Nel 2017 una norma ha stabilito che nell’esame di maturità devono essere
uniformati i criteri di valutazione delle commissioni. A tal fine il MIUR deve
definire griglie di valutazione per l’attribuzione dei punteggi che consentano
“di rilevare le conoscenze e le abilità acquisite dai candidati e le
competenze nell’impiego dei contenuti disciplinari”. Con il D.M. 769 del 26
novembre 2018 sono state rese note le griglie di valutazione centralizzate. La
loro struttura prevede unicamente un pugno di voci alquanto vaghe
(“comprendere”, “individuare”, ecc.) a ciascuna delle quali corrisponde una
stringata e generica espressione definitoria ed un punteggio massimo
attribuibile da parte della commissione. Ogni commissione potrà stabilire in
totale libertà la corrispondenza tra voci e punteggi. Non è previsto neanche il
punteggio minimo che deve essere assegnato ad una prova considerata
sufficiente, come accadeva nella legislazione previgente dove una prova
sufficiente doveva ricevere 10/15. Con le nuove griglie potrà così accadere che
la commissione X attribuisca il punteggio di 10/20 ad una prova sufficiente,
mentre una prova valutata “sufficiente” dalla commissione Y, magari nell’aula
accanto della stessa scuola, si vedrà attribuire il punteggio di 14/20. Un modo
davvero curioso di uniformare i criteri di valutazione delle commissioni.
Come noto, nel 2015 la L. 107 ha introdotto numerosi elementi di novità
nell’ordinamento scolastico, delegando nel contempo il Governo ad emanare una
serie di decreti legislativi attuativi della legge. Tra questi, in relazione al
tema di cui si occupano queste brevi note, è sufficiente ricordare il D.lgs.
62/17, che ha inciso sotto molteplici aspetti sull’assetto dell’Esame di Stato
conclusivo del II ciclo di studi, prevedendo anzitutto la possibilità (e
non l’obbligatorietà, che è concetto ben diverso) di una seconda prova
scritta a carattere pluridisciplinare:
La seconda prova, in forma scritta,
grafica o scrittografica, pratica, compositivo/esecutiva musicale e coreutica,
ha per oggetto una o più discipline caratterizzanti il corso di studio ed
è intesa ad accertare le conoscenze, le abilità e le competenze attese dal profilo
educativo culturale e professionale della studentessa o dello studente dello
specifico indirizzo. (art. 17 c. 4)
Ma è in tema di valutazione che è stata introdotta una novità assoluta – e
potenzialmente dirompente – nel panorama della Scuola italiana: con una
chiarezza che, per una volta, non dà adito ad interpretazioni, il citato
decreto legislativo all’art. 17 c. 6 prevede testualmente quanto segue:
1.
6.
Al fine di uniformare i criteri di valutazione delle
commissioni d’esame, con il decreto di cui al comma 5, sono definite
le griglie di valutazione per l’attribuzione dei punteggi previsti
dall’articolo 18, comma 2, relativamente alle prove di cui ai commi 3 e
4. Le griglie di valutazione consentono di rilevare le conoscenze e le
abilità acquisite dai candidati e le competenze nell’impiego dei contenuti
disciplinari.
La finalità della norma è qui enunciata con estrema precisione: uniformare
i criteri di valutazione delle commissioni d’esame. Nella lingua
italiana, uniformare ha il significato univoco e non
discutibile di “far divenire, rendere uniforme” (Treccani), che a sua volta
rimanda all’aggettivo uniforme, “che nell’aspetto o nello
svolgimento, materiale o ideale, non presenta difformità alcuna né variazioni
qualitative o quantitative” (lat. uniformis: “che ha una medesima
forma”). Due prove svolte (idealmente) allo stesso modo dovrebbero quindi
vedersi assegnato lo stesso punteggio, che si sia ad Aosta, Frosinone o Lamezia
Terme. È ipotizzabile che, nel licenziare quella norma, si sia ritenuto che
l’assenza di indicazioni centrali in materia di valutazione delle prove
(scritte) abbia condotto in passato a comportamenti tanto difformi e variegati
da caso a caso, da risultare incompatibili con il carattere nazionale di un
esame il cui superamento permette di conseguire un titolo avente – come si dice
e qualunque cosa significhi – “valore legale” sull’intero territorio della
Repubblica. Ad anno scolastico già abbondantemente iniziato, il D.M. 769
del 26 novembre 2018, emanato proprio ai sensi del D.lgs. 62/17, ha reso note
le caratteristiche generali delle prove, l’elenco dei nuclei
tematici fondamentali delle discipline (peraltro non sempre pienamente
coerenti con le previsioni delle Indicazioni Nazionali, D.I. 211/10), gli obiettivi
delle prove e, finalmente, quelle che dovrebbero essere le
famose griglie di valutazione centralizzate.
