domenica 31 agosto 2025

Aboliamo la depredazione - Raoul Vaneigem

 

Lanciare anatemi su una civiltà abietta non le impedisce di perpetuarsi mentre noi permettiamo alle leggi della rapacità finanziaria e all’aggressività predatoria di orchestrare il nostro snaturamento. E allora? Quella di Raoul Vaneigem è una chiamata alla creazione di collettività in lotta per una vita umana libera e autentica. Una creazione con la quale smettere di prendere in considerazione qualsiasi forma di potere, il mondo non si cambia in profondità dall’alto; ripudiare la guerra contro la Palestina in quanto guerra contro i popoli di tutte le regioni della Terra; dare spazio all’aiuto reciproco; riscoprire la facoltà unica che lega tutte le donne e tutti gli uomini, saper creare e ricreare il mondo che ci circonda. “È arrivato il momento di riprendere il corso del nostro destino. È arrivato il momento di cambiare il mondo e di diventare quello che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile, ma gli abitanti di una Terra in cui coltivare l’abbondanza permetterebbe di godere in libertà…”

 

Abbiamo fatto dell’Essere umano la vergogna dell’umanità.

Dall’epoca più lontana della Storia fino ai nostri giorni, nessuna società ha mai raggiunto il livello di indegnità e abiezione dimostrato dalla civiltà agro-mercantile. Quella che da diecimila anni si considera la Civiltà per eccellenza.

È innegabile che abbiamo ereditato sia un istinto di depredazione sia uno di aiuto reciproco. Costituiscono entrambi la nostra parte di animalità residua. Però, mentre la coscienza di una solidarietà unificatrice favoriva la nostra progressiva umanizzazione, l’aggressività predatoria sviluppava dentro di noi una tendenza all’autodistruzione. È tanto difficile da capire?

L’apparizione di un’economia che sacrifica la vita al lavoro, al Potere e al Guadagno segnò una rottura con l’egualitarismo e l’evoluzione simbiotica delle civiltà pre-agricole. L’agricoltura e l’allevamento hanno privilegiato l’istinto predatorio a spese di una pulsione di vita che non ha mai rinunciato a ristabilire la sua usurpata sovranità.

L’appropriazione, la concorrenza e la rivalità si divertono a esaltare la “bestia civilizzata”, la cui sublimazione spirituale serve a legittimare le loro imprese. Nella sua forma emblematica, il leone suggerisce, in questo modo, che è naturale dargli la caccia e opprimere le bestie. In questa maniera, ciò che in realtà si impone è lo snaturamento dell’essere umano. Cercheremmo invano fra i carnivori più spietati una crudeltà tanto determinata e una ferocia così ingegnosa come quelle che esercitano la Giustizia, la Religione, l’Ideologia, il Dominio, lo Stato e la Burocrazia.

Bisogna vederlo il ghigno dei mercanti di armi quando i loro prodotti di marca fanno a pezzi donne, bambini, uomini, bestie, boschi e paesaggi. “À la guerre comme à la guerre”, non si dice così? La Germania ha il cinismo del fatto compiuto. Non ci nasconde niente di quei ristoranti senza cuore1dove dame-e-cavalieri si riempono la pancia mentre le loro scarpe di lusso grondano sangue ed escrementi.

Perché preoccuparsi quando un’opinione pubblica già inquadrata si schiera a fianco di uno o un altro belligerante, come se si trattasse di un incontro di calcio dove si affrontano Russia e Ucraina, Israele e Palestina? Le scommesse sono aperte e gli applausi degli spettatori coprono le grida delle moltitudini massacrate.

Accontentarci di lanciare anatemi su una civiltà abietta non le impedirà di perpetuarsi mentre noi permettiamo alle leggi della rapacità finanziaria di orchestrare il nostro snaturamento, scandire le nostre apatie e mettere in evidenza le nostre frustrazioni scatenando esplosioni di un odio cieco e assassino. Aggiungere il rimprovero all’errore? A che scopo? Servirebbe solo a rafforzare un sentimento di colpa personale che si esorcizza accusando gli altri. Il riflesso predatorio ne trarrebbe, di nuovo, un vantaggio.

Le esortazioni dirette alla maggioranza cadono sotto i colpi di un doppio discredito: da una parte, le consegne e le esortazioni militanti mettono in moto il vecchio motore del Potere, in cui il radicalismo ostacola rapidamente la radicalità dell’esperienza vissuta; dall’altra, ciò che si decide di diffondere sul podio dei concetti generali si diluisce rapidamente nell’intruglio delle idee separate dalla vita, a meno che una lettrice o un lettore vi scopra l’opportunità di intavolare un dialogo intimo con se stessa o se stesso. In altre parole, a meno che entrambi bevano alla fonte della coscienza umana che sta dentro di loro.

Per questo preferisco parlare direttamente all’individuo autonomo e non alle masse. Perché quello sa molto bene che la mia unica intenzione è di affidargli la mia maniera di vedere le cose, in una discussione fraterna in cui non è necessario conoscersi per riconoscersi.

Non è l’aiuto reciproco la migliore garanzia del risveglio delle coscienze? Non è un caso che la solidarietà rinasca spontaneamente man mano che la depredazione smette di nascondere come divori se stessa e tragga guadagno dalla sua autodistruzione.

La rovina dell’avere diffonde una stanchezza peggiore di quella morte il cui spettro ci minaccia senza soste. E allora il soffio della vita ripristina l’essere. Il soggetto si emancipa dall’oggetto, si libera della cosa a cui lo riduceva la mercificazione. Non è per caso questo che è implicito nell’adagio “l’uomo e la donna non sono merci?” Che gli uomini e le donne rivendichino, rispettivamente, la loro parte di femminilità e di mascolinità non cambia per niente la lotta comune che portano al sistema che li riduce in questo stato. Basterà risparmiare ai bambini i danni dell’educazione predatoria perché la loro spontanea radicalità si incarichi di risvegliarli alla loro destinée2 di esseri umani.

Non c’è bisogno di profeti per rendersi conto che quel che si avvicina sarà, o il trionfo del bruto a cui la clava serve da intelligenza, o l’irruzione di una vita che ritrova la coscienza della sovranità che la sua umanità ha diritto di esercitare.

L’utilità di fascismo e antifascimo consiste nel nascondere la vera lotta finale, quella, al tempo stesso esistenziale e sociale, che implica lo sradicamento della depredazione, la sparizione del Potere gerarchico e la fine di chi latra ordini.

Il cinismo e l’assurdità lucrativa delle guerre, istigate dalle mafie statali e globali, hanno finito per stancare anche il più ottuso dei loro tifosi. La successione di contrapposizioni praticamente intercambiabili spinge l’opinione “pubblica” ad abbandonare a poco a poco la scacchiera dei maneggi geopolitici. È qui e ora che l’apparizione di movimenti come il maggio 1968, gli zapatisti, i gilet gialli e i combattenti e le combattenti del Rojava apre alla vita e alla coscienza un cammino che il deragliamento storico della Civilità agro-mercantile aveva ostruito e condotto verso la morte.

Non sperare in niente non significa disperare di tutto. Il ritorno alla vita è una reazione violenta, naturale e spontaneaContiene in sé la capacità di fermare la desertificazione della Terra da cui il profitto trae le sue ultime risorse. Il ritorno alla vita, alla sua autenticità e alla sua coscienza è la nostra vera forma di autodifesa immunitaria. Visto che lo snaturamento ostacola questo processo in nome del Guadagno, perché non contare sulla natura che esiste in noi e nel nostro ambiente per porre fine a una civiltà odiosa? Come? Non fatela a me la domanda, fatevela a voi stessi, che in ogni momento navigate fra il letargo e la rivolta!

I segnali di inquietudine e di giubilo si mescolano e moltiplicano dappertutto. Ma non ingannatevi! Il rifiuto rabbioso di una guerra diretta specificamente contro una determinata nazione – in questo caso la Palestina – va molto al di là di un semplice ripudio. Esprime ogni volta con maggior chiarezza l’esecrazione verso una guerra rivolta non solo contro la popolazione di una regione, ma contro il popolo di tutte le regioni del pianeta Terra. Popolo che ha capito che per l’avidità totalitaria vivere è un crimine. È per questo che le nuove insurrezioni globali fanno parte dell’autodifesa del vivente. In esse si incarnano tanto la volontà di abolire un universo di psicopatici che guadagnano dalla morte, quanto la messa in opera di una nuova alleanza con madre natura.

È in questo che la guerra è stata di troppo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non per le cricche delle armi, statali o soprastatali che siano, non per i produttori di narco-neurolettici, ma per chiunque non sia disposto a morire prematuramente unendosi al partito della servitù volontaria e del “viva la morte!”3

Il problema discende soprattutto dal dubbio, dalla disperazione, dalle disillusioni a cui vanno incontro, di generazione in generazione, i sostenitori della vita.

