E’ triste
leggere le recenti denunce degli intellettuali israeliani circa il collasso
dell’unica democrazia ebraica del Medio Oriente. La malinconia laica suscita
probabilmente l’identificazione tra i lettori – ma, ahimè, non li illumina.
A volte sembra
che le parole non siano altro che attrezzi di scena nelle mani di abili
acrobati da circo. Ad esempio, c’è una profonda relazione tra i termini
laicismo e ateismo, ma non sono affatto coincidenti o identici. Tra gli
intellettuali israeliani, e non casualmente, le differenze tra i due termini
sono molto più vaghe che in altri ambiti del discorso nazionale.
Ad esempio, una
persona può essere laica nel senso politico del termine e credere in un potere
superiore (come il prof. Yeshayahu Leibowitz [grande filosofo religioso
israeliano, ndr.] dell’ultimo periodo) oppure un ateo può non essere davvero
laico (come il Primo Ministro David Ben-Gurion nei suoi ultimi anni). Il
laicismo è – non soltanto, ma principalmente – un punto di vista politico,
mentre l’ateismo è prima di tutto un punto di vista filosofico.
Nello sviluppo
storico della democrazia liberale – e, in effetti, anche nella crescita di
alcune delle democrazie autoritarie – laicismo ha voluto dire la separazione
tra religione e Stato. O, per essere più precisi, una rottura del tradizionale
nodo gordiano tra la società politica e la Chiesa (o le chiese).
E’ pur vero che
la secolarizzazione dello spazio pubblico-politico non è mai stata totale – si
veda ad esempio le bandiere di Svezia e Norvegia [contenenti entrambe una
croce, ndr.] – o il rapporto duraturo tra il Regno Unito e la Chiesa Anglicana.
Ma la legislazione riguardo allo stato civile, alla neutralità su questioni di
credo e rito, all’istruzione pubblica senza l’intervento del clero e alla
definizione della cittadinanza e della nazionalità senza criteri religiosi, è
diventata la norma nella maggioranza dei Paesi nel XX° secolo (fatta eccezione
in quelli del Medio Oriente e del Nord Africa).
Il sionismo,
come movimento nazionale che si ribellò all’ebraismo storico, fu principalmente
ateo. La maggior parte dei suoi leader e attivisti smisero di credere nella
redenzione attraverso l’arrivo del Messia, l’antica essenza del credo ebraico,
e presero il proprio destino nelle loro stesse mani. Il potere del soggetto
umano sostituì il potere del Dio onnipotente.
I rabbini lo
sapevano, ed erano terrorizzati – e, pertanto, la maggior parte di loro divenne
dichiaratamente anti-sionista. A partire dal rabbino chassidico [Chassidismo:
movimento ebraico mistico diffuso a livello internazionale, ndr.] Sholom Dovber
Schneersohn, l’Admor di Lubavitch, fino al rabbino Capo Riformista degli USA
Isaac Mayer Wise, fondatore della Reform Central Conference, i Mitnagdim
[movimento costituito da ebrei lituani ortodossi, rabbini e talmudisti, ndr.]
gli Hasidim, gli Ortodossi, i Riformisti e i Conservatori, tutti videro
nell’ascesa del sionismo la fine dell’ebraismo. A seguito della radicale
opposizione dei rabbini tedeschi, Theodor Herzl fu costretto a trasferire il
Primo Congresso Sionista da Monaco alla città svizzera di Basilea.
Ma a partire dai
primi passi del consolidamento e della costituzione del movimento sionista,
esso fu obbligato a selezionare meticolosamente e nazionalizzare accuratamente
alcune delle credenze religiose, al fine di trasformarle in miti fondanti della
nazione.
Per i sionisti
atei, Dio era morto quindi la Terra Santa è divenuta la patria; tutte le feste
tradizionali [religiose ndr.] sono diventate feste nazionali; Gerusalemme ha
smesso di essere la città celeste per diventare la capitale del tutto terrena
di un popolo eterno. Ma non sono state queste decisioni, o molte altre, che
hanno impedito che il nazionalismo laico fungesse da fondamento per la
realizzazione dello Stato di Israele.
