mercoledì 6 marzo 2019

I crimini di guerra israeliani al confine con Gaza - Fulvio Scaglione




Il rapporto della Commissione d'inchiesta indipendente dell’Onu sui fatti avvenuti al confine tra la Striscia di Gaza e Israele durante la Marcia del ritorno (parliamo di marzo-maggio 2018 per la Marcia vera e propria, ma la Commissione ha indagato fino allo scorso dicembre) non lasciano molti dubbi. I tre commissari (l’argentino Santiago Canton, la bangladese Sara Hossain e la kenyana Kaary Betty Murungi) hanno trovato ragionevoli motivi per pensare che i soldati israeliani abbiano commesso crimini di guerra e violato i diritti umani internazionali.
I dati, d’altra parte, parlano chiaro. Nel periodo indicato, 6.106 manifestanti disarmati sono stati colpiti dai cecchini israeliani. Altri 3.098 palestinesi sono stati feriti dalla frammentazione dei proiettili, dai proiettili di metallo rivestiti di gomma o da colpi di gas lacrimogeno. I palestinesi uccisi sono stati 189, dei quali 183 colpiti da proiettili veri. Erano bambini 35 di questi morti; 2 i giornalisti chiaramente identificabili come tali; 3 i paramedici, anch’essi facilmente riconoscibili. A causa delle ferite ricevute, hanno subito amputazioni 122 persone, tra le quali 20 bambini. Sul lato israeliano, quattro soldati sono stati feriti sul fronte delle manifestazioni, mentre uno è stato ucciso in tutt’altra località.
Ora, è piuttosto chiaro che un cecchino non spara a casaccio. Al contrario, la specialità di un cecchino è proprio eliminare, anche da lontano, bersagli specifici, scelti con cura. Quale può essere, dunque, la giustificazione per aver sparato a infermieri, bambini, giornalisti, oltre che a un ampio numero di civili disarmati? Israele ha sempre respinto le accuse, con due ragionamenti. Il primo chiama in causa il diritto/dovere di difendere il confine tra Gaza e, appunto, il territorio israeliano. Il secondo sostiene che la manifestazione palestinese facesse da schermo a intenti terroristici. Ma la Commissione, giustamente, ha fatto osservare che né l’una né l’altra considerazione (peraltro di parte) giustificano quella specie di “decimazione preventiva” di civili che l’esercito di Israele ha messo in atto al confine con Gaza.
Chi scrive ha provato nei giorni della Marcia del ritorno una gran pena per i palestinesi. Da troppo tempo i dirigenti politici (appunto) di quel popolo nascondono la disperazione (perché lo strapotere di Israele è ormai dilagante) e la mancanza di idee accettando, e in qualche caso promuovendo, il sacrificio delle vite dei loro. Ora che si avvicina l’anniversario della Marcia, sarà bene ricordare un fatto: a ogni scontro armato, intifada, guerra o sparatoria che sia, Israele rafforza il proprio dominio. Come pure nel caso della Marcia: l’indagine della Commissione, infatti, non se l’è filata nessuno.
Questo atteggiamento nasconde una questione che ingloba anche quella della sorte dei palestinesi, ovvero: il ruolo globale di Israele. Per il secondo anno consecutivo un’indagine internazionale ha classificato lo Stato ebraico come l’ottava nazione più potente al mondo. Prima, per dire, di Turchia, Arabia Saudita e Iran. Subito dopo le grandi potenze classiche, ovvero Usa, Cina, Russia, Francia, Regno Unito, Germania, Giappone… È questo, nella stessa indagine, il risultato più lusinghiero per Israele che risulta decimo per dinamismo economico, ma solo 25° per spirito imprenditoriale, 30° tra i Paesi in cui è meglio vivere, 33° per diritti di cittadinanza, 35° per qualità della vita, 40° per influenza culturale e 64° per apertura all’imprenditorialità esterna.
Quindi: la vera caratteristica di Israele, quella che lo distingue sopra ogni altra, è la forza. L’ottava potenza al mondo può fare ciò che vuole, come vuole e quando vuole senza doverne mai rispondere davvero. Certo, le condanne teoriche non mancano, anzi, sono abbondanti. Ma sono anche completamente prive di conseguenze pratiche.

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