Perché avete deciso di pubblicare sul
vostro sito le bozze di intesa? [del regionalismo differenziato] R. Perché su scuola e università si gioca tutto il
futuro del Paese. Da anni scriviamo che le politiche sulla scuola e
sull’università in Italia […] sono state sequestrate dai “tecnici”, in
particolare da una scuola di “economisti dell’educazione” che hanno imposto nel
dibattito pubblico le parole chiave che sono state poi adottate dai governi
prima di centro-destra poi di centro-sinistra. Le bozze di intesa nascono in
questo clima, ed era importante renderle pubbliche subito. […] La questione
delle autonomie regionali di Emilia Romagna, Veneto, Lombardia – di cui stiamo
dibattendo – non è un “affare” delle regioni che le hanno richieste. Gli
effetti con cui tali autonomie si realizzano, con modalità e portata differenti
a seconda dell’interpretazione e delle materie di delega che ciascuna regione
ha invocato, investono tutti gli italiani. E questo soprattutto quando si parla
di diritti fondamentali come la sanità e l’istruzione. La creazione di sistemi
regionali con risorse e regole differenziate amplierà i divari regionali; ci
saranno scuole e università ricche per le regioni più ricche e, scuole e
università povere per le regioni più povere. Non è difficile immaginare che
nelle regioni povere si creeranno scuole private che saranno canali di accesso
privilegiato per il transito nelle università ricche delle regioni ricche. Gli
studenti capaci e meritevoli privi di mezzi delle regioni povere saranno
intrappolati in scuole di serie B e in università di serie B.
Quali sono a vostro avviso i
provvedimenti più urgenti da affrontare in materia di scuola e
università? R. ...
Pubblichiamo di
seguito la versione completa dell’intervista a Redazione ROARS che è stata
pubblicata il 2 marzo 2019 su Lettera 43:
Gli effetti negativi del regionalismo differenziato sul sistema scuola
Gli effetti negativi del regionalismo differenziato sul sistema scuola
1. Quali sono i cambiamenti che può
introdurre nel mondo dell’istruzione il regionalismo differenziato sulla base
delle bozze di intesa per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna?
Prima di rispondere alla domanda, una
premessa. La questione delle autonomie regionali di Emilia Romagna, Veneto,
Lombardia – di cui stiamo dibattendo – non è un “affare” delle regioni che
l’hanno richiesta. Gli effetti con cui tali autonomie si realizzano, con
modalità e portata differenti a seconda dell’interpretazione e delle materie di
delega che ciascuna regione ha invocato, investono tutti gli italiani. E questo
soprattutto quando si parla di diritti fondamentali come la sanità e
l’istruzione. Per quest’ultima, ad esempio, l’introduzione dell’autonomia
regionale, non produrrebbe semplici “cambiamenti” di natura gestionale,
organizzativa, contrattuale, che pure paiono di notevole entità. Il punto da
sottolineare è un altro: dal momento in cui si lega il tema dell’autonomia
differenziata al gettito fiscale, si introduce il principio in base al
quale l’accesso al diritto all’istruzione diventa funzione
della residenza. La volontà di trattenere la quasi totalità del gettito
fiscale (si parla dei 9/10 per il Veneto) nel territorio regionale, ferme
restando le risorse complessive dello stato, introduce un elemento di
differenziazione nell’accesso a un diritto primario, che diventa invece
subordinato alla ricchezza del territorio. A questo è direttamente connessa
l’idea di Scuola e i compiti che, come società, riteniamo debbano esserle affidate.
Crediamo che la Scuola NON abbia come compito quello di formare cittadini
veneti, cittadini lombardi, cittadini emiliani e via andare, rendendoli capaci
di affrontare al meglio il mondo e il mercato del lavoro. Compito della scuola
NON è quello di rispondere all’indirizzo politico dei governatori regionali.