La ragione
principale dell’incapacità del sionismo di instaurare un’identità laica con una
costituzione – in cui la religione sia separata dallo Stato – va ricercata
altrove. La natura problematica della definizione di “ebreo” secondo criteri
laici – culturali, linguistici, politici o “biologici” (nonostante tutti gli sforzi
è ancora impossibile determinare chi è ebreo mediante il DNA) – fu ciò che
escluse l’opzione di una identità laica. Ad esempio Ben-Gurion – il futuro
fondatore dello Stato – era convinto, come molti altri, che la maggioranza
della popolazione della Terra di Israele non fosse stata esiliata, bensì
convertita all’Islam durante la conquista Araba, e quindi in origine fosse
evidentemente ebraica.
Nel 1948 egli
aveva già rinunciato a questa idea confusa e pericolosa, per affermare invece
che il popolo ebraico era stato esiliato con la forza e aveva vagato in
isolamento per 2000 anni. Poco prima egli aveva consegnato alla debole e
impoverita corrente religiosa sionista un dono prezioso: nella famosa lettera
dello “status quo”, tutte le leggi riguardanti il matrimonio, l’adozione e la
sepoltura furono lasciate direttamente al Rabbino Capo. Il timore di
assimilazione fu l’incubo condiviso sia dal Giudaismo sia dal Sionismo, e alla
fine questo timore ebbe il sopravvento.
In breve tempo,
il principio di adottare la definizione religiosa fu accettato nella politica
identitaria: un “ebreo” è qualcuno che è nato da una madre ebrea o convertita e
non è membro di un’altra religione. In altre parole, chi non risponde a questi
requisiti non può essere parte del risveglio del “popolo ebraico”, nonostante
adotti la cultura israeliana, parli in ebraico fluente e festeggi il Giorno
dell’Indipendenza israeliana. Si tratta di un processo storico molto logico:
poiché non esiste una cultura ebraica laica, è impossibile essere parte di
qualcosa che non esiste attraverso strumenti laici.
E poi arrivò il
1967. Lo Stato di Israele si espanse in modo significativo, ma allo stesso
tempo un’ampia quota di popolazione “non-ebrea” venne tenuta insieme sotto la
muscolosa ala ebraica del paese. I vincoli ebraici dovettero essere rinsaldati
di fronte ai confusi fraintendimenti che tendevano a prodursi come risultato
del campo minato della questione territoriale – demografica.
Da quel momento
in poi, più che mai, l’enfasi fu posta sul titolo di “ebraico” – in altre
parole, l’appartenenza allo Stato riguardava chi è nato da madre ebrea o si è
convertito secondo la legge ebraica, e, Dio ce ne scampi, non era il Paese di
tutti i suoi cittadini. Le giustificazioni addotte alla bramosia nei confronti
delle nuove colonie fecero affidamento infatti molto di più sull’idea biblica
della Terra Promessa e molto meno sulla rivendicazione sionista di
autodeterminazione. Ecco perché non è una coincidenza che, contestualmente,
l’establishment religioso sia diventato sempre più invasivo.
Come è accaduto
al socialismo e al nazionalismo liberale, la crisi delle ideologie laiche di
fronte alla globalizzazione capitalistica ha anche prodotto un’atmosfera ideale
per l’ascesa delle identità “premoderne”, principalmente etnico-religiose, ma
anche etnico-biologiche. E se queste identità devono ancora ottenere la
vittoria completa in tutto il mondo occidentale, in altri angoli del pianeta –
dall’Europa dell’Est al Terzo Mondo – hanno conseguito considerevoli successi.
In Israele, a seguito del precedente background etnocentrico, le nuove-vecchie
identità sono diventate molto popolari. La sintesi di sionismo e socialismo si
è completamente disintegrata, aprendo la strada alla simbiosi vincente di
religione e forte nazionalismo etnico.
Per i sionisti
pseudo-laici – e non soltanto per loro – questa nuova situazione è difficile ed
opprimente. Ma poiché essi non hanno risposte ai problemi identitari e alle
contraddizioni che sono state parte della società israeliana fin dalla sua nascita,
a quanto pare possiamo prevedere ulteriori catastrofi.
(Chi scrive è l’autore di
“Twilight of History” (Ed. Verso 2017)
Traduzione
Viviana Codemo)
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