Non è forse un’aberrazione aspettarsi qualcosa dalle istanze governative che decidono a nome nostro e ci tormentano con i loro decreti, giocando a quale di essi è più ridicolmente ingannevole del precedente?

In mezzo alla desolazione della nostra epoca, abbiamo almeno il piacere di veder marcire davanti ai nostri occhi gli Dei, quegli impostori che da diecimila anni hanno usurpato quella facoltà di creare e crearsi che la vita, nella sua folle fecondità, aveva concepito proprio per la specie umana.

È arrivato il momento di riprendere il corso del nostro destino. È arrivato il momento di cambiare il mondo e di diventare quello che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile, ma gli abitanti di una Terra in cui coltivare l’abbondanza permetterebbe di godere in libertà. Basta con questo mondo alla rovescia dove il guadagno si impoverisce impoverendo le sue risorse! Che la disparizione delle energie nocive decontamini l’acqua, l’aria, il suolo e la terra, in modo che il nostro ingegno creatore cancelli persino il ricordo di una sfortunata deviazione della nostra evoluzione!

Nell’intensità di un desiderio il presente si risveglia in presenza di una vita che non si preoccupa né di essere misurata né di essere programmata. L’allegria di vivere ci inizia all’arte dell’armonia, poiché porta con sé la facoltà specificamente umana di creare e crearsi.

La proprietà terriera e l’allevamento avevano introdotto nei costumi della gente un gregarismo grazie al quale l’individuo vedeva la sua intelligenza abbassata a quella del bestiame che doveva nutrire col suo lavoro. Quel che oggi si profila è una rinascita dell’individuo autonomo che si libera dell’individualismo e della sua coscienza alienata.

Ci troviamo in un punto di inflessione della Storia, in cui l’elaborazione di uno stile di vita sostituirà una sopravvivenza condannata al lavoro, un’esistenza dedicata a un confort frutto di cure palliative.

La presa di coscienza che emana dalle nostre pulsioni vitali mette in evidenza un conflitto incessante tra una prospettiva di vita e una prospettiva di morte, tra l’attrazione dei nostri desideri, illuminati dalla nostra intelligenza sensibile, e il controllo esercitato contro di lei dll’intelligenza intellettuale. Questo perché il blocco delle nostre emozioni da parte di ciò che Wilhelm Reich chiama corazza caratteriologica obbedisce ai comandi dell’efficienza meccanica a cui è soggetto il corpo durante il lavoro. Pertanto, se il piacere che viene fuori dalla gratuità della vita non trova posto nell’avidità totalitaria, è allora evidente che restaurare la gioia di vivere, sviluppare la combattività festiva, rafforzare l’innocenza del vivente, che ignora tanto i padroni quanto gli schiavi, sono armi che per loro natura possono precipitare la rovina del Guadagno.

Stiamo nel vortice di un combattimento appassionante. Segnala la rinascita della nostra coscienza umana ed esprime il risorgere di una dignità che è sempre stata nel cuore dei nostri tentativi di liberazione, specialmente nel progetto proletario di una società senza classi. Abbiamo visto come il proletariato sia stato spogliato del suo progetto da quegli stessi che si proclamavano suoi difensori. Sarebbe meglio prendere in considerazione fin dall’inizio lo sradicamento di ogni forma di potere, che sia quella del sindaco, del funzionario dello Stato o del militante funzionario dell’ideologia e della burocrazia contestataria.

Fra quelli che si autoproclamano rappresentanti del popolo è facile riconoscere i manipolatori che ambiscono sostituire la burocrazia dello Stato con la loro.

Non è forse una decisione salutare desiderare tutto senza aspettarsi niente? Qui mi riferisco all’affidarci alle nostre pulsioni vitali come se fossero non una fatalità ma una presenza creatrice che abbiamo la libertà di sperimentare impedendo che quelle si blocchino, così da evitar loro un’inversione mortale che generi piaghe emozionali. Abbiamo sottostimato l’importanza di raffinare la collera per evitare la trappola dell’urgenza, per non lasciarci trascinare sul terreno del nemico, per non soccombere alla militarizzazione della militanza. Però, soprattutto, la distanza che implica il raffinamento delle emozioni si configura come un luogo propizio per la maturazione della creatività. Favorisce la messa in moto di una guerriglia che evita di ricorrere ad altre armi che non siano quelle che non uccidono e sono inesauribili.

Con la prospettiva dei secoli si percepirà come il risveglio della coscienza abbia rianimato la lotta, come il rinnovamento dell’aiuto reciproco liberi poco a poco dalle nebbie della confusione.

Alle generazioni future risulterà inconcepibile che noi si sia tardato tanto a renderci conto che la vita aveva dotato l’uomo e la donna di una facoltà eccezionale, senza la quale non avrebbero superato lo stadio dell’animalità. Nella sua cecità pratica, ci ha offerto il privilegio di creare e ricreare il mondo che ci circonda.

Le comunità pre-agricole si sono evolute in simbiosi con l’ambiente da cui traevano il loro sostentamento. L’apparizione della Civiltà mercantile e delle sue Città-Stato segnò una rottura con la natura che da soggetto vivo passò a convertirsi in oggetto di sfruttamento. Si utilizzò un sistema di governo autoritario per occultare l’aiuto reciproco e creativo che aveva guidato, “da Lucy fino a Lascaux”, un’evoluzione che oggi gli adulatori della civiltà mercantile sono molto restii a scoprire.

Prevalse la nozione di Destino. Diffuse uno spirito di sottomissione, inculcò un’ontologia della maledizione, estese il mito di una Caduta irrimediabile a cui dobbiamo rassegnarci, così come obbediamo all’arbitrarietà di un padrone divinizzato.

Ciò che rinasce ora in quelli che ancora aspirano a vivere è la sensazione di essere stati ingannati. Il collasso del patriarcato, man mano che finisce di seppellire gli Dei nelle latrine del passato, ci insegna a scoprire la differenza fondamentale fra Destino e destinéeIl disprezzo della vita, programmato dalla civiltà mercantile, ha nascosto sotto il termine Destino, il principio attivo che io chiamo destinée, che non è altro che la capacità di crearsi ricreando il mondo.

Il Destino appartiene alla Provvidenza, non si discute e invoca quella Fatalità che aggiunge al servilismo un apprezzabile confort.

Il Destino si soffre, la destinée si costruisce. In questo non c’è nulla di metafisico. L’atroce barbarie della nostra storia non è mai riuscita a soffocare la lotta viscerale che mostra, di generazione in generazione, una volontà di emancipazione intemporale che viene, nello stesso tempo, modellata dai flussi economici, politici, psicologici e sociali.

Destino e destinée pongono un problema perché sono diventati sinonimi. Così suggerisco di mantenere le radici francesi di destinée per maggior chiarezza.

La radicalità delle lotte per la vita esige che la destinée umana rimpiazzi il Destino, il Caso, la Provvidenza. Rifiorisce nel mezzo di una no man’s land4 dove una civiltà incontinente si svuota della sua sostanza esistenziale, mentre una nuova civiltà lotta con i dolori del parto.

Tra i balbettìi dell’autonomia, la potenza creatrice della donna e dell’uomo – per quanto incerta sia – rivela di colpo che siamo capaci di crescere senza padroni, guru e tutele. Se abbiamo avuto l’opportunità di comprendere che niente attraeva la disgrazia con più certezza dell’abitudine di esser contenti in sua compagnia, allora dobbiamo essere d’accordo sul fatto che, al contrario, il piacere della gioia di vivere risulta ugualmente contagioso e lo fa in una maniera più gradevole.

L’indistruttibile determinazione a coltivare nello stesso tempo la nostra vita e quel giardino che è la nostra madre terra offre un aiuto infallibile contro la paura, il senso di colpa, il sacrificio, il puritanesimo, il lavoro, il potere e il denaro. Alimenta la lotta contro lo spirito mercantile che garantisce dappertutto la promozione di valori “antifisici”, ostili alla natura.

Nella lotta per l’emancipazione dell’io, la volontà di autonomia individuale è allo stesso tempo unica e plurale. Le domande a proposito della salute, l’equilibrio, l’immunità, l’amicizia, l’amore, i piaceri e la creatività stanno nel cuore di quell’emancipazione della Terra che le nuove insurrezioni globali hanno illuminato. La posta in gioco è uguale dappertutto: raggiungere la libertà dei desideri creando una società che si sforzi di armonizzarli.

Nella mia vita quotidiana, l’autenticità del vissuto è la garanzia naturale dei miei desideri. La sua libertà esclude quelle mercantili; la libertà di sfruttare, opprimere e uccidere.

La libertà e l’autenticità costituiscono per l’individuo in cerca di autonomia il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata.