Crediamo che la Scuola, e l’Istruzione in generale, abbia il compito di mettere
i cittadini italiani nelle condizioni di diventare membri consapevoli, critici
e SOLIDALI di una comunità nazionale e non particolaristica, i cui valori e i
cui principi sono custoditi nella Carta costituzionale.
La cosiddetta “identità” di una nazione –
a cui molti degli attuali sostenitori della autonomia differenziata si sono
sempre richiamati – si edifica attraverso la condivisione di un patrimonio
comune fatto di idee, memorie, tradizioni, eroi e protagonisti, insomma di una
narrazione che lega insieme, come un ordito, i diversi aspetti della vita
nazionale e nella quale i singoli si sono distinti non in quanto portatori di
un particolarismo asfittico, ma a condizione di essere protagonisti di una
storia nazionale a partire dalla loro esperienza locale. L’unità d’Italia è
stata edificata facendosi ciascuno interprete di un sentimento comune
nazionale, e non per alimentare l’egoismo delle singole regioni. I grandi padri
che hanno edificato l’Italia avevano ben chiaro in mente tutto ciò e hanno
appunto per questo puntato alla creazione di una scuola unitaria, diffusa sul
territorio nazionale, quanto più universale possibile e dai contenuti uniformi.
Mettere in discussione tutto ciò significa negare la stessa idea che è stata
alla base dell’unità nazionale, significa di fatto regredire alla condizione
dell’Italia preunitaria, quando piccoli staterelli gelosi della propria autonomia
erano facile preda delle grandi potenze del tempo. La stessa circolazione degli
insegnanti su tutto il territorio nazionale – che con l’autonomia verrebbe
messa in crisi, almeno al sentire certe dichiarazioni di regionalizzazione del
corpo docente – ha avuto una forte funzione di assimilazione e di superamento
degli egoismi e dei sospetti reciproci, una funzione fondamentale nella
unificazione intellettuale e culturale del paese.
2. In che modo l’intesa con l’Emilia
Romagna si differenzia da quella per Lombardia e Veneto?
Per quel che riguarda l’istruzione, e
limitatamente alla bozza pubblicata e datata 20/12/18, nell’intesa emiliana
leggiamo la richiesta (art. 1 comma b) di “particolare autonomia” in tema di
“istruzione tecnica e professionale, istruzione e formazione professionale e
universitaria” e non, come per Veneto e Lombardia (art 2. comma 2, 3) in
“materia di norme generali sull’istruzione e istruzione”.
La differenza sostanziale è qui, e
riguarda una vera e propria ridefinizione su scala locale dell’idea di
istruzione ed educazione. Idea che deriva da un substrato culturale e da un
portato storico ineludibili di ascendenza celtico-padana, che richiamano
quell’auto-rappresentazione e quei miti di efficienza, merito e
abnegazione che lo stesso ministro Bussetti ha eloquentemente
sintetizzato qualche giorno fa in visita nelle scuole del
napoletano: “impegno lavoro e sacrificio”
Non per caso, nei testi di intesa
lombardo veneti (art. 10) si chiede fra le altre cose l’attribuzione alla
regione della:
·
“disciplina e finalità, delle funzioni e
organizzazione del sistema educativo regionale di istruzione e formazione,
anche specificandone le finzioni in relazione al contesto sociale ed economico
della Regione”
·
“disciplina e modalità di valutazione
del sistema educativo regionale [..] mediante l’introduzione di ulteriori
indicatori di valutazione legati al territorio.
3. Quali sono i punti dell’iniziativa a
vostro avviso più controversi?
Non ci sono punti “più controversi”. E’
l’iniziativa tutta ad essere drammaticamente controversa, specie per un aspetto che tutta la caratterizza:
l’assenza di una discussione pubblica su un argomento di tale importanza e
portata e la esautorazione del parlamento da ogni possibilità di intervento. Il
che dà una inevitabile impressione di “coda di paglia”, di chi avrebbe voluto
far passare la questione con quanta meno pubblicità possibile, attraverso
accordi sostanzialmente riservati e senza occhi indiscreti e critici. Insomma
l’impressione che sia voluto attuare un vero e proprio colpo di mano.
