mercoledì 24 luglio 2013

Il cuore muto – Sergio Pent

un libro che non ti aspetti, una storia con cinema, muto, contestazione anni '70, amore, fascisti, e tante altre cose, a Torino, mescolate e scritte in modo che non ti annoi un minuto.
bello, da cercare, e leggere, sopratutto, nessuno se ne pentirà, promesso - franz



Per coinvolgere il lettore, per appassionarlo, per tenerlo incollato alla pagina, non è necessario - tuttavia - rinunciare ad altre caratteristiche essenziali, quali il valore intrinseco della prosa, la trasmissione di un messaggio più o meno recondito, la suggestiva rappresentazione della realtà. 
Con “Un cuore muto”, pubblicato nel 2005 dalla casa editrice E/O, Sergio Pent - scrittore e noto critico letterario - riesce a coniugare la duplice esigenza di coinvolgere il lettore e fare buona letteratura. Pent racconta una storia complessa avvalendosi di una scrittura intensa senza abbandonarsi ai pleonasmi narcisistici di certa letteratura barocca autoreferenziale. Così come per il precedente romanzo, “Il custode del museo dei giocattoli”, in “Un cuore muto” l’autore elabora una complessa struttura narrativa valorizzata dall’ausilio di differenti piani temporali che attraversano la storia del Novecento italiano: dalle origini del cinema muto alle efferatezze del fascismo, dagli anni di piombo del post-sessantotto alle contraddizioni della società globalizzata…

…L'io narrante, insomma, sposa la sentenza dell'amato Grande Gatsby − "Così continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinte senza posa nel passato" − e così la chiosa: "È questo che mi accade, ogni volta che guardo indietro. Perché quel che mi aspetta, per tanto che sia, non sarà mai più importante come quel poco che ho perso, senza appello". La perdita della ragazza amata si lega alla perdita, l'anno seguente, delle residue illusioni di accesso al mondo di Cinecittà; fine della giovinezza come fine delle ambizioni, dunque: la frase memoranda di Norma, "il tempo non ci aiuta a capire, ma solo a ricordare", martella nella sua mente nella parte "in cornice" del romanzo, ambientata nel 2001, quando decide di rivedere, al Museo del cinema della Mole Antonelliana, l'unico film superstite di Norma D'Abate, di ritrovarne la prodigiosa seduttività nelle immagini bolse di Rapiti dal destino.
In fondo, il suo è un percorso speculare a quello di Norma, che lasciò il cinema per essere buona moglie di un marito mediocre, per cicatrizzare il ricordo delle violenze subite da Valmorin e della perdita di un "figlio della colpa" che l'amante le sottrae alla nascita. Per la complicità creatasi durante l'intervista, Norma chiederà all'io narrante di improvvisarsi detective e andare sulle tracce dell'amante e del figlio perduto: ed è la parte in cui il talento comico di Pent dà la miglior prova di sé (memorabile la visita all'ospedale psichiatrico!). Il resto del romanzo è invece sospeso tra quieta elegia e sdegno frenato, in un tono che si nutre di salutare ironia e autoironia ma che indulge, forse un po' troppo, alla tentazione gnomica…
da qui

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