La predica delle buone intenzioni non è mai stata tanto insopportabile come nel XXI secolo, in cui la coscienza alienata ora non indossa i guanti di velluto per mettere le parole al lavoro. Col nome di terrorista, assassino, psicopatico o delinquente indica quella che, per disgrazia, non è altro che una condizione di disumanità che la frenesia del Guadagno a breve termine aggrava e accelera al ritmo delle sue grandi opere, profittevoli e inutili.

Ho sempre difeso questo principio: libertà assoluta per tutte le opinioni, proibizione assoluta di qualsiasi forma di inumanitàSecondo me, questa è l’unica maniera di affrontare la questione delle religioni e delle ideologie. Una tale opzione ci libera dell’ipocrisia umanitaria con qui si abbelliscono in maniera ridicola tante idee e credenze. Non dobbiamo neppure ripetere che la libertà di pensiero non è mai stata altro che una libertà mercantile.

Non vogliamo giudicare la disumanità, vogliamo condannarla ed esiliarla. Non ci servono spiegazioni, né giustificazioni, né circostanze attenuanti. Che venga dai quartieri ricchi o da quelli poveri, dal conservatorismo o dal progressismo, nessuna disumanità è tollerabile. Che rimanga chiaro e senza ambiguità!

Faremo tutto il possibile per sradicare dai nostri costumi la propensione ad uccidere, ferire, violentare e maltrattare, senza tener conto delle ragioni utilizzate per spiegare le sue apparizioni e riapparizioni. Ora basta col tribunale universale, dove soppesare, giudicare, scusare, condannare, castigare e amnistiare perpetua le proteste dell’indignazione impotente. La giusta collera continuerà ad essere impotente mentre si radica in ognuno di noi quel “togliti di mezzo che sto arrivando!” che condanna alla giungla sociale e al riflesso predatorio.

Ora basta con questa caricatura di esistenza volgarizzata su scala globale dall’evangelismo narco-americano! Il self-made man5costruisce e diffonde solo la propria morte. Quello è il suo prezzo ed è esibito con orgoglio!

Non è nell’individuo autonomo che si basa il piacere di non dover rendere conto a nessuno, di stare soli a investigare, discutere e, prima o poi, realizzare una trasformazione alchemica della monotona sopravvivenza che in lui si impantana? Di causare la trasformazione della materia prima – condannata a putrefarsi – nella vita piena e completa a cui abbiamo sempre aspirato come esseri umani? L’arte di vivere disimpara il morire. Questa è l’unica lezione a cui desidero afferrarmi.

Godere della mia autenticità vissuta, per quanto disordinata sia, mi libera dell’obbligo di giocare un ruolo, un obbligo che impongono l’individualismo e il gregge – il conglomerato dei gregari – che ignora l’individuo e ne riconosce solo la forma alienata. Mi fa prendere coscienza del ridicolo e patetico dovere di apparire, mi libera della dittatura dell’esteriorità, dello spettacolo e della paura di essere costantemente valutato e giudicato. La vera felicità non consiste forse nel tornare a incontrare l’innocenza di essere se stessi, di non doversi giustificare, di desiderare secondo il cuore senza sperare niente dalla mente?

Ci incamminiamo verso un nuovo Rinascimento verso un ritorno dell’Illuminismo. La nostra strada laterale sarà quella di una clandestinità rivendicata apertamente. Il pugno del guadagno ci colpisce dappertutto, colpiamo noi da tutte le parti per disintegrarlo!

La clandestinità comincia dentro di noi, nella “stanza buia” dove rimaniamo soli a discutere senza fine di quello che non vogliamo e di quel che desideriamo. Ci sveglia perché prendiamo coscienza delle nostre pulsioni di vita, dei piaceri che la stimolano, delle contrarietà che la rovesciano e la trasformano in pulsioni di morte.

Il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata è affermato tanto dall’anonimato dei gilet gialli quanto dall’anonimato che ogni individuo reclama quando si rifugia nella stanza buia dei suoi desideri segreti. Là dove si ritrova solo a decidere se unirsi al sistema di depredazione e al calcolo egoista dell’individualismo, oppure se scegliere di dedicarsi, meglio, alla trasformazione della sua sopravvivenza in una vita piena e completa.

In un suo lavoro, Fuenteovejuna, il drammaturgo Lope de Vega mette in scena gli abitanti di un villaggio che, stanchi della crudeltà di un iniquo governatore, lo ammazzano. I giudici e i boia incaricati di scoprire il colpevole, per quanto interroghino gli abitanti e le abitanti del villaggio, ricevono in risposta solo il suo nome, Fuenteovejuna. Poiché la guerra stanca, viene concessa un’amnistia generale.

L’anonimato che rivendicano gli individui in lotta per la loro autonomia solidale offre l’esempio di un’arma di vita, di una federazione di resistenze all’oppressione. Così come l’ostinazione dei gilet gialli ormai non ha bisogno di gilet per diffondersi, noi assistiamo alla presenza crescente di una vita che aspira a essere libera e non si preoccupa né di religioni, né di politica, né di strutture gerarchiche, statali e globali. La vita è innanzi tutto il fucile rotto che distrugge la reificazione e insegna a sabotare la trasformazione dell’essere nell’avere. Radicalizza il riformismo militante dissuadendolo dal permettere che il Potere che dice di combattere si incrosti in lui.

Ciò che è vivo porta in sé la fertilità del desiderio. Nessun deserto resisterà alla sua fecondità. Nella nostra intimità si configura la decisione di cancellare l’istante che appartiene al tempo della distruzione, del lavoro e della morte, per privilegiare il momento e il desiderio della vita che si manifesta nei piaceri dell’autenticità vissuta. Volete una prova alla rovescia? Osservate, mentre scrivo queste parole, la formidabile onda di nichilismo autodistruttivo che sommerge le società corrose dal cancro della rendita.

Do meno importanza all’adesione di una grande maggioranza che all’intelligenza degli individui autonomi, che è, grazie alla sua voglia di autenticità, l’antidoto all’intellettualismo intellettuale.

Lenta ma ineluttabile, la trasformazione della prospettiva illumina il rinnovamento e il luogo dove di compie la riunificazione dell’esistenziale e del sociale. La battaglia individuale e quella per una società autenticamente umana sono una stessa cosa.

La vita non ha bisogno né di padroni, né di culti religiosi, né di partiti.

Il piacere è la violenza pacifica del vivente che prolifera in noi e intorno a noi. Il piacere è la gratuità che ci ha conferito una coscienza capace di umanizzare quella violenza.

Ricostruiamo la Terra, facciamo dei nostri paesi, dei nostri quartieri e delle nostre regioni altrettante oasi che il vivente faccia tornare inespugnabili!


Questo articolo fa parte del libro Aprire l’impossibile, di Raoul Vaneigem, pubblicato da Comunizar (fratello di Comune). Nel numero 3/2025 della Revista Critica anticapitalista di Comunizar è apparso con il titolo completo Aboliamo la depredazione, torniamo alla nostra umanità. Chiamata alla creazione mondiale di collettività in lotta per una vita umana libera e autentica.


Traduzione per Comune di Marco Codebo.


1 Riferimento a Restos de Cœur o Restaurants du Cœur, traducibile come “Ristoranti del cuore”. Si tratta di un’organizzazione caritativa fondata in Francia, nel 1985, su iniziativa del comico Coluche per distribuire cibo e piatti pronti ai più poveri della società. È ancora in attività.
2 Come è discusso più avanti nel testo, nel significato del francese destinée è compreso un principio attivo, la capacità di creare se stessi ricreando il mondo.
3 “Viva la morte, muoia l’intelligenza!” fu il grido delle truppe fasciste di Franco durante l’assedio di Madrid. Si tratta di uno slogan coniato da José Millán Astray, primo tenente colonnello della Legione spagnola, durante un discorso di Miguel de Unamuno, rettore dell’università di Salamanca, in occasione della celebrazione del Día de la Hispanidad, nel 1936. Unamuno rispose al grido di Millán: “Vincerete ma non convincerete”.
4 “Terra di nessuno”, in inglese nell’originale.
5 “Uomo che si è fatto da sé”, in inglese nell’originale.

da qui

Robert Walser ~ Poesie

 

Precedute dal titolo Primizie liriche (Lyrische Erstlinge) furono pubblicate 1'8 maggio 1898 sull'edizione domenicale del quotidiano bernese «Der Bund»sei poesie. Ne era autore, informava in una nota il responsabile della pagina letteraria Josef Viktor Widmann, «un ventenne impiegato di commercio attivo a Zurigo», di cui venivano indicate le sole iniziali. Coincide con questo episodio il pubblico esordio letterario di Robert Walser. Altre poesie dello scrittore biennese vennero ospitate tra il 1899 e il 1907 su giornali e periodici svizzero-tedeschi, tedeschi e austriaci, fra i quali la rivista di Monaco «Die Insel», con i cui redattori - Otto Julius Bierbaum, Alfred Walter Heymel e Rudolf Alexander Schröder - Walser era entrato in contatto probabilmente tramite il viennese Franz Blei. Era apparso nel frattempo il primo suo libro, I temi di Fritz Kocher (Fritz Kochers Aufsätze, Leipzig 1904), cui seguirono i romanzi I fratelli Tanner (Geschwister Tanner, Berlin 1907) e L'assistente (Der Gehülfe, ibid. 1908). Fu a questo punto che l'autore decise di riunire in volume una parte delle poesie da lui composte nel periodo zurighese. Uscì così nel 1909, presso l'editore berlinese Bruno Cassirer, una raccolta di quaranta poesie, la maggior parte delle quali risalenti agli anni 1897-1900; i testi erano accompagnati da sedici incisioni del fratello Karl. Una ristampa fu condotta dal medesimo editore nel 1919; una ulteriore edizione (con l'aggiunta di due poesie) si ebbe a Basilea (Schwabe & Co.) nel 1944, a cura e con prefazione di Carl Seelig. 

