamento climatico è il punto di partenza per capire anche i comportamenti politici delle persone.

L’azione diretta è un insieme di pratiche d’azione tipico di movimenti eversivi, talvolta di matrice anarchica, che consiste in azioni di disobbedienza civile volte a interrompere o a danneggiare direttamente processi di potere ai quali ci si vuole opporre. Due esempi noti di azione diretta sono stati il boicottaggio da parte del movimento no-global della conferenza OMC di Seattle, nel 1999, o del G8 di Genova, nel 2001. Agire direttamente significa bypassare il dialogo, bloccare l’azione, lavorare senza mediatori sul piano dei processi in corso. Biforcare, rifiutare un intero sistema di valori e di alternative offerte da uno status quo per costruire su altre basi un rizoma di pratiche etiche profondamente radicate nella vita individuale è qualcosa di simile ad un’azione diretta rivolta contro il sistema stesso. 

C’è un ultimo aspetto a cui vale la pena accennare per capire la portata del discorso degli studenti dell’APT: il tema della località. Tutti gli esempi che abbiamo portato tendono a dare attenzione alla località, a dimensioni spaziali ridotte e tendenzialmente marginali rispetto ai grandi centri. Questo, da un lato, perché dinamiche come quelle descritte dagli studenti sono attuabili più facilmente lontano dagli epicentri politico-economici, che richiedono agli abitanti molto più denaro e, di conseguenza, lasciano meno spazio all’azione non conforme ai modelli di produzione del valore; dall’altro perché il legame con il luogo che si abita è fondamentale per ogni ecologia. 

Il localismo, in questi casi, mostra l’altra faccia rispetto al marketing territoriale al quale siamo abituati. Si tratta di riposizionarsi su un piano concreto fatto di una certa aria, un certo panorama, certe risorse botaniche, biologiche, atmosferiche, inserirsi all’interno di una rete complessa. È difficile che questo accada su un piano globale, sicuramente non sul piano globalizzato dello spazio asettico su cui ci si muove solo grazie al navigatore satellitare perché non si conosce nulla. Chi diserta cerca una terra sicura dove continuare a vivere al di là della guerra da cui è fuggito. Rispetto a una situazione di conflitto in cui la volontà, nelle parole di Bifo, non ha più alcuna forza d’azione, il tentativo di allontanarsi è anche una logica conseguenza del desiderio di agire. Dopo la diserzione ciò che si può costruire è un villaggio, un contesto ridotto, fatto di legami intersoggettivi diretti, non una città. 

La critica che viene fatta solitamente a chi sostiene che la biforcazione sia un’alternativa reale è che non si può tornare indietro. Non si può immaginare un futuro in cui si prescinda dalle conquiste che la tecnologia e l’economia hanno raggiunto nell’ultimo secolo. È chiaro che ad un primo sguardo tutte le biforcazioni che abbiamo citato appaiono come un passo indietro rispetto a molti aspetti del progresso, la ricostruzione di un modo di vita pre-capitalistico (e non post-). Ma è impossibile prevedere sia la portata, sia le ricadute sul breve-medio termine di processi minoritari e ancora a uno stato embrionale. Non si può affermare se, come e quanto avranno la forza di imporsi nel campo sociale, né quali saranno le loro conseguenze. Anche quando si sviluppano correnti che possono sembrare passatiste o regressiste, il loro scopo appartiene comunque al futuro, perché nascono nel seno della contemporaneità, e possono attingere alla memoria come a una risorsa: ricordare come si è vissuto nel corso della storia, conservare saperi tradizionali, significa avere un più ampio bagaglio di informazioni con cui guardare all’avvenire come qualcosa di non completamente dato. Ciò che si rifiuta non è il futuro, il miglioramento delle proprie condizioni o l’idea stessa di crescita; ma l’appiattimento di tutti e tre questi elementi sul piano bidimensionale della stretta contemporaneità, sull’idea che in fondo ci potrà essere solo ciò che c’è. 

Ciò che si rifiuta non è il futuro, il miglioramento delle proprie condizioni o l’idea stessa di crescita ma il loro appiattimento sull’idea che in fondo ci potrà essere solo ciò che già c’è.

Ciò di cui gli studenti sono alla ricerca biforcando i loro percorsi è una vita che si confaccia maggiormente alle forme del loro desiderio. La vita non è mai dietro, ma ci attrae sempre verso l’ignoto. Forse il problema sono le parole. Come qualificare questo desiderio di fare un passo a lato rispetto al progresso comunemente inteso? Sono già state coniate alcune parole importanti: decrescita, diserzione, anticapitalismo, ma mi sembra di poter dire che si tratta di parole inadeguate perché contengono una negazione. Insieme, compongono una specie di teologia negativa che lascia poco spazio all’immaginazione. Biforcare indica qualcosa di diverso. Significa semplicemente dividere in due, rendere possibile uno scarto rispetto a qualcosa, aprire un nuovo campo di possibilità. In questo senso il discorso degli studenti di Agro Paris Tech è un vero e proprio manifesto.

da qui



Nessun commento:

Posta un commento