Nonostante siano descritti come vittime
passive, negli ultimi dieci anni i braccianti di origine straniera hanno dato
vita a tre scioperi, due rivolte antimafia e numerose azioni di lotta, tra cui
il blocco della produzione di una multinazionale
Una sera di settembre Joseph Ayimbora, ghanese, si ritrovò sull’asfalto di
Castel Volturno in un lago di sangue e con le gambe piene di proiettili.
Intorno continuavano a sparare. L’unica cosa da fare era fingersi morto.
Lentamente si rialzò. Un commando di camorristi mascherati da poliziotti aveva
appena lasciato sul terreno centoventi bossoli e i corpi senza vita di sei
africani.
Era il 2008. Il giorno dopo tutta la comunità marciò per le strade del paese, sotto
la pioggia battente, spaccando tutto quello che trovava lungo il cammino. Fu un
vero riot, una rivolta spontanea e rabbiosa. In terra di camorra, diventava per
forza di cose una protesta antimafia. Eppure ancora oggi non sono scomparse le
ombre sulle vittime, sospettate di essere spacciatori da punire nell’ambito di
un regolamento di conti. I parenti, da anni, invece ribadiscono che si trattava
di lavoratori e, in qualche caso, di attivisti politici.
Nel casertano, infatti, era molto attivo un movimento che riuniva
missionari comboniani, centri sociali e rifugiati. Questi ultimi, per prima
cosa, aprirono vertenze col Ministero dell’Interno, chiedendo permessi di
soggiorno per tutti. Qualche settimana dopo la strage, scioperarono da Casal di Principe a Villa
Literno, da Afragola a Scampia. Si radunarono nei kalifoo ground,
le rotonde stradali dove all’alba venivano prelevati dai caporali. Quel giorno
non erano più manodopera a basso costo nei campi e nei cantieri. Alzarono
cartelli con scritto: «Oggi non lavoro per meno di 50 euro» e «Today I’m on
strike».
Un episodio importante e del tutto dimenticato, che aveva perso le
caratteristiche dello scoppio d’ira ed era diventato un movimento di lavoratori
che incrociavano le braccia e chiedevano un salario minimo. Anche quella lotta,
come un movimento carsico, sarebbe scomparsa per ricomparire molti chilometri
più a sud.
La rivolta
Una fuoriserie attraversa il centro di Rosarno. A bordo c’è il figlio
del boss. «Che strano», pensa. «Un corteo di africani armati di bastoni».
Mentre avanza a passo d’uomo, intorno a lui spaccano i vetri dei negozi e delle
auto. Il giovane boss è abituato a pensare che nessuno lo toccherà. Invece gli
africani, democraticamente, mandano in frantumi anche il suo parabrezza. Allora
scende e prova ad aggredire sia i migranti che i carabinieri. I quali gli
chiedono i documenti e – dopo aver constatato che si tratta di un latitante –
non possono fare a meno di arrestarlo.
Questo episodio è uno dei tanti della rivolta di Rosarno del 7 gennaio
2010. Tutto nasce quando un commando a bordo di un Suv scuro spara sugli
africani che incontra per strada. In tre rimangono feriti alle gambe. Si
diffonde la falsa notizia di quattro morti. Scatta la rivolta. In centinaia si
dirigono verso il paese. I danni sono soprattutto materiali: cassonetti
ribaltati, auto e vetrine danneggiate. Una donna rosarnese rimane leggermente
ferita.
Molti degli africani di Castel Volturno si erano spostati in Calabria e
vissero nuovamente quello che era successo in Campania. Proiettili nelle gambe
e slogan di rivolta. Soltanto l’epilogo fu diverso. Una vera “pulizia etnica”,
in migliaia furono trasferiti in poche ore sui furgoni della polizia per
salvarli dalle squadre di mafiosi che giravano con fucili e taniche di benzina.
In soli tre giorni sparirono tutti i lavoratori di pelle nera della Piana di
Gioia Tauro.
L’unica traccia tangibile di quei giorni è una scritta sul muro della ex
fabbrica da cui era partita la rivolta, un relitto abbandonato diventato un
immenso dormitorio. «We will be remembered», si leggeva. Nonostante
il momento drammatico, non si sentivano più migranti sfruttati, vittime del
destino, ma gli eredi della lotta plurisecolare contro la schiavitù, gente che
scrive la storia e consegnerà un futuro migliore ai propri figli.
Non tutti capirono, anzi. Sui media, nei giorni successivi prevalse la
narrazione della «bomba pronta a esplodere», come se la posta in gioco fosse
una generica convivenza tra bianchi e neri. La rivolta, invece, non era uno
scontro interetnico, ma una lotta per i diritti.
