giovedì 21 gennaio 2016

Cercare di morire a 12 anni – Alessandro Spedicati

 “Quando andavo a scuola da bambino, la gente nella classe mi chiamava marocchino, terrone. Muto, torna un po’ da dove sei venuto, è questa la prima roba che ho imparato in assoluto”.
Quando ascolto “Lo Straniero” dei Sangue Misto - e mi capita spesso - e arrivo a questa frase, la recito a denti stretti e, per un attimo, il mio sguardo cambia. Diventa quello di un cane. In qualche modo accade dentro di me qualcosa che non mi capita quasi mai: mi prendo sul serio. Per un secondo, uno solo.
Ho fatto le scuole dell’obbligo nella provincia di Parma, dopo aver passato la prima infanzia nella città in cui sono nato. Fino a tutte le elementari, sembrava tutto ok. Poi le medie. Alle medie scopro di essere un terrone, un sardignolo, un africano. E questo non valeva soltanto per i miei compagni, ma anche per i loro genitori. Per alcuni professori. Ero il più piccolo, per via di una disfunzione ormonale, e le prese in giro erano verbalmente violente e spesso si arrivava a fare scherzi pericolosi, a farmi del male. Un giorno un ripetente, il più grosso della classe, raschia la lavagna incidendo un graffito. Sarà lui stesso a incolparmi dell’accaduto e, nella condanna generale, rischio la sospensione senza avere nemmeno un diritto di replica. Il tappo non è solo un terrone, è anche un delinquente, come tutti i sardignoli. Per gran parte della seconda media sono andato a letto sperando di morire e di non dovermi svegliare il giorno dopo per andare a scuola. La scuola era il mio inferno. Quando, in terza media, presento la mia pre-iscrizione alle scuole superiori, la mia professoressa di educazione artistica mi dice che quelli che vengono da dove vengo io non dovrebbero continuare gli studi, dovrebbero fare lavori manuali e restare ignoranti.
Una ragazzina di 12 anni, in una provincia del “ricco” nord-est, qualche giorno fa ha tentato di uccidersi lanciandosi dal secondo piano della sua casa, lasciando un biglietto ai genitori e uno ai compagni. Nel primo c’era delle scuse, nel secondo un esaustivo “adesso sarete contenti”. Ho sentito la notizia mentre ero in macchina e ho pianto. Ho pianto per il dispiacere ma anche per la sofferenza che ho sentito riemergere. Ho pianto per solidarietà ma anche per la commozione di essermi salvato, di aver trovato una strada per liberarmi da ciò che quel mondo voleva che fossi e che diventassi. Io sono stato fortunato, i miei genitori hanno capito e hanno preso una decisione radicale, per la quale non li ringrazierò mai abbastanza, e così siamo tornati a Cagliari.
Oggi che sono adulto e padre, conservo gelosamente il cuore di quel ragazzino sardo che veniva vessato e preso in giro nella provincia emiliana di metà degli anni ottanta, consapevole che i miei incoscienti carnefici erano soltanto espressione di una mentalità mai morta, fascista, leghista; di un’ignoranza mai estinta, xenofoba, razzista.
Educhiamo i nostri figli alla tolleranza, se non vogliamo farne degli inconsapevoli assassini. Ricordiamo loro che chi prende in giro il più debole è in realtà il più debole. Insegnamo loro che chi agisce in branco è un codardo. Diventiamo un modello di comportamento tollerante, un esempio di accoglienza, perché sì, sono passati trent’anni ma io vedo sempre “facce diffidenti quando passa lo straniero”.
Con affetto, firmato “Il Numero Zero”




(grazie a Daniela per la segnalazione)

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