Questo mese
di marzo, oltre ad essere il primo anniversario della caduta della città
rivoluzionaria siriana di Afrin e il primo mese senza califfato in Siria, sarà
il mese della tentata criminalizzazione degli italiani che il califfato, in
Siria, lo hanno combattuto. Proprio mentre migliaia di jihadisti e jihadiste
dello Stato islamico invocano la possibilità di tornare nei nostri paesi «per
ricostruirsi una vita», l’amico Luisi Caria, detto
«Luiseddu», un ragazzo sardo della provincia di Nuoro, viene proposto dalla
procura di Cagliari per la misura di prevenzione della sorveglianza speciale,
già proposta anche per me e per altri quattro torinesi, per essere
andato a combattere in Siria contro il sistema di morte e persecuzione che
quelle persone avevano messo in piedi. Quasi tutti, tra i proposti per la
sorveglianza speciale a Torino e Nuoro, siamo stati parte delle Unità di
protezione del popolo (Ypg) nel Rojava e nella Siria del nord.
Le Ypg sono
l’esercito popolare, formato prevalentemente da curdi, che dal 2014 – anno
dell’espansione dell’Isis, bloccata da questa forza a Kobane – ha distrutto
pezzo per pezzo lo Stato islamico in Siria. Non hanno combattuto da sole in
questa impresa: hanno formato nel 2015, d’accordo con decine di battaglioni
arabi ostili ad Assad, ma anche ai fondamentalisti, le Forze siriane democratiche
(Sdf), che comprendono anche unità formate dalle minoranze religiose cristiane
ed ezide. Le Sdf hanno costituito, e costituiscono tuttora, la forza di terra
della Coalizione internazionale formata dagli Stati Uniti nello stesso anno,
formata per debellare l’Isis. Proprio in questi giorni, dopo quasi cinque anni
di guerra, l’ultimo villaggio controllato dall’Isis, Baghuz, è stato liberato,
mettendo fine a un incubo per i siriani e a un’onta per i musulmani di tutto il
pianeta.
Ci si può
chiedere cosa c’entri un ragazzo sardo con tutto questo. Ci si può chiedere,
soprattutto, come sia possibile che una persona che non ha alcun obbligo di
rischiare la vita, né può guadagnarci del denaro (la partecipazione alle Ypg
non è retribuita), parta per un paese come la Siria e si metta in prima persona
in mezzo alla mischia rischiando la vita, per non parlare della sofferenza e
dell’angoscia che una scelta del genere può lasciare nei suoi familiari e negli
affetti, e delle difficoltà psicologiche che un’esperienza della guerra può
provocare.
È vero, una
persona come Luisi è inusuale. Nondimeno, non è l’unica ad aver fatto questa
scelta. Dal 2014 ad oggi sono state decine gli italiani che hanno scelto di far
parte delle Ypg, e assieme a loro centinaia di donne e uomini sono partiti e
sono tornati, per lo più nel silenzio e lontano dai riflettori, dalle regioni
curde del Rojava e da quelle arabe della Siria del nord e dell’est per svolgere
attività civili di supporto sanitario, educativo, operaio, d’informazione. È il
caso di Jacopo Bindi, a sua volta proposto a Torino per la
Sorveglianza speciale, come me e Luisi. Il contributo di Jacopo, Luisi e tutti
gli altri fa da positivo contraltare agli italiani – oltre cento – partiti per
vivere sotto lo Stato islamico o per combattere come miliziani jihadisti.
Adesso, catturati dalle Sdf, dicono di essersi sbagliati, di non aver capito
dove andavano, invocano pietà agli odiati “infedeli” e cercano di minimizzare i
crimini che hanno commesso.
Se i foreign
fighter dell’Isis hanno approfittato per anni di privilegi orrendi in un
sistema crudele, gli internazionalisti – con o senza armi – che hanno raggiunto
il movimento confederale del Rojava e della Siria del nord hanno supportato
l’unico tentativo esistente al mondo di modificare i rapporti sociali in una
direzione nuova, che tenga conto dei fallimenti o dei difetti dei tentativi
rivoluzionari del passato proponendo un mutamento della vita oltre le
condizioni di sfruttamento, discriminazione e violenza imposte dal capitalismo.
Scegliere questa prospettiva e quella rivoluzione, anche arrivando a
concludervi la propria esistenza – come nel caso del martire bergamasco Giovanni Asperti mancato a dicembre, nome di battaglia Hiwa Bosco – diviene perciò
possibile per chi, come Luisi, crede fino in fondo alla necessità di dare un
contributo per risolvere i problemi del mondo.
