giovedì 24 agosto 2023

La falsa scissione - Enrico Gullo

 

C’è una trappola nella quale molti a sinistra in questi anni sono caduti: consiste nel dividere schematicamente, e con una certa rigidità, la sfera dei diritti sociali da quella dei diritti civili, indicando una specie di gerarchia tra le lotte

«Domanda random: tu ti ricordi quando si iniziò a fare questo discorso di diritti civili e diritti sociali?»

«Io lo ricordo da sempre, quindi direi dai primi anni Ottanta. Ho chiesto a E.B… dice: ‘Direi di sì, ma negli anni Settanta dei diritti civili non si parlava, l’orizzonte era diverso. Forse ne parlavano i Radicali’. G. invece mi dice: ‘Io di diritti civili ho sentito parlare a metà anni Ottanta… I radicali non li associavo al concetto di diritto ma a quello libertario… O almeno era quello che arrivava a me…’».

«Lo sai che questo scambio di messaggi è l’inizio dell’articolo, vero?».

Storie politiche stratificate in un’archeologia sepolta. Certo ci restano addosso le ferite delle accuse di «spaccare il movimento»: le parzialità rivendicate dei soggetti al margine costantemente a processo. Ma inquadrato nella contrapposizione tra diritti civili e sociali, il problema è sottilmente differente. Coinvolge, per esempio, una genealogia giuridica. I diritti sociali si affermano non casualmente nelle costituzioni del secondo dopoguerra, anche se si fanno risalire alla costituzione giacobina del 1793, a quella messicana del 1917, a quella di Weimar del 1919. Non sorprende: c’è la sfida dello stato sociale, già sul piatto da fine Ottocento, rilanciata dalla Rivoluzione russa, dalla sua espansione, dai movimenti socialisti e comunisti di tutto il mondo, cui già provava a rispondere il modello fordista. È nel 1976 però che vengono adottati due patti Onu, distinti ma complementari: quello sui diritti civili e politici e quello sui diritti economico-sociali e culturali. Si aggiungono alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 – di nuovo, nell’immediato dopoguerra. In Italia, i diritti sociali trovano la loro forza nel principio di uguaglianza sostanziale espresso all’art. 3 paragrafo 2 della Costituzione, oltre che nell’equilibrio politico compromissorio della celebre e ambigua formula dell’art. 1: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Repubblica democratica – e dunque civile – fondata sul lavoro (e dunque sociale). Ma leggibile anche in senso opposto: democratica, e dunque pacificata, e fondata sul lavoro – e quindi sullo sfruttamento.

Il fatto politico di svolta in Italia, che conduce all’accusa di separazione tra diritti civili e sociali, è senza dubbio la scissione a destra di Sinistra Ecologia e Libertà da Rifondazione comunista. Ancora: non è una storia nuova, quella della marginalizzazione dei soggetti oppressi per razzializzazione, genere e orientamento sessuale nei movimenti comunisti eurostatunitensi (e nel caso dei soggetti Lgbtqia+ anche della persecuzione in alcuni regimi comunisti). Attraversava il movimento come i partiti di sinistra, grandi come il Pci o piccoli come Rifondazione comunista. Ma in Italia c’è un salto di qualità «tecnico» nell’uso denigratorio e insistito di questa separazione strumentale che prese a oggetto Nichi Vendola, e che ha lasciato alla comunità Lgbtqia+ un’eredità difficile da sbrogliare. Costringeva noi frocie antagoniste a una doppia contraddizione paralizzante: restare interdette tra il denunciare l’omotransfobia del discorso che prendeva a bersaglio personalità come Vendola e Vladimir Luxuria, o restare interdette sul sostegno al centrosinistra che quasi è sottinteso in questa difesa. Mi raccontava mio padre di una frase che attribuisce a Ugo La Malfa (ma che io credo si riferisca invece al Partito repubblicano che, nel 1987, aveva scelto una linea di non allineamento, né con De Mita, né con Craxi), «né con gli uni né con gli altri». Che nel nostro palermitanissimo accento – e in quello di La Malfa – suonava come «né coglioni né coglialtri»…

E dall’altro lato questa contraddizione lavorava dentro noi antagoniste queer, così come nell’associazionismo nazionale: noi critiche, decostruttive, pensose, militantiste rispetto al piano giuridico dei diritti civili. «Loro», invece, aggrappatə ai «diritti borghesi». Poco importava, a noi come alla sinistra cisgenere ed eterosessuale, che in effetti per anni aveva dominato una politica della cautela nell’associazionismo nazionale, persino su quella che viene considerata la lotta-feticcio per eccellenza (e che non è invece solo uno strumento di cattura, ma uno snodo delle politiche della popolazione): il matrimonio egualitario. Ancora, poco importava che il centrosinistra, e il Partito democratico in particolare, non sia mai stato in alcun modo «il partito dei diritti» che viene accusato di essere, da sinistra e più di recente dall’estrema destra. Lo si vede bene dall’angolatura della legge Cirinnà, che ratifica la discriminante linea di interpretazione costituzionale che vuole la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio eterosessuale, su cui Yadad De Guerre ha scritto sul sito di Jacobin Italia. Ma sarebbe forse bastevole pensare alla penosa vicenda dell’affossamento del ddl Zan, della quale forse è ancora troppo doloroso ricostruire l’interezza. Da qui si vede bene che bel regalo questa contrapposizione tra diritti «civili» e «sociali» ha fatto alle destre. Vero, Zapatero era un bel sogno, e molti partiti liberal-progressisti in tutto il mondo hanno tentato (tentato: appunto) di sopperire alle loro politiche borghesi con qualche contentino di diritto. Ma l’estrema destra ci ha chiuso a tenaglia, con la falsa causazione tra il dedicarsi ai «diritti civili» e l’abbandono della classe lavoratrice da parte delle sinistre. 