Gli scioperi
Se quelli in Calabria e Campania furono soprattutto riots, a Nardò si vide
uno sciopero vero e proprio. Il 31 luglio 2011, quaranta lavoratori stavano
raccogliendo pomodori per pochi euro a cassone, il cestone di plastica da tre
quintali. Si lavorava a cottimo. Erano subsahariani, arabi, bulgari e rumeni.
Un caporale chiese ai braccianti di dividere i pomodori in base alla grandezza.
«Va bene», risposero, «ma pagaci di più». «No», disse il caporale. «Gratis».
Di comune accordo andarono via interrompendo la raccolta. Poi, dopo un
accenno di blocco stradale, iniziò la prima assemblea. Yvan Sagnet era uno
studente camerunese sceso in Salento per pagarsi gli studi al Politecnico di
Torino. Rapidamente passò da raccoglitore di angurie a leader di quella
variegata umanità.
«Stasera un gruppo di persone mi ha minacciato di morte», disse col megafono ai lavoratori
riuniti in assemblea. «A tutte le forze invisibili, dico che non ho paura di
loro. Invitiamo tutti a non andare domani a lavorare. Lotteremo contro tutti
quelli che sfruttano la gente e che mangiano col nostro sangue. Vogliamo un
contratto come tutti i lavoratori del mondo. Tutto ciò che c’è di bello al
mondo si è ottenuto con la lotta».
Fu sciopero. Il primo interamente organizzato e gestito dai migranti. Non
fu soltanto una lotta contro il caporalato. Dietro le squadre di raccolta
c’erano i maggiori produttori della provincia di Lecce, che esportavano in
Germania e monopolizzavano il mercato. Lo sciopero ebbe un’eco enorme e un
risultato immediato, la prima legge anticaporalato approvata in Italia.
Ancora cinque anni e un altro sciopero avrebbe terrorizzato i produttori.
L’immagine di quella giornata è una bandiera rossa in primo piano e un palazzo
della più pura architettura fascista sullo sfondo. In mezzo, duemila sikh a
riempire piazza Libertà a Latina. Era il 12 aprile 2016. Nell’agro pontino si
vide qualcosa di inedito. Il motore dell’agricoltura locale, una comunità
stimata in 12mila punjabi, si fermava e manifestava pubblicamente, sotto le
bandiere del sindacato.
Non era stato facile. Un precedente tentativo era andato male a causa delle
minacce di licenziamento dei padroni, in un territorio dove lo sfruttamento è
garantito anche dalla violenza di neofascismo e camorra.
«Io sono un bravo lavoratore, sempre zitto, mai problemi. Io non faccio
come gli italiani che quando lavorano troppo, lasciano tutto e vanno via. Io
sto sempre zitto e lavoro ma mai soldi, come è possibile? Sono stanco: due,
tre, cinque mesi senza stipendio, non è vita così», racconta un lavoratore
indiano intervistato dalla cooperativa InMigrazione, che in un dossier ha
raccolto storie di salari dimezzati, pagamenti in ritardo, violenze e minacce.
Persino l’abitudine dei lavoratori a drogarsi per sopportare turni infiniti.
Chi sono i braccianti?
Quella che avete letto è una ricostruzione parziale delle lotte dei
braccianti di origine straniera nelle campagne italiane. Alla cronologia vanno
aggiunti almeno due episodi pugliesi. L’occupazione della cattedrale di Foggia,
il 10 ottobre 2017, con lavoratori e sindacalisti che chiedevano diritti e
documenti dopo l’ennesimo sgombero del Grand Ghetto, una immensa
baraccopoli, a base di ruspe e polizia.
E soprattutto la giornata del 25 agosto 2016, quando alcune centinaia di
braccianti bloccarono per quattro ore i cancelli della Princes, ancora una
volta nei pressi di Foggia. Un gesto simbolico straordinario, perché metteva in
diretta connessione la povertà dei migranti, costretti a vivere nelle casette
di cartone, e la multinazionale anglo-giapponese controllata dalla Mitsubishi,
produttrice di conserve di pomodoro esportate nel Regno Unito. Il primo e
l’ultimo punto di una filiera in cui il valore è distribuito in maniera del
tutto disuguale.
Fu il momento in cui le lotte dei braccianti divennero più simili a quelle
della logistica, un ampio movimento di scioperi che nel Nord Italia, da molti
anni, vede come protagonisti i facchini, quasi tutti di origine straniera e
organizzati nei sindacati di base…
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