Gli
internazionalisti che ho conosciuto nella Siria del nord mi sono sembrati
ansiosi di approfittare dell’atmosfera rivoluzionaria per togliersi non poche
maschere, esistenziali ma anche politiche, che avevano indossato nei propri
paesi. Non ardevano dal desiderio di dimostrarsi più radicali degli altri, né
avrebbero impugnato l’arma che portavano con sé una volta in più del
necessario. Erano disposti a mangiare, dormire e combattere al fianco di
persone totalmente diverse per lingua e per cultura, nonostante non sempre sia
facile. Le vicende personali e le convinzioni politiche di molti di loro
sembravano spesso incompatibili le une con le altre, eppure si diceva sovente,
di questo o di quello (che magari in patria sarebbe stato cordialmente
detestato): «Insan ku bashe» o, in inglese, «He’s a good person». Più l’essere
umano penetra la realtà delle masse, entra nel processo storico costituente, si
confronta con la varietà dell’umano – non bella, ma anche meno brutta di ciò
che spesso pensiamo – più si rende conto che è questo che conta: giunti
all’essenziale, là dove la linea del fronte immaginario si dissolve in quello
reale, l’elemento etico fa la differenza.
Luisi,
che la procura di Cagliari dipinge come un terrorista, è una persona timida e
pacata. Come è stato detto di me, e come io ho detto di altri, sembra difficile
immaginarlo nei luoghi dove è stato e fare quello che ha fatto. Posso
testimoniare di ragazzi curdi o arabi, minuti, taciturni o mingherlini fare il
loro dovere con la mitragliatrice o assumersi responsabilità incredibili nel
cuore dei combattimenti. Usare un’arma, di per sé, non è difficile. Gran parte
di questa elucubrazione poliziesca sulla nostra «pericolosità» perché abbiamo
imparato i rudimenti dell’uso di alcune armi è frutto, oltre che di ipocrisia,
di una superfetazione immaginifica che c’è in occidente rispetto a questo tema,
divenuto da tempo scabroso. Abbiamo dimenticato chi coinvolge la guerra.
Abbiamo dimenticato cos’è il popolo. Non mi stupisce che tra gli Ypg italiani
che ho conosciuto non ci siano mai stati omaccioni imbottiti di steroidi. La
maggior parte delle persone, a ben vedere, non è così né in Italia né in Siria;
e una guerra civile, purtroppo, riguarda la maggior parte.
Se Luisi, il
19 marzo a Cagliari (data della sua udienza decisiva), o noi cinque a Torino,
il 25 marzo, saremo giudicati «socialmente pericolosi» dai rispettivi
tribunali, per tre anni non potremo uscire dal nostro comune di residenza, né
dalla nostra casa, dalla sera alla mattina. Dovremo presentarci continuamente
alla polizia e tenere addosso un libretto rosso dove gli agenti potranno
annotare tutto quel che vogliono. Come persone interessate alla politica,
desiderose di essere parte dei destini della nostra terra, saremo menomati e,
in qualche modo, resi “inoffensivi”.
Non
inoffensivi per la società, ma per il conformismo vile che è in tutti i sensi
al potere. Ci vedremmo revocati addirittura patente e passaporto, come se
fossimo incapaci di intendere e di volere. Queste misure comprendono
volutamente una forma di infantilizzazione e umiliazione della persona. Il
passaporto sarebbe tolto a Luisi, in particolare, per la seconda volta a
distanza di settimane. Dopo il sequestro seguito alle accuse di terrorismo a
settembre, infatti, gli era stato riconsegnato dall’autorità giudiziaria.
Quelle accuse, tentate dalla procura contro di lui e altri due sostenitori
sardi delle Ypg, si erano arenate nel giro di poco tempo perché prive di senso,
rendendo inevitabile la revoca del suo divieto d’espatrio.
È proprio
dopo questo fallimento che la polizia di Nuoro, la sua provincia di
provenienza, ha deciso di intervenire suggerendo alla procura di Cagliari di
passare da un’accusa impossibile da dimostrare a una persecuzione senza accuse:
la sorveglianza speciale.
Nell’ordinamento
giuridico italiano esiste infatti, benché molti non lo sappiano, uno spazio di
eccezione rispetto alla regola secondo cui l’individuo può essere privato delle
sue libertà soltanto attraverso accuse intellegibili e un processo. La
sorveglianza speciale per come la conosciamo oggi è stata introdotta dalla L.
n. 1423/1956, ma le sue caratteristiche essenziali vengono dritte
dalla concezione fascista delle misure preventive.