Robert Walser nacque nel 1878 a Bienne (Svizzera); morì a Herisau (Canton Appenzello) il giorno di Natale del 1956. Un'ampia parte della sua opera in prosa è stata tradotta da Einaudi, da Adelphi, da Quodlibet e da A. Dadò ; la sua produzione poetica è stata pubblicata da Casagrande (Poesie). 

NELL'UFFICIO 

La luna guarda verso di noi,
vede me povero commesso 
languire sotto lo sguardo severo 
del mio principale. 
Mi gratto confuso il collo. 
Nella mia vita ancora non ho conosciuto 
una luce durevole. 
Essere carente è la mia sorte; 
doversi grattare il collo 
sotto lo sguardo del principale. 

La luna è la ferita della notte, 
gocce di sangue sono le stelle. 
Se anche rimango lontano dalla felicità 
per questo sono stato fatto modesto. 
La luna è la ferita della notte. 

PERCHÉ POI? 

Quando poi tornò improvviso
un tale limpido giorno 
egli parlò lentamente con risolutezza 
molto pacata e schietta: 
Ora deve cambiare, 
mi butto nella lotta; 
voglio come molti altri 
contribuire a eliminare dal mondo il dolore, 
voglio soffrire e vagare 
finché il popolo sarà libero. 
Non voglio mai più adagiarmi stanco; 
qualcosa deve 
accadere; ma a quel punto lo assalì un pensiero, 
un torpore leggero: lascia perdere! 

GLI ALBERI (I)
(Una ballata)
 

Non dovrebbero stringere i pugni, 
è il mio desiderio che si avvicina ad essi; 
non dovrebbero stare tutt'intorno così arrabbiati, 
il mio desiderio si avvicina timidamente ad essi; 
non dovrebbero essere come cani rabbiosi pronti all'assalto, 
quasi volessero distruggere il mio desiderio; 
non dovrebbero minacciare con larghe maniche, 
al mio desiderio ciò fa male. 
Perché si sono ad un tratto trasformati? 
Altrettanto grande e profondo è il mio desiderio.
È così difficile, così necessario: 
devo andare da essi e già vi sono. 

COME SEMPRE 

La lampada è ancora qui,
anche il tavolo è ancora qui e io sono ancora nella mia camera e il mio desiderio 
anela come sempre. 

Viltà, sei ancora qui? 
e, menzogna, anche tu?
Sento un oscuro sì: 
l'infelicità è ancora qui 
e io sono ancora nella mia camera 
come sempre. 

PAURA (1) 

Vorrei 
che le case si muovessero 
e si dirigessero verso di me,
sarebbe orribile. 

Vorrei 
che il mio cuore si torcesse 
e la mia mente rimanesse in silenzio,
sarebbe orribile. 

La cosa più orribile vorrei 
premerla contro il mio cuore. 
Desidero conoscere la paura, 
il dolore. 

RITORNO A CASA (1) 

Le mie guance bruciano con veemenza,
le mie labbra tremano ancora 
per aver consegnato il mio cuore a lei
desiderando parlarle; ogni mio discorso era
pieno di errori e di impedimenti, 
era petulanza, suono precipitoso.
Così era il mio parlare, ciò appare
ancora sulla guancia rossa 
che ora mi porto a casa. 
Abbasso il mio sguardo sulla neve
e passo davanti ad alcune case,
ad alcune siepi, ad alcuni alberi,
la neve orna siepi, alberi e case.
Passo davanti, lo sguardo abbassato
sulla neve, sulla mia guancia non c'è
nulla se non un colore rosso carico di ricordi
che mi rammenta la mia lingua confusa. 

PIÙ LONTANO 

Volevo fermarmi, 
una forza di nuovo mi spingeva più lontano
davanti ad alberi neri, 
proprio sotto alberi neri 
volevo brevemente fermarmi, 
una forza di nuovo mi spingeva più lontano 
davanti a verdi prati, 
proprio presso i verdi prati 
volevo un poco fermarmi, 
una forza di nuovo mi spingeva più lontano 
davanti a povere case, 
presso una di queste case
desidererei proprio fermarmi
considerando la sua povertà
e come il suo fumo adagio
sale verso il cielo, vorrei
ora a lungo fermarmi.
Dicevo questo e ridevo, 
il verde dei prati rideva,
il fumo saliva fumoso ridendo, 
una forza di nuovo mi spingeva più lontano. 

UN PICCOLO PAESAGGIO 

C'è un alberello sul prato 
e con esso molti alberelli graziosi. 
Una fogliolina trema nel vento gelido 
e con essa molte singole foglioline. 
Un mucchietto di neve scintilla sul bordo del ruscello 
e con esso molti mucchietti bianchi. 
Una piccola cima di montagna ride sulla valle 
e con essa molte basse cime. 
E in tutto questo c'è il diavolo 
e con lui molti poveri diavoli. 
Un angioletto volge altrove il suo viso piangente
e con lui tutti gli angeli del cielo. 

AMORE DI RAGAZZO 

La bella ragazza veniva innanzi, 
egli s'inginocchiò, mentre lentamente lei avanzava,
s'inginocchiò e prese a cantarle una canzone
sulle note di uno strumento a corda; 
con mestizia e sorridendo 
le rivelò il suo amore fedele; 
il suo cuore risuonò timidamente nella musica
che vibrava trepidante come l'amore, 
i suoi occhi fissarono la ragazza, 
i denti scintillavano nella bocca 
con cui tremante e supplicante egli cantava.
La canzone d'amore non aveva termine; 
senza fine, come il suo amore, usciva 
da lui la calda voce. 
Così egli rivelò il suo desiderio,
l'aria era dolce e piena di significati,
il cielo azzurro guardava dall'alto:
ma la ragazza fuggì via, 
era sparita e già anche moriva
la sommessa dichiarazione d'amore. 

LUCE OPPRIMENTE 

Due alberi sorgono nella neve, 
il cielo, stanco della luce, 
se ne va via e nei dintorni non c'è nulla
fuorché malinconia. 

E dietro gli alberi sporgono 
scure abitazioni. 
Ora si sente dire qualcosa, 
ora abbaiano dei cani. 

Adesso appare nella casa l'amata
lampada a forma di luna. 
Adesso la luce di nuovo si spegne,
è come se si aprisse una ferita. 

Com'è piccola qui la vita
e come grande è il nulla.
Il cielo, stanco della luce, 
ha dato tutto alla neve. 

I due alberi inclinano 
l'uno verso l'altro le loro teste.
Delle nubi attraversano in girotondo
la quiete del mondo. 

MI VEDETE 

Mi vedete camminare su prati
rigidi e spenti nella nebbia? 
Ho desiderio di una dimora, 
di una dimora non ancora raggiunta;
ed è lontana la speranza 
che un giorno io vi possa pervenire.
Verso tale dimora lontana 
rivolgo il mio desiderio, mai 
esso morirà come muore quel prato
rigido e spento nella nebbia. 
Mi vedete impaurito camminarci sopra? 

STANCHEZZA 

Portami via come sono;
guarda, la mia mente smarrita
allontana da sé questo mondo
che non la illumina più. 

Vieni, sarò buono 
e beatamente silenzioso 
nella tua densa luce, 
o sacro, o dolce sonno. 

(traduzione di Antonio Rossi) 

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sabato 30 agosto 2025

Smascherare i miti: sei falsità sui Nativi Americani da sfatare - Raffaella Milandri

Un viaggio emozionante nella verità storica e culturale dei Popoli Indigeni d’America, illuminato dalla letteratura e dal giornalismo engagé.

I Nativi Americani, popoli di straordinaria ricchezza storica e culturale, sono stati a lungo travisati da stereotipi riduttivi e narrazioni distorte che ne hanno offuscato l’identità. Cinema, letteratura popolare e immaginario collettivo hanno spesso ridotto comunità complesse e vibranti a caricature semplicistiche, perpetuando miti che negano la loro diversità, resilienza e contributi.