4. Si parla di “Secessione dei ricchi”.
E’ a vostro avviso realmente così? In che modo l’iniziativa è destinata ad incidere
negativamente sull’uguaglianza fra cittadini in materia di scuola e università?
La creazione di sistemi regionali con
risorse e regole differenziate amplierà i divari regionali; ci saranno scuole e
università ricche per le regioni più ricche, e scuole e università povere per
le regioni più povere. Non è difficile immaginare che nelle regioni povere si
creeranno scuole private che saranno canali di accesso privilegiato per il
transito nelle università ricche delle regioni ricche. Gli studenti capaci e meritevoli,
ma privi di mezzi delle regioni povere saranno intrappolati in scuole di serie
B e in università di serie B.
5. Perché a vostro avviso non c’è stato
un ampio dibattito pubblico/parlamentare su un tema così importante? Perché
avete deciso di pubblicare sul vostro sito le bozze di intesa?
Perché su scuola e università si gioca
tutto il futuro del Paese. Da anni scriviamo che le politiche sulla scuola e
sull’università in Italia non sono mai state oggetto di dibattito pubblico. Le
politiche sono state sequestrate dai “tecnici”, in particolare da una scuola di
“economisti dell’educazione” che hanno imposto nel dibattito pubblico le parole
chiave che sono state poi adottate dai governi prima di centro-destra poi di
centro-sinistra. Le bozze di intesa nascono in questo clima ed era importante
renderle pubbliche subito.
6. Sulla piattaforma change.org si
stanno raccogliendo firme per fermare la “secessione dei ricchi”. Sono utili
iniziative come questa?
Sono poche le voci che si sono mosse
contro la secessione dei ricchi. Gianfranco Viesti che ha promosso la raccolta
firme, è con Marco Esposito, giornalista de Il Mattino di Napoli, una delle
poche voci critiche che si sono levate per tempo a denunciare la secessione dei
ricchi. Le firme, da poche migliaia, sono gradualmente cresciute fin oltre
quota 50.000. In un contesto in cui i mezzi di informazione e la politica
avevano sottovalutato la portata del progetto in corso, la raccolta firme ha
avuto un duplice ruolo: non solo quello di sensibilizzare i cittadini, ma anche
di misurare la crescente consapevolezza del problema nell’opinione pubblica.
Una consapevolezza testimoniata anche dall’iniziativa dell’editore Laterza che
ha pubblicato e distribuito
gratuitamente un breve saggio di Gianfranco Viesti,
significativamente intitolato “La secessione dei ricchi”. Un contributo che va
ad aggiungersi alla documenta analisi di Marco Esposito che in “Zero al Sud”
(Rubbettino 2018) aveva ricostruito in dettaglio le modalità con cui il
federalismo fiscale finisce per cristallizzare e legittimare gli squilibri
territoriali.
7. Il rapporto Invalsi 2018 ha rilevato
come la preparazione degli studenti meridionali sia meno consistente
di quelli del Centro-Nord e in particolare che “gli studenti del Nord-Ovest e
del Nord-Est fanno registrare risultati migliori in matematica, italiano e
inglese. Resta nettamente indietro il Sud, con risultati peggiori e un sistema
definito meno equo”. Siamo in presenza di due Italie in materia di istruzione?
Da dove originano queste marcate differenze?
A dire il vero non è il rapporto INVALSI
2018 a registrare il divario Nord-Sud nelle abilità (Italiano, Matematica)
misurate dai test standardizzati. Alla stessa conclusione, da ormai 10 anni,
giungono inesorabilmente tutti i rapporti INVALSI redatti a valle dei test di
fine anno scolastico. Il tema è ampio e articolato ed è stato in numerose e
ripetute occasioni affrontato sulle schermate di ROARS.