Il problema è più antico, e non necessariamente legato al controverso rapporto tra soggetti di genere e movimenti socialisti, comunisti, di sinistra. Nel Che fare?, Lenin di fatto poneva una questione simile, che mutatis mutandi dà la traccia – troppo spesso come automatismo – all’impostazione di teoria e prassi più efficace. L’economicismo – la tendenza a feticizzare la vertenza sindacale come unico nodo dell’attività politica comunista (che all’altezza del 1902 si raggruppava anche intorno a specifiche riviste russe) – era un’impostazione limitata (e, sostiene Lenin, complice) nel suo essere scarnamente vertenziale. Così come insufficienti erano le varie forme di politicismo, dall’appiattimento sulle correnti progressiste dell’aristocrazia e della borghesia russa (e dei loro mal di pancia rispetto al regime zarista liberticida) all’entusiasta primitivismo tattico dei gruppi studenteschi che si approcciavano al marxismo e a chi lavorava nelle fabbriche. Non irrecuperabili, però, queste direzioni: anzi, necessariamente da integrare nell’azione organizzata di un partito che coniughi teoria e prassi. Mostrare come le libertà civili sono impossibili da conquistare senza la pressione politica organizzata della classe lavoratrice (per chi fa orecchie da mercante: in tutte le sue differenze interne, razzializzazione, genere e abilità fisica comprese).

Quando questa ennesima versione – diritti civili o diritti sociali? – della nostra sacrificabilità ci è piovuta addosso, è toccato come sempre a noi sciogliere la contraddizione. E non sono pochi i momenti in cui i movimenti queer e femministi italiani hanno cercato negli anni di farlo. La mossa teorica più promettente è stata rimettere in campo l’indagine sul lavoro domestico, riproduttivo e di cura – salariato e non – condotta dai femminismi marxisti. Le annuali chiamate allo sciopero di Non Una di Meno, pur dall’esterno delle strutture sindacali, riflettono la forza e la necessità di quest’analisi. L’ultimo tentativo – in ordine strettamente cronologico – è quello di Stati Genderali. Personalmente, mi ha dato l’occasione di discutere con diversə compagnə che hanno animato il progetto del Tavolo Lavoro, mettendo in gioco una formula che recepivo da alcuni gruppi trotskisti e mi sembra racchiudere il nostro «che fare». Sembra una banalità: le persone Lgbtqia+ fanno parte della classe lavoratrice. Quello del Tavolo Lavoro è un tentativo di mostrare gli effetti della discriminazione «civile» sul luogo di lavoro e di indicare come possa essere oggetto di vertenza sindacale. Poche le leggi antidiscriminazione esistenti, e per nulla tutelanti dei soggetti trans. E la scottante distinzione tra unioni civili «omosessuali» e matrimonio «eterosessuale», che nel nostro ordinamento giuridico ci marchia a fuoco, si verifica nelle estenuanti procedure di dimostrazione che i diritti sanciti dalle unioni civili legati al lavoro sono mutuati (ecco appunto: mutuati) sul matrimonio. Altro che feticcio, per quanto non sia e non possa essere il solo obiettivo e aspirazione dei movimenti femministi e Lgbtqia+ (né dei movimenti di sinistra, socialisti e comunisti in generale). E la recente riforma cubana del diritto di famiglia mostra quanto stretto sia il legame tra produzione e riproduzione, e tra civile e sociale, se ha a che fare con un’idea complessiva della società.

C’è un ormai vecchio articolo di Rossana Rossanda sul Manifesto, del 2008, intitolato «Sassolini nelle scarpe», che ho riscoperto grazie a un amico che amorevolmente cerca di portarne le parole preziose nel Regno unito. Scriveva Rossanda: «Questo è il leitmotiv. Ambientalisti, femministe, immigranti, religioni, etnie, tutti me lo rimproverano: non li avevamo neanche visti, sempre per via di quella contraddizione principale. Qualche amico marxista si copre: è quel conflitto principale che oggi li mette in luce. Bah. Che quel conflitto detto ‘principale’ non avesse un’idea di società è una balla assoluta. È il solo ad averne avuta una diversa da quella del capitale e del mercato. Ha proposto una società di uguali non perché ci voleva identici, ma uguali in diritti e uguali nel patteggiarli. È stato il solo a disvelare la falsa libertà di rapporto fra soggetti asimmetrici, quindi la falsa eguaglianza del contratto sociale, la disinvoltura con la quale si garantisce la sola proprietà, inclusa quella dei mezzi di produzione. È stato il solo a gridare: è inaccettabile che uomini, donne e natura diventino cose, siano trattati come merci. Il suo è stato un assalto al cielo difficilissimo. Non ce l’ha fatta. Ma economicista sarai tu, modernizzatore dei miei stivali!». 

da qui

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