I sogni
dell’Africa restano avvolti in suoni europei inaccessibili al popolo africano
– Ngũgĩ wa Thiong’o
Cos’è che caratterizza e unisce un popolo, una
comunità? Lo Stato? Le leggi? I costumi? No, a
unire un popolo è la lingua. Perché è attraverso la lingua parlata che
passa lo Stato e il legame con esso, che passano le norme, che si condividono e
si manifestano gli usi, i costumi, la Storia. E perché l’identità si forgia
attraverso la lingua, la cultura, la storia.
Non è un caso se proprio attraverso la lingua (così
come la religione, ma questo è un altro discorso) si è sempre giocato il potere
dei conquistatori, dei colonizzatori, degli imperi. Perché l’assimilazione,
l’acquisizione a sé, l’assoggettamento dovevano prevedere necessariamente di
imporre la propria lingua. Non
per comunicare, ma per controllare. Dopotutto, la lingua è memoria. Memoria
di sé.
Dal 2000, il 21 febbraio è entrato nel calendario
internazionale per la celebrazione della Giornata
internazionale della madre lingua. Lo scopo è promuovere la diversità
culturale e linguistica e il multilinguismo. Bello a dirsi. Come tutte le
iniziative a respiro universale. Ma perché ci ritroviamo a dover “difendere”
una cosa così naturale come la lingua madre?
E il 2000 fu anche l’anno della Dichiarazione di Asmara,
che faceva seguito ad un incontro a cui presero
partenon meno di 700 scrittori africani, riuniti con l’obiettivo di
riacquistare spazio per le lingue locali e le letterature in lingua originale.
“Against all odds” era il
titolo dell’evento, che può essere tradotto “ad ogni costo”, ma anche “contro
tutte le probabilità”. E di fatto, in questi anni, non è cambiato moltissimo.
I dati sono chiari:
almeno il 43% delle oltre 7.000 lingue parlate nel mondo sono in pericolo
di estinzione: solo poche centinaia di lingue hanno un posto rilevante nel
sistema educativo; meno di un centinaio sono utilizzate nell’universo digitale.
E ancora, il 40% della popolazione mondiale non ha accesso all’educazione nella
lingua che parla o che comprende. E ogni due settimane una lingua
scompare, portando con sé anche le esperienze culturali, artistiche,
intellettuali di interi popoli e comunità.
Ma le lingue non spariscono per uno strano effetto
climatico o per chissà quale misterioso avvenimento. Della loro scomparsa è responsabile il
potere e l’uso del potere.
Prendiamo le lingue
africane. Secondo gli ultimi dati forniti da Ethonologue, in
Africa ci sarebbero almeno 2.143 lingue, vale a a dire il 30% delle lingue
parlate nel mondo (7.099), ma quante di queste sono valorizzate, insegnate? In
quante di loro vengono scritti o tradotti libri?
nel continente. Basata su un lavoro di Mark
Dingemanse, e rilasciata in licenza Creative Commons
Facciamo un
esempio. L’Islanda conta qualcosa come 338.349 abitanti che parlano il
proprio idioma, non propriamente una lingua che molti al mondo decidono di
imparare. Eppure esistono centinaia, migliaia di pubblicazioni in questa lingua
e molte di più sono le traduzioni dalla lingua islandese all’inglese, per
esempio.
Perché non accade per le lingue africane? Magari non
per il kikuyu, parlato da circa 6
milioni di persone, ma perché non per il kiswahili parlato
da più di 100 milioni di persone, per l’amarico (lo
parlano tra i 28 e i 50 milioni), per l’hausa (tra
i 18 e i 50 milioni)…?
Se la nigeriana Chimamanda
Ngozi Adichie avesse scritto nella sua lingua madre, l’Igbo,
avrebbe avuto lo stesso successo planetario? (Oggi la scrittrice è tra le più
tradotte al mondo, persino in Cina, compresa quella lettera/manifesto su Come crescere un/a femminista). Lo stesso vale per altri
grandi scrittori e poeti che hanno dovuto “scegliere” l’inglese, il francese o
il portoghese per assicurarsi il mercato dei libri.
“Sfortunatamente quelli che
scrivono in lingue africane restano invisibili e i loro lavori sono raramente
censiti o tradotti” ha spesso ripetuto Ngũgĩ wa Thiong’o,
scrittore, poeta, drammaturgo kenyota che al valore della lingua madre e alla
sua emarginazione ha dedicato buona parte della sua vita accademica e di
scrittore.