Senza entrare nel merito di questioni di tipo tecnico (cosa
misurano i test standardizzati? su quali modelli statistici sono basati? quali
sono i loro limiti?..), pure da autorevoli
voci sollevate e mai contraddette, è bene, ancora una
volta, sottolineare che la conoscenza delle disparità in campo educativo, nel
nostro Paese, non è frutto prezioso delle ricerche e delle analisi condotte
dall’Istituto di Valutazione del Sistema Nazionale INVALSI. La sempre più
fiorente attività e risonanza mediatica di quest’ultimo, piuttosto, vanno lette
in funzione:
1) del crescente peso che i test hanno
assunto nei percorsi di valutazione di tutti i soggetti coinvolti a vario
titolo nella relazione scolastica (studenti
“certificati” in diversi traguardi dall’INVALSI,
insegnanti e dirigenti, valutati in maniera più o meno diretta da indicatori
elaborati dall’INVALSI, addirittura bambini, stando al mai
smentito “progetto
pilota” INVALSI VIPS, realizzato in alcune scuole
d’infanzia italiane…);
2) di una precisa (e preoccupantemente
dilagante su scala globale) concezione dei processi educativi,
basata sulla raccolta di “evidenze” standardizzate da quantificare e comparare;
evidenze presunte oggettive semplicemente perché numeriche, e dunque ritenute
per ciò solo più affidabili dei giudizi e dell’esperienza delle comunità
professionali.
Quanto ai divari territoriali, tema su
cui la letteratura pedagogica e sociologica s’interroga da lungo corso,
la loro origine – inutile dirlo – sta nella storia che ha condotto alla
formazione della scuola unitaria del nostro Paese: una storia politica,
sociale, economica. Quanto al loro perdurare, esso non può essere derubricato
come una mera questione di dislivelli di “capitale umano”. La parola “equità” –
che l’INVALSI scomoda ad ogni piè sospinto – va sostanziata e accompagnata
politicamente: non si realizza con “più valutazione” o “più indicatori”.
L’equità è un “lusso”, un investimento politico-economico, una visione, un
progetto di società. Che costa e va sostenuto con scelte, programmazioni e
misure di sostegno adeguate. E di fronte a una
simile diagnosi, ammesso che essa sia corretta nella gran parte, ci si può
porre in due modi: o rassegnarsi ad essa e quindi decidere di puntare e
ulteriormente finanziare avvantaggiandole le realtà che già hanno migliori
performance; oppure porsi il problema del superamento del divario e quindi
pensare a delle soluzioni e a una programmazione a ciò rivolta. Nel primo caso
abbiamo il progetto delle autonomie regionali che, disinteressandosi del
destino del paese nel suo complesso, mira a salvaguardare le proprie isole di
“eccellenza”; nel secondo caso si ha invece un’idea di nazione che insieme deve
superare i propri limiti e punti critici, senza abbandonare parte del paese a
se stesso. E in un mondo dalla competizione globale, la divisione (come è
avvenuto con la balcanizzazione della ex Jugoslavia) è la via che porta
sicuramente alla emarginazione e alla irrilevanza.
8. Mario Barcellona su Il sussidiario ha
affermato che “Di questa questione, che concerne, innanzitutto, l’autonomia
differenziata di Lombardia e Veneto, le opposizioni non parlano affatto,
e pour cause dato che proprio esse ne sono all’origine. Essa
risale alla sciagurata riforma dell’art 116 Cost. voluta nel 2001 da D’Alema,
che prevedeva la possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il
trasferimento di competenze ad esso riservate (soprattutto istruzione e sanità)
ed all’indecente “pre-intesa” proditoriamente stipulata dal governo Gentiloni
ad esecutivo ormai praticamente scaduto con la Lombardia ed il Veneto. Perché
quel governo l’abbia stipulata non si sa: per una ingenua captatio
benevolentiae dell’elettorato del Nord? per colpevole collusione con un
establishment che nel settentrione ha in larga prevalenza le proprie radici ed
i propri interessi e che, con sguardo miope, si aspetta di ricavarne benefici
economici diretti o indiretti?” o solo perché la pattuglia berlusconiana
guidata da Verdini, di dritto o di storto, si è fatta valere? “ Quali
sono secondo voi i motivi reali per cui quel governo l’ha stipulata?
