domenica 24 marzo 2019

Valutazioni uniformi all’Esame di Maturità: la beffa delle griglie nazionali - Ivan Cervesato




Nel 2017 una norma ha stabilito che nell’esame di maturità devono essere uniformati i criteri di valutazione delle commissioni. A tal fine il MIUR deve definire griglie di valutazione per l’attribuzione dei punteggi che consentano “di rilevare le conoscenze e le abilità acquisite dai candidati e le competenze nell’impiego dei contenuti disciplinari”. Con il D.M. 769 del 26 novembre 2018 sono state rese note le griglie di valutazione centralizzate. La loro struttura prevede unicamente un pugno di voci alquanto vaghe (“comprendere”, “individuare”, ecc.) a ciascuna delle quali corrisponde una stringata e generica espressione definitoria ed un punteggio massimo attribuibile da parte della commissione. Ogni commissione potrà stabilire in totale libertà la corrispondenza tra voci e punteggi. Non è previsto neanche il punteggio minimo che deve essere assegnato ad una prova considerata sufficiente, come accadeva nella legislazione previgente dove una prova sufficiente doveva ricevere 10/15. Con le nuove griglie potrà così accadere che la commissione X attribuisca il punteggio di 10/20 ad una prova sufficiente, mentre una prova valutata “sufficiente” dalla commissione Y, magari nell’aula accanto della stessa scuola, si vedrà attribuire il punteggio di 14/20. Un modo davvero curioso di uniformare i criteri di valutazione delle commissioni. 
Come noto, nel 2015 la L. 107 ha introdotto numerosi elementi di novità nell’ordinamento scolastico, delegando nel contempo il Governo ad emanare una serie di decreti legislativi attuativi della legge. Tra questi, in relazione al tema di cui si occupano queste brevi note, è sufficiente ricordare il D.lgs. 62/17, che ha inciso sotto molteplici aspetti sull’assetto dell’Esame di Stato conclusivo del II ciclo di studi, prevedendo anzitutto la possibilità (e non l’obbligatorietà, che è concetto ben diverso) di una seconda prova scritta a carattere pluridisciplinare:
La seconda prova, in forma scritta, grafica o scrittografica, pratica, compositivo/esecutiva musicale e coreutica, ha per oggetto una o più discipline caratterizzanti il corso di studio ed è intesa ad accertare le conoscenze, le abilità e le competenze attese dal profilo educativo culturale e professionale della studentessa o dello studente dello specifico indirizzo. (art. 17 c. 4)
Ma è in tema di valutazione che è stata introdotta una novità assoluta – e potenzialmente dirompente –  nel panorama della Scuola italiana: con una chiarezza che, per una volta, non dà adito ad interpretazioni, il citato decreto legislativo all’art. 17 c. 6 prevede testualmente quanto segue:
1.       
6.      Al fine di uniformare i criteri di valutazione delle commissioni d’esame, con il decreto di cui al comma 5, sono definite le griglie di valutazione per l’attribuzione dei punteggi previsti dall’articolo 18, comma 2, relativamente alle prove di cui ai commi 3 e 4. Le griglie di valutazione consentono di rilevare le conoscenze e le abilità acquisite dai candidati e le competenze nell’impiego dei contenuti disciplinari.
La finalità della norma è qui enunciata con estrema precisione: uniformare i criteri di valutazione delle commissioni d’esame. Nella lingua italiana, uniformare ha il significato univoco e non discutibile di “far divenire, rendere uniforme” (Treccani), che a sua volta rimanda all’aggettivo uniforme, “che nell’aspetto o nello svolgimento, materiale o ideale, non presenta difformità alcuna né variazioni qualitative o quantitative” (lat. uniformis: “che ha una medesima forma”). Due prove svolte (idealmente) allo stesso modo dovrebbero quindi vedersi assegnato lo stesso punteggio, che si sia ad Aosta, Frosinone o Lamezia Terme. È ipotizzabile che, nel licenziare quella norma, si sia ritenuto che l’assenza di indicazioni centrali in materia di valutazione delle prove (scritte) abbia condotto in passato a comportamenti tanto difformi e variegati da caso a caso, da risultare incompatibili con il carattere nazionale di un esame il cui superamento permette di conseguire un titolo avente – come si dice e qualunque cosa significhi – “valore legale” sull’intero territorio della Repubblica.  Ad anno scolastico già abbondantemente iniziato, il D.M. 769 del 26 novembre 2018, emanato proprio ai sensi del D.lgs. 62/17, ha reso note le caratteristiche generali delle prove, l’elenco dei nuclei tematici fondamentali delle discipline (peraltro non sempre pienamente coerenti con le previsioni delle Indicazioni Nazionali, D.I. 211/10), gli obiettivi delle prove e, finalmente, quelle che dovrebbero essere le famose griglie di valutazione centralizzate.