Al riguardo, sembra ben applicabile il detto per il quale la montagna
ha partorito un topolino: di ciò ci si rende subito conto prendendo in esame, a
titolo di esempio, le cosiddette griglie di valutazione per il Liceo
Scientifico (matematica e fisica) o per il Liceo Classico (latino e greco),
riportate nelle figure 1, 2 e 3 (per le altre tipologie liceali si applicano
griglie del tutto analoghe).
La struttura di tali “griglie” (a questo punto le virgolette sono
d’obbligo) prevede unicamente, come evidente, un pugno di voci alquanto vaghe
(“comprendere”, “individuare”, ecc.) a ciascuna delle quali corrisponde una
stringata e generica espressione definitoria ed un punteggio massimo
attribuibile da parte della commissione. E questo è tutto: chissà,
forse in ossequio all’aureo principio del less is more.
Così, gli “indicatori” non risultano correlati a “descrittori”, in base ai
quali associare un dato punteggio al livello di una data prestazione: in altre
parole, per l’indicatore – ad esempio – “comprendere” non esiste alcun
criterio-guida che consenta alle commissioni di attribuire un punteggio (tra 0
e 5? tra 1 e 5?) alla prova, dunque del tutto indeterminato rimane che cosa significhi
che un candidato ha evidenziato un livello di comprensione “da 1” piuttosto che
“da 3” o “da 5”.
Si deve per necessità ammettere che sarà ciascuna collegio valutante a
stabilire in totale libertà tali corrispondenze. Le disposizioni ministeriali
non indicano, peraltro, neppure il livello di sufficienza, ossia il
punteggio da assegnare ad un elaborato giudicato “di livello sufficiente”,
contrariamente a quanto avveniva nel previgente quadro normativo, in cui per
una prova scritta valutata “sufficiente” si prescriveva l’assegnazione di un
ben definito punteggio, pari a 10/15 (art. 4 D.P.R. 323/98).
Per chi scrive rimane avvolto nel più profondo mistero come tali “griglie”
possano consentire, anche solo lontanamente, “di rilevare le conoscenze e le
abilità acquisite dai candidati e le competenze nell’impiego dei contenuti
disciplinari” (D.lgs. 62/17). Stando così le cose, i criteri di valutazione,
pur nel formale rispetto della distribuzione dei punteggi massimi stabiliti da
D.M. 769, dovranno essere decisi in piena autonomia da ciascuna
commissione, sprovvista – come si è detto – anche dell’indicazione minimale
della collocazione del livello di sufficienza. Sarà dunque inevitabile la più
totale disparità di trattamento: una prova valutata “sufficiente” dalla
commissione X potrà vedersi attribuito il punteggio di 10/20, mentre una prova
valutata “sufficiente” dalla commissione Y, magari nell’aula accanto della
stessa scuola, si vedrà attribuire il punteggio di 14/20, e così via.
Si giunge quindi ad un incontestabile paradosso: l’intenzione espressa in
modo tanto preciso ed inequivocabile nel D.lgs. 62/17 (“uniformare i criteri di
valutazione delle commissioni di esame”) viene ad essere del tutto vanificata,
tradita e di fatto resa inapplicabile dalle disposizioni di un successivo
decreto ministeriale, norma di rango secondario per ironia della sorte emanata
ai sensi di quello stesso decreto legislativo. In tale quadro, nel quale siamo
certi potrà esprimersi al meglio tutta la fantasia docimologica di presidenti e
commissari, con innegabile evidenza si finisce per ottenere proprio un incremento della
difformità e della disparità valutativa: esattamente il contrario di quanto
prevederebbe una vigente norma dello Stato avente forza di Legge e che, secondo
consuetudine, termina con la frase di rito dal suono, in relazione a questa
vicenda, vagamente beffardo:
il presente decreto, munito del sigillo
dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della
Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo
osservare.
In definitiva, l’Amministrazione dello Stato, con proprio provvedimento (di
rango secondario) non solo finisce per rendere inapplicabili le disposizioni di
una norma di rango primario, ma di fatto – rispetto a quelle stesse
disposizioni – impone di andare in direzione esattamente opposta. Chi scrive
non è fine giurista e può dunque serenamente confessare di non riuscire a
comprendere le modalità di certe sottili procedure applicative: d’altronde,
ciascuno ha i propri limiti.
Eppure, a ben pensare, non tutto il male viene per nuocere: in fondo,
potrebbe anche essere una buona questione da sottoporre a qualche candidato, in
sede di colloquio di esame, nell’ambito del previsto spazio dedicato a “Cittadinanza
e Costituzione”.
Una risposta convincente potrebbe anche valere – chissà – un 100 e lode.
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