Grazie a una crescente produzione letteraria e giornalistica, come i libri di autori nativi e rubriche specializzate, tra cui Nativi su L’Antidiplomatico, possiamo oggi smascherare sei falsità radicate, riscoprendo l’eredità autentica dei Popoli Indigeni d’America. Attenzione, anche oggi risulta molto difficile divulgare la cultura dei Nativi Americani: il complesso di superiorità occidentale, in molti casi, dilaga ancora oscurando informazioni e praticando censure su molti giornali.

  1. I Nativi Americani sono un unico gruppo monolitico

L’immagine stereotipata di un “indiano” con piume e tomahawk è un’invenzione hollywoodiana. In realtà, i Nativi Americani comprendono oltre 570 tribù riconosciute negli Stati Uniti, ciascuna con lingue, tradizioni e storie uniche. I Navajo, celebri per la loro arte tessile e la cosmologia complessa, differiscono profondamente dai Cherokee, che svilupparono un sistema di scrittura sillabico grazie a Sequoyah nel 1821, dando vita al Cherokee Phoenix, il primo giornale nativo. Opere come The Heartbeat of Wounded Knee di David Treuer sottolineano questa diversità, mentre rubriche come questa esplorano le specificità culturali, storiche e di attualità di tribù spesso ignorate, contrastando l’immagine monolitica e riduttiva. 

  1. I Nativi Americani sono estinti

Il mito che i Nativi Americani appartengano solo al passato è smentito dai numeri: oltre 9 milioni di persone si identificano come Nativi Americani o Nativi dell’Alaska, secondo il Censimento USA del 2020. Le loro comunità sono vive, come dimostrano i Powwow, celebrazioni di danza e musica che riuniscono migliaia di nativi, o la rinascita della lingua Lakota nelle scuole tribali. Libri come There There di Tommy Orange raccontano la vitalità delle comunità native urbane, mentre gli articoli su Nativi evidenziano l’attivismo contemporaneo, come le lotte per la sovranità territoriale, dando voce a una resilienza che sfida ogni narrazione di estinzione. 

  1. Non avevano società avanzate prima del contatto con gli europei

L’idea di società “primitive” è confutata da prove archeologiche. La civiltà del Mississippi costruì Cahokia, una città con oltre 20.000 abitanti e una piramide alta 30 metri, tra il 900 e il 1350 d.C. Gli Anasazi, antenati dei Pueblo, svilupparono sistemi di canalizzazione nei deserti del Sud-Ovest, mentre gli Haudenosaunee crearono una confederazione politica sofisticata. Testi come 1491 di Charles C. Mann documentano queste conquiste, e articoli specializzati approfondiscono il genio architettonico e politico dei Nativi, smontando il pregiudizio coloniale di superiorità europea. 

  1. I Nativi Americani erano solo nomadi primitivi senza sistemi agricoli avanzati

L’immagine del nativo come cacciatore nomade ignora le innovazioni agricole di molte tribù. Gli Haudenosaunee coltivavano le “Tre Sorelle” (mais, fagioli, zucca) con tecniche di policoltura sostenibile, mentre gli Hopi usavano sistemi di irrigazione per coltivare in ambienti aridi. Il mais, originario delle Americhe, ha rivoluzionato l’agricoltura globale. Scrittrici come Robin Wall Kimmerer, in Braiding Sweetgrass, celebrano la saggezza ecologica nativa, e raccontano come queste pratiche agricole siano ancora modello di sostenibilità, smentendo l’idea di primitivismo.

  1. I Nativi Americani erano intrinsecamente violenti e ostili agli europei

La narrazione del “selvaggio ostile” è una distorsione coloniale. I Wampanoag accolsero i Pellegrini nel 1621, condividendo risorse che resero possibile il primo Thanksgiving. I conflitti, come il massacro di Sand Creek del 1864, dove truppe USA uccisero 150 Cheyenne e Arapaho, furono spesso provocati da violazioni di trattati. Opere come Bury My Heart at Wounded Knee di Dee Brown documentano queste ingiustizie, mentre qui analizziamo la diplomazia nativa, come i trattati degli Haudenosaunee, evidenziando una tradizione di pace oscurata da narrazioni faziose. 

  1. I Nativi Americani non hanno contribuito alla cultura moderna degli Stati Uniti

I Nativi Americani hanno plasmato profondamente la cultura americana. La Costituzione USA si ispirò al sistema confederale degli Haudenosaunee, un modello di democrazia partecipativa. Parole come “moose” e “hurricane” derivano da lingue native. Figure come l’artista Navajo R.C. Gorman o l’attivista Winona LaDuke hanno lasciato un’impronta nell’arte e nell’ecologia, mentre il movimento di Standing Rock contro il Dakota Access Pipeline ha ispirato il mondo. Autori come Louise Erdrich, con romanzi come Love Medicine, e tanti articoli dimostrano l’influenza viva dei Nativi, smentendo chi ne nega il ruolo. 

Un invito alla scoperta attraverso la letteratura e il giornalismo 

Smascherare queste falsità è un atto di giustizia storica e culturale, reso possibile dalla potenza della letteratura nativa e del giornalismo indipendente. Libri come quelli di Sherman Alexie o Leslie Marmon Silko, insieme a rubriche come Nativi, ci guidano verso una comprensione autentica, celebrando la resilienza e la creatività dei Nativi Americani. La loro storia non è solo un racconto di sopravvivenza, ma una lezione di umanità che continua a ispirare. Immergiamoci in queste narrazioni per riscoprire un’eredità che appartiene al mondo intero.

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L'Unione Europea vuole mandare i soldati in Ucraina, ma li chiamano addestratori - Danilo Torresi

 

venerdì 29 agosto 2025

La Germania (e l'Europa) si trasforma nell'Ucraina - Nicolai Lilin


I problemi della scuola italiana - Davide Rossi

 

(da https://strategic-culture.su)

A settembre si aprirà un nuovo anno scolastico, l’istruzione pubblica italiana ha quasi due secoli e purtroppo li dimostra tutti.

La legge Casati del 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, entra in vigore nel 1861 con valore per tutto il territorio italiano allora appena unificato, organizzando il sistema d’istruzione italiano e rimanendo in vigore fino al 1923, quando verrà superata dalla riforma Gentile.

La legge Casati stabiliva quattro anni di scuola elementare, i quali diventeranno cinque con la legge Coppino del 15 luglio 1877 n. 3961, la quale introdurrà l’educazione civica e l’educazione fisica, di fatto aprendo la strada da un lato allo stanziamento di fondi statali a supporto dei Comuni per l’edificazione di nuove scuole e dall’altro alla costituzione di un fondo pensionistico statale per le maestre e i maestri.

Le elementari in quei tempi hanno un successivo grado d’istruzione, per i pochi abbienti e gli ancor meno numerosi fortunati meritevoli, rappresentato da un doppio triennio tecnico oppure dal percorso quinquennale ginnasiale, il solo ad ammettere al triennio liceale e infine all’università. Uscendo dal sessennio tecnico, purché si fosse frequentato l’indirizzo fisico-matematico, si poteva accedere alla sola facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali.

Delle elementari i primi due anni avrebbero dovuto essere obbligatori e gratuiti, organizzati dai Comuni, con personale da loro reperito, selezionato e remunerato e in spazi ugualmente gratuiti forniti dalle Amministrazioni stesse, tuttavia la parte preponderante dell’Italia d’allora è rappresentata da zone povere e rurali che spesso tardavano l’applicazione della legge per decenni, le classi dominanti preferivano invece l’istruzione parentale, ammessa dalla legge, per poi destinare i figli direttamente ai ginnasi.

I Comuni più vergognosamente sfacciati sanzionavano i poveri che mandavano i figli a lavorare, non per disamore della scuola e della cultura, ma per necessità di mettere insieme il pane della giornata, poi con quelle multe pagavano i maestri e le maestre che insegnavano ai figli della borghesia, impiegati, piccoli artigiani e commercianti, i quali non potevano permettesi l’istruzione privata parentale dei ricchi. Il nascente movimento proletario, protestando ferocemente contro questa palese ingiustizia, otterrà che tali sanzioni venissero vincolate all’acquisto di materiale didattico da mettere a disposizione dei figli dei poveri, operai e contadini, per permetterne la frequenza che timidamente incominciava tra la fine dell’Ottocento e gli albori del Novecento, in particolare nelle grandi città come Torino e Milano, grazie anche a sindaci marxisti aderenti al socialismo riformista di Turati e di Treves. Edmondo De Amicis ha raccontato questo primo anelito di giustizia sociale e di libertà costruito sui banchi di scuola, non è ancora un’uguale ammissione al sapere, ma l’inizio di un cammino restituito con toccante emozione nelle pagine del libro “Cuore”. Per altro in isole sperdute e dimenticate, come ad esempio a Ustica, mai nessuno si porrà il problema dell’istruzione, saranno i comunisti Antonio Gramsci e Umberto Terracini, colà spediti al confino dal fascismo mussoliniano, a colmare questa triste lacuna, organizzando la prima rudimentale scuola, insegnando a leggere, a scrivere e a far di conto a tutti gli isolani di buona volontà, piccoli e grandi, bambini, ragazzi e adulti, alla fine degli anni ‘20 del XX secolo.