R.: La riforma del 2001 è figlia della
malriposta ambizione con la quale la sinistra di governo seguita al primo
Governo Berlusconi ha primapensato di riuscire a imbrigliare sul
piano tecnico l’istanza politica che l’avvento della Lega Nord aveva posto al
Paese (anche con toni preoccupanti: si è cercato di farlo credere, ma non
vanno archiviati solo nel folklore i fatti di Piazza San Marco
del 9 maggio 1997) e poi di avvalorare,
facendosene alfiere sul piano politico, il cattivo risultato tecnico di
quell’ambizione. Detto questo, occorre riconoscere che il lungo
processo istituzionale che ha partorito la riforma del 2001 ha visto
all’opera i migliori costituzionalisti di cui il Paese appariva dotato in
quegli anni ed ha conosciuto un momento di ratifica popolare – sia pure assai
parziale – con il referendum confermativo del 2001, in esito al quale
10.438.419 italiani su un totale di 49.462.222 di iscritti alle liste si
portarono alle urne per dirsi rassicurati da quel risultato. La formulazione
assai vaga del secondo comma dell’attuale art. 116 cost., figlio abborracciato
e poco dibattuto (fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori) di
quella riforma, è all’origine della totale opacità e semiclandestinità con
cui il PD, uscito sconfitto dal referendum del 4 dicembre 2016, ha avviato il
percorso che ha prodotto gli accordi (in gergo definiti pre-intese) firmati dal
Governo Gentiloni, quando ormai la compagine di quel governo era
consapevole di essere destinata a uscire di scena.
Data la premessa, alla domanda si può
rispondere con quattro tesi.
A) Tesi
dell’autoillusione. Candidarsi a “gestire tecnicamente” la pulsione
proveniente dal Lombardo-Veneto a trazione leghista, per illudersi di
intercettare un elettorato saldamente e storicamente collocato nella pancia più
profonda della Lega.
B) Tesi del “Muoia Sansone”.
Lasciare una polpetta avvelenata, per un verso destinata a vendicarsi
di chi non aveva voluto dar credito al referendum del dicembre del 2016,
per l’altro avviata a deflagrare nella scena politica che sarebbe seguita alla
irrefrenabile caduta che il PD era consapevole di fronteggiare in quel momento
politico.
C) Tesi dell’insipienza.
Eminenza grigia di quelle intese è stato, il senatore PD – nato a Belluno
– Gianclaudio
Bressa, il cui curriculum politico offre modo di verificarne la
presenza in tutti i momenti e i luoghi nei quali il processo istituzionale
sfociato nel Regionalismo differenziato – e ben prima del 2001 – si è andato
dipanando. Aver lasciato che un agente perfettamente allineato alle
istanze primordiali che hanno gonfiato le vele della Lega fin dalla prima ora e
sempre strategicamente attento a osservare un silenzioso
understatement presidiasse questo delicatissimo campo, senza affiancargli
uno o più esponenti del partito che fossero interpreti dell’elettorato PD del
CENTRO e SUD Italia, offre una cartina di tornasole assai probante per valutare
un partito che nelle sue strutture e gerarchie interne ha da lungo tempo
smarrito la capacità di istituire quella capacità di studio, sintesi e
coesione che faceva storicamente parte del DNA della sinistra italiana quando
determinava le sue direttive di azione sui problemi della società italiana, e
che non da oggi appare percorso da tanti secondari leader territoriali, il cui
orizzonte politico non sa vedere oltre i confini dei propri bacini
elettorali. In tal senso una dinamica simil-leghista mostra da
tempo di essersi impossessata della tradizione e della struttura
decisionale del maggiore partito di quell’area politica che un tempo era la
sinistra italiana. La responsabilità di questa incapacità politica è comunque
oggettiva e ricade integralmente su chi ha guidato il PD nei due governi che
hanno preceduto le elezioni politiche dello scorso anno.