Al riguardo, sembra  ben applicabile il detto per il quale la montagna ha partorito un topolino: di ciò ci si rende subito conto prendendo in esame, a titolo di esempio, le cosiddette griglie di valutazione per il Liceo Scientifico (matematica e fisica) o per il Liceo Classico (latino e greco), riportate nelle figure 1, 2 e 3 (per le altre tipologie liceali si applicano griglie del tutto analoghe).
La struttura di tali “griglie” (a questo punto le virgolette sono d’obbligo) prevede unicamente, come evidente, un pugno di voci alquanto vaghe (“comprendere”, “individuare”, ecc.) a ciascuna delle quali corrisponde una stringata e generica espressione definitoria ed un punteggio massimo attribuibile da parte della commissione. E questo è tutto: chissà, forse in ossequio all’aureo principio del less is more.
Così, gli “indicatori” non risultano correlati a “descrittori”, in base ai quali associare un dato punteggio al livello di una data prestazione: in altre parole, per l’indicatore – ad esempio – “comprendere” non esiste alcun criterio-guida che consenta alle commissioni di attribuire un punteggio (tra 0 e 5? tra 1 e 5?) alla prova, dunque del tutto indeterminato rimane che cosa significhi che un candidato ha evidenziato un livello di comprensione “da 1” piuttosto che “da 3” o “da 5”.
Si deve per necessità ammettere che sarà ciascuna collegio valutante a stabilire in totale libertà tali corrispondenze. Le disposizioni ministeriali non indicano, peraltro, neppure il livello di sufficienza, ossia il punteggio da assegnare ad un elaborato giudicato “di livello sufficiente”, contrariamente a quanto avveniva nel previgente quadro normativo, in cui per una prova scritta valutata “sufficiente” si prescriveva l’assegnazione di un ben definito punteggio, pari a 10/15 (art. 4 D.P.R. 323/98).
Per chi scrive rimane avvolto nel più profondo mistero come tali “griglie” possano consentire, anche solo lontanamente, “di rilevare le conoscenze e le abilità acquisite dai candidati e le competenze nell’impiego dei contenuti disciplinari” (D.lgs. 62/17). Stando così le cose, i criteri di valutazione, pur nel formale rispetto della distribuzione dei punteggi massimi stabiliti da D.M. 769, dovranno essere decisi in piena autonomia da ciascuna commissione, sprovvista – come si è detto – anche dell’indicazione minimale della collocazione del livello di sufficienza. Sarà dunque inevitabile la più totale disparità di trattamento: una prova valutata “sufficiente” dalla commissione X potrà vedersi attribuito il punteggio di 10/20, mentre una prova valutata “sufficiente” dalla commissione Y, magari nell’aula accanto della stessa scuola, si vedrà attribuire il punteggio di 14/20, e così via.
Si giunge quindi ad un incontestabile paradosso: l’intenzione espressa in modo tanto preciso ed inequivocabile nel D.lgs. 62/17 (“uniformare i criteri di valutazione delle commissioni di esame”) viene ad essere del tutto vanificata, tradita e di fatto resa inapplicabile dalle disposizioni di un successivo decreto ministeriale, norma di rango secondario per ironia della sorte emanata ai sensi di quello stesso decreto legislativo. In tale quadro, nel quale siamo certi potrà esprimersi al meglio tutta la fantasia docimologica di presidenti e commissari, con innegabile evidenza si finisce per ottenere proprio un incremento della difformità e della disparità valutativa: esattamente il contrario di quanto prevederebbe una vigente norma dello Stato avente forza di Legge e che, secondo consuetudine, termina con la frase di rito dal suono, in relazione a questa vicenda, vagamente beffardo:
il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
In definitiva, l’Amministrazione dello Stato, con proprio provvedimento (di rango secondario) non solo finisce per rendere inapplicabili le disposizioni di una norma di rango primario, ma di fatto – rispetto a quelle stesse disposizioni – impone di andare in direzione esattamente opposta. Chi scrive non è fine giurista e può dunque serenamente confessare di non riuscire a comprendere le modalità di certe sottili procedure applicative: d’altronde, ciascuno ha i propri limiti.
Eppure, a ben pensare, non tutto il male viene per nuocere: in fondo, potrebbe anche essere una buona questione da sottoporre a qualche candidato, in sede di colloquio di esame, nell’ambito del previsto spazio dedicato a “Cittadinanza e Costituzione”.
Una risposta convincente potrebbe anche valere – chissà – un 100 e lode.

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