Come dice il
nome stesso, tali misure non si basano sull’individuazione di ciò che è
accaduto nel passato, ma su ciò che si pensa – o si finge di pensare – potrebbe
accadere in futuro. L’idea che qualcuno possa essere confinato e privato dei
propri diritti (persino della possibilità di riunirsi con più di due persone, o
di tenere interventi in pubblico) senza essere accusato di nulla, e soltanto
sulla base di un’indicazione della polizia, è classica del fascismo. Questo
spazio eccezionale non è stato, per quanto ciò possa stupire, espunto dopo la
guerra; anzi, negli anni Cinquanta e ancora in tempi recentissimi (a partire
dal decreto sicurezza del 2011), i margini di applicazione di queste misure
sono stati estesi.
Perché
questo accanimento contro chi ha combattuto l’Isis? Agli atti del procedimento
c’è una comunicazione del 2 ottobre 2018 del procuratore aggiunto Emilio Gatti al coordinatore del “Gruppo 3” della
procura di Torino Cesare Parodi, nella quale si
avanza
«la richiesta di applicazione di Misure di prevenzione personali a
cittadini italiani aderenti all’Ypg e all’Ypj […] per avere preso parte a un
conflitto in un territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue
le attività terroristiche di cui all’art. 170 sexies del codice penale».
Il giorno
stesso, con solerzia, Parodi compila la scheda di iscrizione per me e gli altri
quattro volontari torinesi a «misure di prevenzione personali antiterrorismo»
vista «la segnalazione della Digos di Torino». Nell’incipit della convocazione
torinese è stato anche inserito un richiamo all’operato della procura di
Cagliari, come a voler sottolineare una dinamica nazionale. Alla richiesta
torinese è seguita a ruota a dicembre quella della Digos di Nuoro per Luisi, e
alla prima udienza contro Luisi, lo scorso 21 febbraio, il pm ha citato come
testimone indispensabile il questore di Nuoro, a testimonianza del ruolo
centrale delle forze di polizia.
Queste
ultime, negli ultimi mesi, hanno agito in due regioni dello stato italiano con
un evidente parallelismo cronologico per ottenere ciò che la magistratura non è
stata ad ora in grado di produrre: la criminalizzazione e la vessazione
politica delle Ypg, nelle persone degli internazionalisti che le hanno
supportate. Questo avviene con un tempismo particolare: a un anno dal primo
attacco turco contro il Rojava, ad Afrin, e mentre gli Stati Uniti cullano
l’idea di un disimpegno dalla Siria del nord. Nel frattempo, forte di un
sostegno ambiguo da parte della Russia, Erdogan punta apertamente ad occupare
l’intero Rojava a partire da Manbij, per poi proseguire a Kobane, Qamishlo ed
oltre. In questa situazione i combattenti e le combattenti curde non servono
più, ed anzi è possibile tornare alla loro usuale criminalizzazione in quanto
militanti di un movimento anticapitalista.
C’è anche
dell’altro. Le questure italiane si trovano oggi ad agire alle dipendenze di un
Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che
ha sempre fatto gran mostra – nelle sue permanenti campagne elettorali – di
considerare l’Isis un problema da affrontare con durezza. In più di
un’occasione, quando il fenomeno riempiva i teleschermi con attentati e
decapitazioni, insisteva dall’opposizione sulla necessità di muovere armi e
truppe contro i miliziani del califfato, o meglio contro quelle «bestie», come
le chiamava, che attaccavano le nostre città, per arrivare una volta a dichiarare,
su Radio24, che sarebbe stato disposto a combattere l’Isis, in Siria,
addirittura in prima persona.
È chiaro che
le parole del leader della Lega non erano serie né sincere. Da quando lui e i
suoi alleati sono al governo gli affari dell’Italia con paesi islamisti e
oscurantisti come Turchia e Arabia Saudita vanno a gonfie vele, per non parlare
degli aguzzini libici che tengono in scacco diverse città costiere e
dell’entroterra, i quali hanno una visione intollerante non così diversa da
quella dei miliziani siriani che io, Luisi e gli altri abbiamo combattuto a
Raqqa o a Manbij. La Lega punta a capitalizzare l’identificazione indebita
dell’islam con il fondamentalismo islamico, sua corrente specifica, e dei
movimenti migratori con un’invasione islamica, magari islamista (cioè orientata
al fondamentalismo). Nel frattempo il governo Conte rinsalda relazioni
politiche con il neo-sultano Erdogan e con i miliziani libici per trasferire su
quegli attori politici il contenimento delle migrazioni verso i nostri confini.