D) Tesi di “San Matteo” (a chi
più ha, più sarà dato). C’è, però, un’ulteriore ipotesi, che, più che
un’ipotesi distinta è, forse, il terreno di coltura nel quale sono germogliate
quelle prima illustrate, l’ambiente entro il quale esse possono aver trovato
modo di delinearsi. La riforma promette di concentrare nel NORD del paese, e
non una tantum, bensì annualmente e in modo non reversibile, quote
importanti di quelle risorse che sono solite transitare attraverso una manovra
di bilancio. Buona parte di queste risorse saranno assorbite dall’estensione
delle commesse dei diversi centri di spesa (soprattutto dalla sanità), da
incrementi stipendiali degli addetti ai servizi trasferiti (soprattutto della
scuola) e da nuove assunzioni di personale regionale. Questo immette nello
scenario applicativo di un regionalismo differenziato divenuto realtà una
inaspettata crescita della domanda, tanto di merci e servizi, quanto di beni di
consumo. Una crescita in grado di auto-alimentarsi all’infinito, perché gli
incrementi della domanda si traducono in incrementi delle produzioni, i quali,
ricorsivamente, incrementano la domanda. Già oggi, questo effetto San Matteo si
realizza nei fatti, accompagnando i giovani del SUD che si trasferiscono a
studiare al NORD, grazie ai sacrifici delle famiglie meridionali che
ancora hanno la possibilità di sostenere economicamente le attese di futuro dei
propri figli. Non è difficile immaginare, allora, come l’autonomia
differenziata costituisca un grande e appetibile business per
il sistema economico del NORD. Il quale già oggi costituisce il nerbo del
sistema produttivo nazionale. Tutto ciò spiega le scelte compiute e dà conto
dell’autoillusione e dell’insipienza: l’una e l’altra si rendono comprensibili dentro
un quadro dove le ragioni del sistema produttivo e dell’establishment che
lo sostiene hanno finito per costituire l’ambiente a partire dal quale si
pensa, ovvero ciò che, rispettivamente, orienta le aspettative e seleziona
l’attenzione del sistema politico. E’ in questo quadro che la politica continua
senza ripensamenti a far proprie le ragioni di chi conta e pesa di più. Desta
rammarico che recenti analisi tentino
ancora una volta di annegare il punto in una visione ostentatamente tecnica del
problema, perdendo di vista (o maliziosamente occultando) l’orizzonte e il
senso nel quale questo “problema tecnico” viene a collocarsi nel tempo presente.
Orizzonte e senso che, per continuare a tenere assieme il Paese ed evitare
l’insorgere di conflitti laceranti, dovrebbero restare fermamente collocati sui
binari solidali tracciati dagli articoli 2; 3, comma secondo; e 53 della nostra
Costituzione.
9. Capitolo esami di Stato. Secondo i
dati del Miur nel 2018 le regioni le Regioni con il più alto numero di lodi
sono Puglia (1.066), Campania (860) e Sicilia (560). La Lombardia risulta
in fondo alla classifica con lo 0,6% e poi sugli stessi valori si trovano
Piemonte, Trentino, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, con lo 0,9%. Se in Italia
meridionale c’è una scuola più disagiata, ci sono anche valutazioni
d’eccellenza. E’ a vostro avviso più un problema di finanziamenti ministeriali
o di qualità della formazione del personale docente?
Provocatoriamente, si potrebbe dire che
la domanda è mal posta. Non si può certo affermare che a maggior disagio
corrisponda maggiore “generosità meridionale” o maggiore eccellenza!