Quanto all’università, la legge Casati contemplava solo le seguenti facoltà: giurisprudenza, medicina, lettere e filosofia, scienze fisico – matematiche e naturali, con una scuola di applicazione per la formazione degli ingegneri, della durata di tre anni, alla quale si accedeva dopo aver frequentato il primo biennio della facoltà scientifica.

Nel momento dell’unità d’Italia, ovvero in un quadro geografico che escludeva Veneto (aggregato nel 1866), Trentino – Alto Adige (1919) e Friuli Venezia Giulia (1919) al censimento del 31 dicembre 1861 risultavano ventidue milioni di italiani, di cui tre milioni in Lombardia e due milioni in Piemonte, ovvero poco meno di un quarto del totale degli abitanti del neonato stato regnicolo.

Oggi sul territorio italiano vivono cinquantanove milioni di donne e uomini di cui un decimo stranieri, ovvero sei milioni, in Piemonte la popolazione è di quattro milioni e duecentomila persone, in Lombardia di dieci milioni.

Nel 1861 nella penisola l’80% dei cittadini era analfabeta, oggi fortunatamente più nessuno, ma, a quanto dicono le statistiche, un terzo degli italiani, avendo difficoltà a comprendere un testo di media difficoltà, è da ritenersi analfabeta funzionale.

Triste situazione per una scuola che da un ottantennio è figlia della Repubblica nata dalla Resistenza, la quale avrebbe garantito certo l’istruzione per tutte e tutti, forse per lunghi anni un po’ troppo democristianamente, ma certo oggi dimenticando sempre più spesso che proprio gli strumenti culturali di comprensione e costruzione dei saperi sono fondamentali per la formazione, non solo del lavoratore, ma prima di tutto del cittadino.

Scuole primarie e secondarie di primo grado statali, principalmente riunite in Istituti Comprensivi sono, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione e del Merito di via Trastevere in Roma, su tutto il territorio nazionale isole comprese, in questo 2025 in totale 4890, di cui 351 piemontesi e 755 lombarde, per un totale di 1106 istituzioni scolastiche, pari al 22% del totale, le superiori invece su tutto il territorio nazionale sono 2583, per un numero complessivo di tutto il sistema d’istruzione che vede 7473 istituzioni scolastiche, alle quali, sommando i 127 CPIA, Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, di fatto le scuole per l’alfabetizzazione e per il conseguimento del diploma del primo ciclo di studi per gli stranieri, si giunge a 7600 istituzioni scolastiche per un milione di lavoratori docenti e ATA e sei milioni e trecentomila discenti, tuttavia distribuiti in ben quarantamila strutture scolastiche

Ai tempi della legge Casati le scuole elementari erano 28.500, ma si devono immaginare scuole con poche decine di studenti, soprattutto nei Comuni più piccoli, per un totale di un milione di studenti, la media è infatti di 35 bambine e bambini e ragazze e ragazzi per ogni singola scuola, oggi sono in media ben 830 discenti per ogni singola istituzione scolastica, ma 158 per ogni singola struttura scolastica, ovvero in media cinque plessi fanno capo a una unica dirigenza e i lavoratori formano un unico collegio docenti e un solo collettivo per gli amministrativi, tecnici e ausiliari. Anche l’attuale situazione delle strutture scolastiche è deprimente, di quarantamila, almeno la metà hanno necessità di lavori di manutenzione, sono spesso vecchie d’un secolo e quelle costruite negli anni ‘60 e ‘70 del Novecento con vetro e cemento non godono di migliore condizione, tuttavia neppure i fondi del PNRR son stati immaginati utili per rinnovare tanto le scuole, quanto gli ospedali, così come tali edifici, spesso freddi d’inverno nonostante il riscaldamento, poi d’estate, ovvero da maggio, diventano difficilmente vivibili, dimostrando l’assurdità della proposta di taluni di tenerle aperte a luglio e ad agosto, ma facendo risultare più ragionevole piuttosto la proposta di tornare ad aprire i battenti delle scuole il 1° ottobre, come accaduto fino all’anno scolastico 1976 – 77.

Restando nei termini statistici, ai tempi di Casati in Piemonte vi erano ottomila cinquecento scuole con ben trecentosessantamila studenti, in Lombardia settemila scuole con trecentomila studenti. Dunque le due regioni, con quindicimila cinquecento scuole avevano il 55% di tutte quelle presenti nella penisola, il dato interessante è constatare come il Piemonte pur avendo un terzo in meno di abitanti, avesse un numero superiore di scuole, un portato di come l’obbligo scolastico introdotto in Lombardia nella seconda metà del ‘700 da Maria Teresa d’Austria fosse stato in quel tempo surclassato da quello piemontese, risalente solo alla concessione dello Statuto Albertino nel 1848 di pochi anni precedente.

Il docente Emilio Sabatino, fondatore e per lunghi anni segretario nazionale del SISA, Sindacato Indipendente Scuola e Ambiente, oggi direttore di ScuolaNews24, una serie di canali social tra i più seguiti dal personale scolastico italiano, riconosce che il vero problema della scuola non siano le riforme, giuste o sbagliate, degli ultimi trent’anni, sebbene queste in molti casi abbiano prodotto tagli di personale e di fondi, ma la feroce aggressione all’età pensionabile, cinquant’anni fa il sistema scolastico italiano era tra i migliori del mondo semplicemente perché in cattedra sedevano solo le maestre e i professori che veramente volevano restare a contatto con i ragazzi, oggi una pletora di insegnanti con anche oltre trent’anni di lavoro alle spalle, sono costretti o ad arrivare a 67 anni oppure, ancora peggio, a raggiungere i 42 anni di servizio perché secondo Bruxelles è colpa loro se hanno iniziato a fare i docenti da giovani, non è un caso che le statistiche europee affermino con tutta evidenza che il primo problema della scuola italiana sia l’età degli insegnanti, i quali sono a tutti gli effetti e a onore di ogni statistica i più vecchi, i meno pagati, i più stanchi e i più disillusi di tutta l’Unione Europea.

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giovedì 28 agosto 2025

L’Impero presenta il conto: e l’Europa paga - Marco Pondrelli

L’Europa come Colonia: l’accordo USA-UE e il fallimento della nostra classe dirigente

L’accordo, che al momento non è tale in quanto ancora in attesa dell’approvazione da parte dei governi europei, tra Stati Uniti e Unione Europea ha avuto almeno un merito: quello di compattare, per una volta, l’intero arco politico italiano in un giudizio fortemente negativo. Ursula von der Leyen, ricevuta dopo una partita di golf come fosse una lobbista qualsiasi, ha mostrato tutti i limiti di una leadership che da tempo appare più subordinata che sovrana.

Le goffe precisazioni della Commissione Europea non bastano a cambiare la sostanza: l’accordo con Washington con ogni probabilità sarà ratificato, infliggendo un colpo durissimo all’industria e all’autonomia economica del nostro continente.

La sintesi più efficace di questo patto coloniale l’ha offerta Stefano Fassina su il Fatto Quotidiano del 29 luglio: dazi generalizzati al 15%, che, tenendo conto della svalutazione del dollaro, arrivano a un impatto reale del 30% (con punte del 65% su acciaio e alluminio fuori quota); una spesa annuale aggiuntiva di 250 miliardi per acquistare gas naturale liquefatto statunitense a prezzi ben più alti di quelli Gazprom; 600 miliardi di nuovi investimenti europei negli USA; 300 miliardi l’anno in armamenti made in USA come deciso al recente vertice NATO; obbligo di acquisto di chip per l’intelligenza artificiale da fornitori statunitensi; disapplicazione di fatto del Digital Market Act e del Digital Services Act, rinuncia alla digital tax, ed esclusione delle Big Tech USA dalla minimum global tax del G7.

La Commissione si è affrettata ad assicurare che, nonostante l’impegno triennale nell’acquisto del gas (per un totale di 750 miliardi), il Green Deal rimane “intatto”. Una rassicurazione che suona come un’ammissione di alienazione dalla realtà.

Un’economia già sbilanciata verso Washington

Già oggi, sul piano macroeconomico, l’Unione Europea pur vantando un surplus commerciale nei beni, importa servizi ad alto valore aggiunto e continua a esportare capitali verso gli Stati Uniti. Se nel secondo dopoguerra l’Impero fu abbastanza magnanimo da consentire lo sviluppo di una sua colonia industrializzata, oggi — di fronte a una crisi sistemica interna — quella colonia è chiamata a pagare il conto.