Come dire: politiche e messaggi sbagliati e controproducenti tanto sul piano
teorico, quanto su quello pratico.
Il governo
turco alleato di Conte e Salvini, che ha finora incassato sei miliardi dei
contribuenti europei grazie al ricatto dei profughi siriani, sta creando un
esercito jihadista in Siria che occupa Idlib e Afrin ed è pronto a muovere
verso Manbij e Raqqa, riportando i territori liberati dalle Ypg sotto i
tribunali della sharia. L’intera opera di
liberazione politica compiuta dalle Ypg-Sdf in Siria, a costo di migliaia di
martiri, rischia di essere vanificata dalle manovre turche, senza parlare della
destabilizzazione regionale che la politica di «rinnovamento islamico»
oscurantista e violento della Turchia porta con sé.
Salvini
blocca di tanto in tanto qualche decina di persone su una nave lungo le coste
della Sicilia, millantando di agire per la sicurezza degli italiani, e nel
contempo rinsalda rapporti pericolosi tanto per gli italiani quanto per i
mediorientali, ponendo le fondamenta concrete, ben al di là della propaganda,
per i nuovi “Isis” di domani, qualunque sarà il loro nome; e mentre fa visita
in carcere a chi ha usato un’arma contro un uomo disarmato che aveva rubato
qualche litro di gasolio, coordina la persecuzione poliziesca di persone la cui
unica colpa è aver agito (armati, perché non c’era altra scelta) contro quel
califfato che a portato morte e distruzione nelle città europee.
La campagna
di criminalizzazione avviata dalle procure di Torino e Cagliari contro i
volontari italiani delle Ypg va letta all’interno delle relazioni, dei contesti
e delle implicazioni che la rendono possibile. Essa attua un tentativo
tutt’altro che scontato, giacché la sensibilità delle popolazioni dell’Italia e
dell’Europa tende a considerare la nostra scelta sacrosanta e i movimenti
jihadisti un nemico.
La nostra
esperienza, però, è di per sé una smentita delle teorie che oggi si fanno
pratica di governo: abbiamo vissuto tra i mediorientali, molti dei quali
musulmani, e abbiamo avuto il privilegio di contribuire alla sconfitta
dell’Isis grazie alle rivoluzioni e ai movimenti di libertà che loro hanno
costruito. Abbiamo toccato con mano i vantaggi di una collaborazione tra stili
di vita e religioni diverse per un cambiamento che sia utile a tutti. Abbiamo
anche visto quali condizioni di (non) vita inducono tanti esseri umani a
mettersi in viaggio verso altri paesi, e riscontrato quanto sia profonda la
consapevolezza sociale delle responsabilità coloniali (economiche e politiche)
dell’intera Europa, ieri e oggi, verso le società dell’Africa e dell’Asia
occidentale. Per questo non è impossibile vedere una razionalità politica
nell’ostilità di un ministro come Salvini nei nostri confronti; ma questa
razionalità può con successo toglierci la parola soltanto nella misura in cui
la popolazione italiana è tenuta all’oscuro di ciò che ci stanno facendo e di
ciò che ci accade.
Per questo
invito tutti a mobilitarsi, in questo mese di marzo, per la denuncia di queste
manovre di polizia e per la tutela della reputazione delle Ypg e delle Ypj e
della libertà degli internazionalisti, anzitutto a partire dal web.
* Davide
Grasso ha pubblicato reportage indipendenti dagli Stati Uniti e dal
Medio oriente e diversi articoli di filosofia dell’arte e teoria della realtà
sociale. Nel 2013 ha pubblicato New York Regina Underground. Racconti dalla Grande
Mela per Stilo Editrice. Dal 2015 è attivo tra Europa e
Siria in sostegno alla Federazione democratica della Siria del Nord. Nel 2016
si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere Daesh. La sua
esperienza è raccontata nei libri Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in
Siria, uscito per Edizioni Alegre nella collana Quinto Tipo
curata da Wu Ming 1, e Il
fiore del deserto. La rivoluzione delle donne e delle comuni tra l’Iraq e la Siria
del nord, Agenzia X, Milano 2018.
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