C’è qualcosa
che non funziona nel modo in cui i giornali “di sistema” hanno trattato la
“crociata dei bambini” per salvare la Terra. In prima grandi fotografie della
marea multicolore, con i cartelli in inglese, i sorrisi sui volti giovani, la
protesta gioiosa, i titoli a tutta pagina sull’onda verde. E gli editoriali
dove vecchie firme celebrano la speranza giovane e la retorica dei “bambini che
salvano il pianeta” si spreca, con tutti a riconoscere che “è vero, non c’è più
tempo”, e sentenziare che sì, certo! “i giovani vogliono un futuro”! Poi, nelle
pagine interne, tutti – gli stessi o chi per loro, agli ordini degli stessi
direttori, degli stessi caporedattori, degli stessi padroni – a invocare gli
“sblocca cantieri”, le trivellazioni nell’ Adriatico, i TAP, TAV, TAC, pipe
lines e cementificazione, ponti tunnel e binari, calcestruzzo e
acciaio a gogo (investimenti li chiamano) come se tra i due “ordini del
discorso” non ci fosse contraddizione. Sabato le pagine locali torinesi de La
Stampa erano esemplari: aprivano con le immagini dei “Greta torinesi” (così
avevano battezzato i giovani del Global Strike) che avevano
riempito le piazze del centro. E subito dopo, senza soluzione di continuità,
con pari simpatia, i “mille fischietti” dei commercianti (come chiamarli? gli
“Scrooge torinesi”?) contrari alla chiusura al traffico di quello stesso
Centro, ben determinati a trasformare la città in una camera a gas pur di non
perdere qualche punto percentuale di incasso. Le rispettive immagini
richiamavano una stridente distanza: il volto sorridente di una ragazza con il
cartello “Non è mai troppo verde” per i primi. La foto di gruppo con la scritta
“NO ZTL” in mano a ognuno per i secondi, schierati come una squadra di calcio
sullo sfondo del Municipio, a un centinaio di metri dalla stessa piazza in cui,
gli stessi commercianti, insieme agli imprenditori e ai politici del “partito
degli affari”, chiamati a raccolta dagli stessi giornali, si erano mobilitati
dietro le bandiere SI TAV. Acquasanta e diavoli, si direbbe. Ma nell’impaginato
dei quotidiani non c’era soluzione di continuità, come a dire che “bambini”
(così declassificavano gli scioperanti per il clima) e “madamine” per loro pari
sono, ospiti dello stesso salotto (mediatico) in cui tutto si può dire e fare,
tranne che toccare i trofei del business.
Beh, lasciatemelo dire: c’è qualcosa di infetto in
questo modo di tradire la voce degli innocenti. D’ingannare la vita che si
affaccia al mondo, con il cinismo di chi il mondo l’ha vissuto e corrotto. Come
per il bavoso Faust con Margherita. Come Johannes con la virginea Cordelia
nel Diario di un seduttore. Come l’avvocato Coppelius con Nathaniel
nel Sandermann di Hoffmann… Un che di cannibalico. L’ombra del
disincanto che riesce persino a mimare lo stupore per l’incanto pur di
spegnerlo incorporandoselo. Si piegano su quell’aggregato di vita non ancora
plasmata a loro immagine e somiglianza con la curiosità del voyeur,
forse un po’ stupita e forse persino un tantino compiaciuta (sono apprezzati
soprattutto gli slogan in inglese: “Go green or go home“. “I love
school but I love more Earth“, giudicati “divertenti”, “creativi”, in
qualche modo in sintono con quella globalizzazione di cui loro si considerano
i winner, i “Vincenti”). Li osservano (e valutano), quei giovani
che si mettono in gioco, con l’apprezzamento che il vizio tributa a volte alla
virtù. Ne lodano persino l'”iper-idealismo”. Soprattutto l'”ingenuità” tipica
dell’età infantile. E poi li fottono, nel pensiero e nell’azione, aderendo in
tutto per tutto a quella razionalità che predica l’uso strumentale di ogni cosa
e di ognuno al servizio del soddisfacimento dei propri individuali bisogni
immediati e soprattutto dell’accumulazione di denaro. Il credo “iper-moderno”
che è diventato l’unica tavola della legge vigente.
Forse questa schizofrenia, questa patologia bi-polare
che colpisce gli operatori dei media ma anche quelli della politica e in
generale quanti gestiscono “sistemi” con un qualche grado di “influenza”, va al
di là della responsabilità individuale. Forse è un meccanismo inconsapevole –
come lo sono in verità tutte le nevrosi -, connesso a un universo iper-connesso
in cui tutto si coniuga con il contrario di tutto e convive nell’ambito della
medesima piattaforma comunicativa che cancella il principio di coerenza in nome
di quello di connettività.