In questo contesto, è grottesco assistere alle dichiarazioni di un’opposizione parlamentare — a partire dal Partito Democratico — che non ha mai realmente messo in discussione l’asse atlantico, votando per ben due volte la fiducia a von der Leyen e opponendosi anche recentemente alla mozione di sfiducia.

I media, che solo pochi giorni fa bollavano come “putiniana” ogni critica alla Presidente della Commissione, oggi la attaccano ferocemente. Che stia diventando putiniano anche chi la critica ora? L’ironia si spreca, ma il danno resta.

Il conto salato della subalternità strategica

Il vero problema, però, non è (solo) von der Leyen. Il punto è un’intera architettura politico-economica che ha reso l’Europa subordinata agli interessi di Washington. Gli Stati Uniti — e non soltanto l’ala trumpiana — intendono rilanciare la propria manifattura e sostenere il proprio debito pubblico scaricando i costi sulla Ue.

Come ha scritto Stefano Manzocchi su Il Sole 24 Ore (29 luglio):

“La politica di mera potenza che si sta imponendo come unica bussola delle relazioni internazionali comporta che le debolezze strutturali dell’Europa siano esposte a fronte dei piani elaborati dalle leadership degli ‘imperi’ globali”.

Le alternative ci sono. Serve coraggio politico

Eppure, un’altra strada è possibile. Ecco alcune scelte concrete:

  1. Tornare a comprare gas russo: Riaprire un dialogo di partenariato con Mosca, lavorare per la fine del conflitto in Ucraina e porre fine all’assurdo auto-sabotaggio energetico. Slegarsi dalla Russia ci ha solo legati mani e piedi agli USA, con costi quadruplicati e competitività industriale in picchiata.
  2. Aprirsi ai mercati asiatici, a partire dalla Cina: L’Italia è uscita in fretta e furia dalla Via della Seta, per poi tornare a Pechino col cappello in mano. In Cina esiste una classe media tra i 400 e i 600 milioni di persone, più dell’intera popolazione europea. Le nostre imprese hanno ancora voglia di vendere prodotti o solo di piangere sui mercati perduti?
  3. Rilanciare i consumi interni: Questo significa alzare salari e stipendi. Serve un’inversione radicale rispetto alle politiche degli ultimi 30 anni: basta con privatizzazioni, tagli al welfare, liberalizzazioni selvagge, compressione dei redditi da lavoro. Serve un piano per redistribuire ricchezza e ridare dignità al lavoro.

Un progetto di lungo periodo. Come quello degli Stati Uniti.

Il rilancio della manifattura americana non è un episodio estemporaneo: è un progetto strutturale. Anche l’Europa e l’Italia possono dotarsi di una strategia a lungo termine, ma serve un cambiamento radicale. Oggi i leader europei sembrano più simili a funzionari imperiali, pronti a svendere le loro nazioni pur di conservare potere e posizioni.

Ma proprio perché il panorama appare così desolante, è più che mai necessario pensare l’impensabile, dire l’indicibile e costruire ciò che ancora non esiste. L’Europa ha bisogno di tornare a pensare se stessa come un soggetto politico autonomo, dall’Atlantico agli Urali, capace di agire non in funzione degli interessi altrui. Non ci si può limitare ad accusare singoli leader o partiti — per quanto colpevoli — se non si mette radicalmente in discussione l’impianto stesso che ha reso l’Europa un’appendice dell’Impero.

Per questo serve un progetto politico di lungo periodo, una visione che sappia unire consapevolezza geopolitica, giustizia sociale ed emancipazione economica. Non bastano i lamenti né le nostalgie: serve organizzare il dissenso, canalizzare la rabbia, dare voce e struttura a chi oggi si sente tradito, ignorato, marginalizzato.

Abbiamo ancora tempo per cambiare rotta. Ma il tempo stringe. E l’illusione che il sistema possa autoriformarsi sta crollando insieme alle sue contraddizioni. Il nostro compito, oggi, è duplice: denunciare con lucidità, ma anche immaginare con coraggio. L’alternativa esiste, anche se oggi è minoritaria e dispersa. Tocca a noi unirla, darle voce, costruirla.

Perché l’Europa non è destinata alla subalternità. Lo è solo se sceglie di esserlo.

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Gaza: La soluzione finale - Domenico Gallo

 

Il 21 agosto è stata avviata dall’esercito israeliano una nuova offensiva militare, denominata “Carri di Gedeone 2” con l’obiettivo di occupare Gaza City, dove si troverebbero ancora circa 800.000 persone, e di procedere alla deportazione forzata di tutti gli abitanti verso il sud della Striscia. Per l’attuazione di questo piano sono stati mobilitati circa 60.000 riservisti. Mentre scriviamo i carri armati israeliani stanno avanzando nel centro di Gaza City e ci sono stati già centinaia di morti per gli intensi bombardamenti. Il 22 agosto il ministro della Difesa, Israel Katz ha meglio specificato le intenzioni di Israele, minacciando che se Hamas non libererà gli ostaggi e non si arrenderà «si apriranno le porte dell’inferno». Nella serata del 23 agosto il ministro delle Finanze Smotrich ha confermato l’obiettivo di ripulire la città di tutti i suoi abitanti ribadendo la necessità di «assediare Gaza city» e aggiungendo che chi non evacua «può morire di fame o arrendersi». Contemporaneamente all’annuncio della nuova offensiva militare su Gaza lo stesso ministro Smotrich ha annunziato una ulteriore espansione degli insediamenti dando il via libera a un piano che prevede la costruzione di 3.400 unità residenziali e strutture connesse nell’area denominata E1, un’area a nord-est di Gerusalemme. In questo modo verrebbe ulteriormente frammentato il territorio della Cisgiordania separando la zona a nord (Jenin Ramallah) dalla zona a sud (Betlemme – Hebron). Smotrich si è compiaciuto del progetto dichiarando: «Lo Stato palestinese viene cancellato, non con gli slogan, ma con i fatti. È un altro chiodo nella bara di questa pericolosa idea». Dal canto suo Netanyahu ha dichiarato, il 10 agosto, che la nuova offensiva contro Gaza City ha l’obiettivo di porre fine alla guerra «in tempi relativamente brevi».

Se si mettono insieme questi due fronti, l’inferno di Gaza e la continua appropriazione della Cisgiordania, appare evidente che il Governo teocratico israeliano sta accelerando verso l’obiettivo finale: portare a compimento la conquista della terra promessa adempiendo a una missione fondata sul diritto biblico. Nel libro di Giosuè è scritto che Dio promise agli Israeliti la terra: «dal deserto e dal Libano fino al fiume grande, il fiume Eufrate, tutto il paese degli Ittiti fino al Mar Mediterraneo» (Giosuè, 1: 4). Del resto il capitolo 7 del Deuteronomio si apre con parole durissime relative al comando di presa di possesso della terra promessa: «il signore tuo Dio avrà messo le nazioni che vi vivevano in tuo potere e tu le avrai sconfitte e votate allo sterminio. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei loro confronti non avrai pietà». Il gruppo dirigente paranoico che guida il Governo di Israele è convinto di aver ricevuto un mandato biblico per impossessarsi della terra che va dal fiume al mare, liberandosi dei palestinesi votati allo sterminio. Se Israele fonda la sua legittimità sul diritto divino, la sua vocazione messianica non può certo essere ostacolata dal diritto umano, tanto meno da quella branca debole del diritto pubblico che è il diritto internazionale.

Siamo al paradosso di uno Stato, nato in virtù di una deliberazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (la 181 del 29 novembre 1947) che gli attribuiva la sovranità su una parte del territorio della Palestina mandataria, essendo l’altra parte destinata alla nascita di uno Stato palestinese, che si è completamente svincolato dai costumi e dai meccanismi che regolano le relazioni fra le Nazioni, in virtù di una fonte di legittimazione metastoricaFin dalla sua fondazione Israele ha agito, legibus solutus, violando la Carta dell’ONU, le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, le deliberazioni dell’Assemblea Generale, le Raccomandazioni e le linee guida degli organi ausiliari della Nazioni Unite. Israele ha violato tutti i Trattati relativi ai diritti umani, specialmente quelli relativi al Diritto bellico, come la IV Convenzione di Ginevra del 1949 e le norme di ius cogens ribadite dai due Protocolli aggiuntivi del 1977. Con la vicenda di Gaza, siamo arrivati al punto estremo, alla violazione impudente della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, il primo e fondamentale strumento adottato dall’ONU il 9 dicembre 1948 per la protezione del genere umano in quanto tale. Lo scopo della Convenzione, non è quello di punire il genocidio, ma di far si che fatti di genocidio non debbano verificarsi mai più.