Basterebbe leggere l’articolo di
Giuliano Laccetti. In precedenza su ROARS Fabrizio
Alboni e Giorgio Tassinari hanno studiato questo fenomeno con metodologie
statistiche in grado di isolare l’effetto dell’area geografica da quello delle
altre caratteristiche. Rimandiamo alla loro analisi chi fosse interessato a una
decostruzione tecnica della narrazione dei 100 e lode. In questa sede, per
capire l’uso strumentale che ne è stato fatto, basterà ricordare un dato assai
semplice: a dispetto della vulgata corrente, l’effetto-regione risulta assai
più accentuato nelle regioni dell’Italia Centrale, smentendo così le
insinuazioni sul cosiddetto lassismo delle scuole del Mezzogiorno.
10. Cosa non ha funzionato nella riforma
della buona scuola e cosa non sta funzionando ora?
Come già detto sub 8, la Buona Scuola (legge
107/2015), a dispetto dell’ambizioso titolo di ””Riforma del sistema nazionale
di istruzione e formazione” non fa che perfezionare e portare a compimento
oltre un ventennio di interventi normativi che, da Berlinguer (legge Bassanini
1997) in avanti, hanno progressivamente – ed in modo sempre più sfacciato
-spinto l’istruzione nella direzione di maggiore
autonomia, concorrenza fra
istituti, gerarchizzazione e gestione di tipo manageriale dei
rapporti di lavoro, riduzione delle
finalità educative e formative ad obiettivi di marca
economicistica, misurabili e standardizzabili. In quest’ottica, la
Buona Scuola sta svolgendo perfettamente il proprio lavoro,
checché ne dicano i
dirigenti dell’Associazione Nazionale Presidi, che recentemente e d’accordo
con la senatrice PD Malpezzi, hanno rivendicato più ampi margini di manovra
nella selezione dei docenti e della progettazione curricolare, la quale
andrebbe riorganizzata in termini di
competenze certificabili e riconoscibili a livello (di
mercato) internazionale. A nulla è valsol’avvicendarsi
di un nuovo esecutivo, che non si è – tuttavia – limitato a non dare alcun
segnale di discontinuità rispetto alle politiche
scolastiche precedenti, ma – cosa prevedibile – ha perseguito nella progressiva
riformattazione del ruolo dell’istituzione scolastica a
mero servizio individuale e territoriale: l’istruzione è ridotta a vantaggio
competitivo da potersi giocare nel mercato della formazione locale. In questa
prospettiva, il tanto proclamato quanto demagogico “successo formativo”,
diventa funzione non solo del reddito delle famiglie – ma, in epoca di
autonomia rafforzata, del reddito delle famiglie venete, lombarde ed
emiliane. Più diritti a chi è più ricco.
11. Perché la scuola ha smesso di essere
uno strumento di ascensione sociale, specie al sud?
Si può rispondere con un’altra
domanda: come potrebbe mai essere la Scuola – ancor più al Sud – uno
strumento di mobilità in una società
nella quale – a livello globale – l’82% dell’incremento
di ricchezza è nelle mani dell’1% più ricco della
popolazione e – nel nostro paese – il 20% più ricco
degli italiani detiene oltre il 66% della ricchezza
nazionale netta? O anche: di quale ascensore si può mai parlare nella nazione
che in ambito OCSE nel periodo 2008-2014 è il paese che più di ogni altro ha
tagliato la spesa pubblica destinata all’istruzione? (fonte: Education at a
Glance 2017).
Concepire la scuola come uno strumento
macroeconomico (il solo?) di riequilibrio delle “dotazioni di partenza” (M. Franzini, M
Raitano, 2018) riflette una visione limitata e inadeguata. Da un
lato, schiaccia la funzione dell’istruzione – ridotta a puro Capitale
Umano – sulla sola riproduzione sociale, eliminandone la funzione civile, di
cittadinanza, al servizio dell’uomo. Dall’altro, non riesce – tanto più all’interno
di una cornice culturale basata sulla triade merito/efficienza/prestazione – a
correggere il dato di partenza, a “livellare il terreno di gioco”. Le politiche
che hanno condotto alla Buona Scuola, legittimate dalla parola chiave
“meritocrazia”, hanno prodotto un’istruzione che è sempre più quella del
primato della ricchezza, della famiglia, del territorio.