O forse c’è, “sotto”, qualcosa di più profondo. E
inquietante. L’idea mi ha colpito leggendo la risposta che il direttore della
Stampa, Maurizio Molinari, ha dato, lo stesso giorno del Friday for
Future, a Francesco B., lo straordinario dodicenne ornitologo nominato dal
Presidente Mattarella “Alfiere della Repubblica”. Il precocissimo adolescente
dichiarava di aver partecipato allo “Sciopero Globale per il Clima” e,
occupandosi di uccelli, denunciava quanto oggi “l’uomo sia causa della loro
vulnerabilità” invocando, da chi ha i mezzi comunicativi di farlo, di dar voce
alla “necessità immediata di combattere l’inquinamento” e “trovare delle
soluzioni”.
Al che il maturo Direttore rispondeva che sì, era
perfettamente d’accordo: “la difesa del clima è una battaglia che riguarda
tutti perché il Pianeta è la casa comune di ogni essere vivente”. Frase di
circostanza, a cui subito dopo aggiungeva che la soluzione “può essere quella
indicata dall’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, convinto della necessità
di ridisegnare città e infrastrutture per proteggere gli abitanti dai
cambiamenti climatici. Ovvero, spostare gli abitanti lontano dai corsi d’acqua.
Ricostruire ponti e autostrade per resistere all’impatto di uragani e
inondazioni di insolita potenza, immaginare infrastrutture capaci di proteggere
gli abitanti da nuovi pericoli climatici” [gli abitanti, si noti: degli
uccelli di Francesco non c’è più traccia, se li portino pure via i venti
d’insolita potenza o le ruspe dei nuovi cantieri]. “Soprattutto – concludeva il
direttore de La Stampa, col piglio del nouveau pedagogue –
educare i giovani, fin dalle scuole elementari, alla convivenza con un
clima che cambia” e che, si presume, continuerà implacabilmente a cambiare…
Il titolo era La difesa dai cambiamenti climatici spiega la necessità
di nuove infrastrutture sul territorio, a cui Marco Travaglio ha risposto
forse nell’unico modo che Molinari si merita, con un sarcastico “Gretav”. Ma
quelle 7 righe in ventiseiesima pagina del quotidiano torinese, meritano un
approfondimento, perché – al di là della loro nonchalance, quasi
buttate lì per liquidare il capriccio di un bambino – dichiarano una svolta che
potremmo dire epocale. Un salto di paradigma nella mentalità post-moderna,
perché lì si dice, papale papale, che non si tratta più di evitare la
catastrofe climatica ma di conviverci. Che non ci si impegna più per
“salvare il pianeta” – quello è andato, perduto, irrimediabilmente e
irreversibilmente mutato – ma di abitare un nuovo devastato pianeta, continuando
a devastarlo perché altro non si può fare. Perché il saccheggio è andato così
avanti che costerebbe troppo porvi rimedio, tanto vale guadagnarci. E poi, chi
vorrebbe “tornare indietro”?
Insomma: una linea d’ombra è stata superata. Questo ci
dicono, ormai senza pudore, proprio il giorno del global strike, i
padroni dell’informazione. Il sogno dei bambini di salvare il mondo e il clima
dalla distruzione è appunto un sogno infantile. Gli uomini maturi gli fanno
sorridenti una carezza sul capo, e tirano dritti per la loro miserabile strada,
perché sanno – l’hanno prodotto loro – che lo spartiacque tra il “mondo
naturale” di ieri e quello “artificiale” di domani è già stato varcato. E che
in quel “nuovo mondo” artificiale, se si disseccano i vecchi campi
di grano si dischiudono però straordinari e potenziali “campi di lavoro” dove
l’accumulazione lineare e illimitata può – non si sa per quanto, ma non importa
– continuare. Detestano i “catastrofisti” non perché pensano che le catastrofi
di cui parlano siano illusorie o irrealistiche, ma perché si sono convinti che
si sono già consumate, e che sia da necrofili piangere sul latte
versato anzi, da “pedagrosi” come avrebbe detto Marinetti, da “attardati”,
inetti nella loro incapacità di vedere la componente creativa della
distruzione. E di immaginare quante eccezionali occasioni offra, alla febbre
del fare e dell’avere, la nuova condizione climatica, l’ascesa delle acque, la
forza moltiplicata degli elementi, quanto acciaio, calcestruzzo, carburante,
energia si potrà/dovrà impiegare per spostare masse umane lontano da fiumi e
litorali, blindare ponti e autostrade e ferrovie, puntellare montagne,
contenere i deserti. Insomma, quanto l’adattamento al cambiamento produca su
scala allargata business. Questo pensano, senza poterlo proclamare
apertamente così, ma in realtà essendone profondamente convinti.