Di fronte al ricorso del Sud Africa che ha contestato a Israele la violazione della Convenzione dinanzi alla Corte di Giustizia dell’ONU, la Corte con ordinanza del 26 gennaio 2024, ha ritenuto plausibile il rischio di genocidio e per prevenirlo ha imposto a Israele di «adottare tutte le misure in suo potere per impedire la commissione di tutti gli atti che rientrano nel campo di applicazione dell’articolo II di tale Convenzione, in particolare: a) l’uccisione di membri del gruppo; b) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; c) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale». Inutile dire che Israele non si è conformato alle misure richieste, che sono state inutilmente ribadite dalla Corte con ordinanze del 28 marzo e del 5 aprile. Con l’ordinanza del 24 maggio 2024, ritenendo che la situazione derivante dall’offensiva militare israeliana a Rafah comportasse un ulteriore rischio di pregiudizio irreparabile ai diritti dei palestinesi la Corte dell’Aia ha adottato ulteriori misure provvisorie. Nello specifico, ha stabilito che: «lo Stato di Israele, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, e in considerazione del peggioramento delle condizioni di vita dei civili nel governatorato di Rafah, dovrà: […] fermare immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel governatorato di Rafah che possa infliggere al gruppo palestinese di Gaza condizioni di vita che potrebbero portare alla sua distruzione fisica, totale o parziale; […] mantenere aperto il valico di Rafah per la fornitura senza ostacoli di servizi di base e assistenza umanitaria urgentemente necessari; […] adottare misure efficaci per garantire l’accesso senza ostacoli alla Striscia di Gaza di qualsiasi commissione d’inchiesta, missione d’indagine o altro organo investigativo incaricato dagli organi competenti delle Nazioni Unite di indagare sulle accuse di genocidio […]». Poiché le misure atte a impedire il genocidio sono state apertamente violate, da più di un anno sono in corso azioni genocidiarie da parte di Israele, che si sono progressivamente aggravate fino all’ultima svolta di questi giorni che apre un nuovo girone infernale.

L’aspetto più atroce sono le azioni volte a infliggere condizioni di vita alla popolazione di Gaza che potrebbero portare alla sua distruzione fisica totale o parziale, prima di tutto la fame, causata dal prolungato blocco dei rifornimenti di cibo ed altri beni essenziali per la vita. Adesso la carestia a Gaza è stata anche formalmente certificata dall’ONU. Il rapporto dell’IPC, l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), un organismo sostenuto dalle Nazioni Unite responsabile del monitoraggio della sicurezza alimentare, afferma che la carestia a Gaza è stata causata dai combattimenti e dal blocco degli aiuti, e amplificata dagli sfollamenti diffusi e dal collasso della produzione alimentare, portando la fame a livelli pericolosi per la vita in tutto il territorio dopo 22 mesi di guerra. Nel rapporto si afferma che i livelli di malnutrizione, in particolare fra i bambini, sono aumentati drasticamente negli ultimi mesi nella prima carestia conclamata del Medio Oriente. «Si prevede che entro giugno 2025 (ma adesso siamo ad agosto) almeno 132.000 bimbi sotto i cinque anni soffriranno di malnutrizione acuta, il doppio rispetto alle stime dell’IPC di maggio. Ci sono oltre 41.000 casi di bambini ad alto rischio di morte e circa 55.500 donne incinte e in allattamento risultano malnutrite e richiedono urgentemente cibo e assistenza. «Dopo 22 mesi di conflitto incessante, oltre mezzo milione di persone nella Striscia di Gaza si trova ad affrontare condizioni catastrofiche caratterizzate da fame, miseria e morte», si legge ancora nel documento. Si prevede che questo numero, salirà a quasi 641.000 persone, quasi un terzo della popolazione, entro la fine di settembre. Al 24 agosto, secondo un comunicato del Ministero per la salute di Gaza, sono 289 i palestinesi morti per fame, fra cui 115 bambiniAlla stessa data il numero delle vittime è stato aggiornato in 62.686 morti e 157.951 feriti. In questo numero non sono comprese le 20 vittime, fra cui 5 giornalisti, del bombardamento dell’Ospedale di Khan Younis avvenuto il giorno dopo. Anche la ricerca disperata del cibo è diventata una trappola mortale. Da quando alla fine di maggio è stato istituita la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), le vittime tra chi cercava assistenza sono salite a 2.095, con più di 15.431 feriti.

Aprendo questo ulteriore girone infernale, con l’assedio e la distruzione fisica di Gaza City, Israele dimostra di non avere alcuna intenzione di fermarsi e di puntare alla “soluzione finale” del problema palestinese. Ma, in realtà, la soluzione finale non esiste. Anche se Israele ripulisse da ogni presenza palestinese la metà nord della Striscia di Gaza, rinchiudendo i superstiti nel Sud trasformato in un enorme lager, questa popolazione non potrebbe essere “smaltita”, né con la fame, né con le bombe, né con la deportazione in altri paesi. Una fetta della popolazione sopravviverebbe. Lungi da diventare una riviera per ricchi, la Striscia di Gaza resterebbe come una ferita purulenta, impossibile da curare. Ugualmente in Cisgiordania, l’espansione degli insediamenti non potrebbe far sparire la popolazione palestinese. I chiodi nella bara dello Stato palestinese, sono, in realtà dei chiodi che Israele ha inflitto a sé stesso. La soluzione due popoli per due Stati, con uno Stato palestinese ridotto sul 22% del territorio della Palestrina mandataria, rappresentava una grande opportunità per Israele per assicurarsi la convivenza pacifica con la popolazione palestinese, senza pagare pegno per la Nakba. La cancellazione della possibilità di uno Stato palestinese con la politica dei fatti compiuti, portata avanti da 58 anni, condanna Israele a diventare uno Stato di apartheid come lo fu il Sud Africa.

Di fronte all’impossibilità di realizzare qualunque soluzione della questione palestinese, cresce la violenza e si aggravano le azioni genocidiarie, come dimostrano i fatti di questi ultimi giorni. Non c’è più tempo, il genocidio in corso chiama in causa la coscienza morale dell’umanità. Di fronte a un genocidio che va avanti con un continuo crescendo, non si può rimanere indifferenti: o si agisce per fermare Israele o si è complici. La Palestina non ha bisogno di parole ipocrite di commiserazione da parte della leadership dei paesi occidentali, sostenitori sul piano economico, politico e militare delle azioni del Governo israeliano. In particolare deve essere denunciata la complicità del Governo italiano, che continua il sostegno militare a Israele rifiutando persino di ritirarsi dal Memorandum di collaborazione militare stipulato il 16 giugno 2003, ratificato con la legge n. 94/2005, e si oppone in sede europea a ogni sanzione a Israele.

L’indignazione dei cittadini italiani per le atrocità commesse in Palestina si deve trasferire nei confronti dei responsabili politici, complici del genocidio nella misura in cui non fanno niente di quanto in loro potere per arrestare la macchina di morte azionata dal Governo israeliano Grande è la frustrazione ma anche la volontà di reagire della società civile. Le iniziative si moltiplicano. È importante l’iniziativa della Coalizione internazionale Freedom Flotilla, che farà partire il 31 agosto una flotta di imbarcazioni, cariche di aiuti umanitari, con l’obiettivo di rompere l’embargo disumano ed illegale imposto da Israele alla popolazione della Striscia. Sono in corso delle iniziative per rimettere in gioco l’ONU e consentire il superamento del prevedibile veto USA nel Consiglio di sicurezza, con il ricorso alla procedura Uniting for Peace, attivabile quando il Consiglio di Sicurezza non riesce a mantenere la pace e la sicurezza internazionale perché paralizzato dal diritto di veto di uno dei suoi membri permanenti. In questi casi è possibile la convocazione di una speciale sessione di emergenza dell’Assemblea generale che può raccomandare delle misure collettive, anche di carattere coercitivo. A questo proposito, il 21 agosto, è stata inviata una lettera collettiva (prima firmataria Luisa Morgantini) al ministro degli Esteri, sollecitandolo a richiedere delle misure d’emergenza al Consiglio di sicurezza, facendo ricorso – in caso di blocco – alla procedura Uniting for Peace.

Ma la strada principale per fermare Israele rimane sempre quella di rompere la tradizione di impunità che alimenta il senso di onnipotenza dei governanti israeliani. Occorre che soprattutto i paesi tradizionalmente alleati e sostenitori di Israele pongano fine a ogni forma di sostegno, politico, militare, finanziario, attraverso sanzioni adeguate. Le recenti dimissioni del ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp, a fronte del rifiuto del suo Governo di adottare delle sanzioni contro Israele, hanno scoperchiato il verminaio delle complicità istituzionali ed aprono una contraddizione all’interno degli apparati di governo, mettendo a nudo l’insostenibile ipocrisia di una politica che lascia correre il genocidio, voltandosi dall’altra parte.

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