12. Quali sono a vostro avviso i
provvedimenti più urgenti da affrontare in materia di scuola e università?
In ordine alla scuola:
·
Fermare in parlamento l’iter del
processo di autonomia differenziata regionale;
·
Fermare gli attuali lavori della Commissione
preposta (da chi è composta?) alla riscrittura del Testo
Unico attualmente vigente (D.Lgs 297/1994), prevista dal comma 181 della L
107/15 e aprire un dibattito pubblico sulle delicate questioni ad essa
connessi:riordino degli organi collegiali e dell’organizzazione scolastica.
·
Abrogare la legge 107/15 e ri-pensarne,
dopo ampio e serio dibattito pubblico e con i dovuti investimenti a corredo,
i nodi cruciali:
1.
i) percorsi di reclutamento dei
docenti e il sistema di formazione;
2.
ii) l’alternanza scuola-lavoro,
da eliminare e lasciare alle differenti opportunità delle singole istituzioni
scolastiche;
iii) valutazione: abrogare
il regolamento del 2013 (DPR 80) e separare la valutazione di sistema
da quella dei lavoratori e degli apprendimenti degli studenti.
La prima, intesa come
rapporto di efficacia-efficienza tra spesa e rispetto costi e scopi sia
qualitativi che quantitativi, da affidare ad enti pubblici in ruolo di terzietà
(ad es. Istat), con risultati su dati statistici di frequenza, dispersione,
conseguimento titoli resi pubblici e analizzati al fine di studiare gli effetti
di struttura ed organizzazione dell’insegnamento sulle popolazioni delle
diverse aree geografiche, per trarre informazioni diacroniche ed indirizzare le
scelte politiche.
La seconda, intesa come valutazione dell’attività dei
lavoratori scolastici – in particolare insegnanti – può essere
ricondotta a pratiche di autovalutazione e “valutazione tra pari”, da svolgersi
nei rispettivi contesti, anche in reti di scuole, in continuo confronto con
Università e Delegati esperti dell’Amministrazione Centrale (Ispettori con
competenze disciplinari e didattiche e non solo amministrativo-gestionali,
adeguatamente formati);
La terza, valutazione degli
apprendimenti (e dei comportamenti, dello sviluppo e crescita) dei singoli
studenti, è compito unico e qualificante del/dei
docenti, strettamente connesso ai processi di autovalutazione e formazione
professionale, oltre che espressione della libera professionalità (Art. 33
Cost.).
In questo senso vanno rifiutate: la
logica dell’attuale ciclo della performance scolastica, le rilevazioni
censuarie delle competenze, sostituibili eventualmente da rilevazioni a
campione, ogni tipo di certificazione delle competenze a fine I e II ciclo
affidate ad agenzie esterne.
In ordine all’università:
·
Garantire un effettivo diritto allo
studio su tutto il territorio nazionale, intervenendo sia sul lato degli aiuti
agli studenti sia su quello degli organici degli atenei, requisito
indispensabile per assicurare un’adeguata offerta formativa; è urgente
invertire quel processo di compressione selettiva e cumulativa – per usare
l’espressione coniata da G. Viesti – che da un decennio, oltre a colpire in
modo differenziato le diverse aree del paese, ha innescato effetti a valanga nei
territori più deboli (Università in
declino – Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, Donzelli 2016).
·
Orientare le energie e le risorse
all’effettivo miglioramento della qualità della didattica e della ricerca,
disinnescando la competitività tossica che ha indirizzato gli sforzi dei
singoli e delle strutture all’ottimizzazione degli indicatori quantitativi,
incentivando comportamenti opportunistici che inquinano i risultati ed erodono
l’etica scientifica.
·
Recuperare risorse e produttività
alleggerendo sia l’ipertrofia burocratica sia le pratiche di (presunta)
assicurazione della qualità, da subito degenerate in adempimenti formalistici
che sottraggono tempo prezioso al personale docente e tecnico-amministrativo.
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