Luca Mercalli, nel suo recente, bellissimo libro
[Einaudi 2018], ci dice che “il tempo fugge”, e descrive l’angoscia di chi teme
“di non farcela, di non arrivare per tempo ad avvertire del pericolo e a
spegnere l’incendio”. L’uomo di mondo che parla dal cuore della comunicazione
“di sistema” alza le spalle, e risponde che il tempo è già fuggito, tanto vale
trasformarlo in denaro. Greta dice che, di fronte alla grandezza del
disastro ambientale “non ci sono soluzioni all’interno dei nostri sistemi
attuali”. Che occorrerebbe ragionare in modo “olistico”, cioè in grado di
pensare al mondo come a un “tutto” non gestibile con interventi parziali.
Soprattutto chiede agli adulti di smetterla di “chiedere ai vostri figli
risposte al casino che avete combinato voi”. L’altro le risponde che sì, il
casino non è un bell’ambiente, soprattutto per i minori, ma è anche un posto
dove girano un sacco di soldi, e per un pubblico adulto può offrire anche un
bel po’ di piacere… E quanto agli uccellini dell’ornitologo precoce – vien da
immaginare che pensi, questo abitante del mondo postumo, anche se così
brutalmente non lo può dire -, che vadano al diavolo insieme alle lucciole di
Pasolini, alle cinciallegre del cui canto si commuoveva Rosa Luxembrurg dietro
le sbarre del suo carcere, ai piccoli pensieri di Filemone e Bauci con la loro
stupida casetta messa là, nel posto sbagliato, a disturbare la Grande Opera di
Faust, li sostituiremo con uno sciame di led fosforescenti, con la
registrazione digitalizzata dei rumori del bosco che non c’è più, con un set di
sale multifunzionali e di infrastrutture di compensazione… E’ questo l’arrière
pensée di chi sta oggi nella parte alta (e stretta) del mondo: il
nichilismo attivo delle attuali classi dominanti che ne ha sostituito l’antico
sovversivismo di gramsciana memoria, come quello impastato di una sostanza
feroce e, questa sì, mortifera e liquidatoria di ogni speranza, sapientemente
occultata sotto una coltre di pragmatismo, progressismo, ottimismo di maniera e
mondanità. E forse è per questo – per questa indicibilità del dire quel che in
fondo ognuno di loro sente e pensa – che tutti questi opinion leader appaiono
così patologicamente bipolari, affetti da una sorta di irrimediabile
frammentazione e incoerenza del pensiero lacerato com’è da questa contraddizion
che nol consente tra l’appartenenza di specie all’umanità nel proprio essere
naturale (“il pentere” dantesco) e la radicale alienazione da essa nel
proprio essere sociale (“il voler“).
Una doverosa precisazione. Mi sono occupato finora di
quella parte del sistema dell’informazione che si è mantenuta all’interno
dell’involucro della civiltà (pur sostenendo, nella sostanza, un agire
distruttivo). Poi ci sono quelli che ne stanno fuori. Non solo dalla civil
society ma, verrebbe da dire, dall’ humanum genus. Quelli,
intendo, cui la mutazione climatica sembra aver prodotto una simmetrica
mutazione genetica che ne ha interrotto il rapporto con la “specie”, spegnendo
quel “soffio divino” come dicevano gli umanisti rinascimentali, che fa
partecipare l’essere umano alla comune humanitas. Sono quelli
(quelle) che hanno detto che loro, una come Greta, la metterebbero sotto con la
macchina volentieri, se non fosse un’handicappata. Che hanno postato su Twitter
messaggi come: “Dite quello che volete su #Greta ma chi, meglio di
una sedicenne che non va a scuola e che soffre di disturbi pervasivi dello
sviluppo, può, nel 2019, rappresentare la #sinistra?”. Che hanno ingiuriato
sui loro giornalacci “i fanciulli chiassosi tipo Greta e i suoi seguaci
gretini”, che “suppongono di poter cambiare il mondo però non sono nemmeno
capaci di cambiare loro stessi, pieni di droghe e di vizi d’ ogni genere”
[Libero, 16 marzo]. Che hanno intasato i social con la propria spazzatura:
Greta che “sembra un personaggio da film horror”, Greta “burattino”,
Greta “marionetta nelle mani del globalismo mondialista e massonico”,
Greta falsaria, affarista, ritardata mentale, serva delle lobbies della green
economy… persino Greta “rettiliana” (sic)! Il sottofondo fangoso del
degrado antropologico contemporaneo rovesciato a piene mani nello spazio
pubblico. Su di esso dovremo ritornare ancora, per riflettere a fondo, con la
sensazione che tutto ciò attenga più all’ambito delle catastrofi naturali” –
quelle in forza delle quali una specie muta i propri codici genetici, divenendo
“altro” – che non alle pur terribili apocalissi culturali cui il moderno ci
aveva abituato. Per l’immediato, però, una considerazione s’impone, in qualche
misura sconvolgente: ed è come tutto ciò ci mostri quanto la strada per la
salvezza della Terra sia stretta, presa com’è nella tenaglia tra la
post-moderna ipocrisia soft dei nuovi scribi e il post-umano imbestiamento hard
degli eterni barbari.
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