Certo le case
editrici giocano il loro ruolo in questa emarginazione. Quelle
grandi non vogliono rischiare, quelle piccole e locali non hanno forza
economica ma anche di rete che possa aiutarle a spingere nella nuova direzione.
Al di là di libri per bambini le lingue
locali non sembrano suscitare grande interesse per le case editrici africane.
La situazione della cultura locale – libri,
biblioteche, scuole – è ampiamente spiegata in un articolo apparso recentemente
su Read African Books che nasce
a sua volta dall’African Book
Collective, fondato nel 1989 da un gruppo di editori
africani e librerie allo scopo di diffondere (e vendere) in Rete libri di
autori africani pubblicati da editori locali. E alcuni di questi hanno
pubblicato (non nelle lingue madri, ovviamente) scrittori che poi hanno vinto
importanti premi, come il Caine Prize, che
sono stati quindi ripubblicati da case editrici all’estero.
Lo studio delle lingue africane, le loro famiglie, origini, diffusione, sta
comunque vivendo un periodo di ricchezza ed espansione, anche grazie alle
campagne dell’UNESCO, senza dubbio. Che hanno stimolato dibattiti e
riflessioni. Ma è già da tempo che sul continente africano si discute
della violenza che sta dietro l’imposizione
delle lingue europee a Paesi ormai ex colonie da un pezzo.
E del resto quando, nel 1962, l’Università di
Makerere a Kampala ospitò la prima “Conferenza degli scrittori africani di espressione inglese”,
non usò il termine lingua, appunto,
bensì espressione.
Da piccoli
usavamo un testo di storia francese che esordiva così: “I nostri antenati, i
Galli…”. La nostra formazione cominciava con la disinformazione. Abbiamo
ripetuto macchinalmente quello che ci volevano inculcare. – Joseph Ki-Zerbo (A
quando l’Africa?)
Joseph Ki-Zerbo, storico e uomo politico del Burkina
Faso colpiva al cuore della questione quando scriveva queste parole. Il
francese, l’inglese, il portoghese, sono le lingue ufficiali di quelli che
ormai da tempo sono Stati sovrani, e che quando hanno conquistato
l’indipendenza non hanno riconquistato
il diritto alle proprie lingue. E con queste al proprio passato, alla
propria specifica cultura. Come si sa la lingua non trasmette solo concetti, ma
è legata alle esperienze specifiche di popoli e comunità e abbandonando la
lingua non si fa altro che abbandonare le proprie radici e peculiarità per
acquisire altri modelli di vita e di pensiero.
Cosa accade nella mente di
un bambino quando
comincia la scuola e deve cominciare a pensare e parlare in una lingua che fino
a quel momento gli era sconosciuta? Perché un africano – soprattutto nelle aree
rurali – deve sentirsi estraneo in
casa sua quando incontra qualcuno che gli parla in inglese o
francese e lui conosce solo la sua lingua madre? E – altra domanda – perché ci
si aspetta che un africano che va all’estero parli la lingua di quel Paese e
pochi, quasi nessuno, pensi di imparare una lingua del Paese africano dove ci
si sta recando per vacanza o addirittura per lavoro?
Sono domande che tracciano il percorso di
un’imposizione che non trova – nonostante i bei propositi dell’UNESCO – la
strada inversa. Un percorso che ha di fatto creato un’apartheid
linguistica. Da un lato quei milioni di persone – un continente intero –
che continuano a comunicare nella propria lingua madre, dall’altro un sistema
che esclude chiunque non sappia parlare le lingue ufficiali. Un’esclusione che
va dagli uffici agli ospedali; dalle cariche pubbliche all’ingresso nel mondo
del lavoro. Senza parlare delle ripercussioni nel mondo accademico e culturale.
Quanti sono gli scrittori, i poeti o i ricercatori universitari che scrivono
nella loro lingua madre?
Il fatto è che per avere successo, quello che conta,
quello internazionale, bisogna necessariamente usare le lingue europee. Che non
sono le più parlate al mondo, intendiamoci. Ma sono quelle che contano. Quelle cosiddette veicolari.
Nel 2014 quasi il 55% dei francofoni
erano africani, nel 2018 erano già passati al 59%. Vale a dire che ci
sonopiù persone che parlano
il francese in Africa che nel resto del mondo.
La quinta lingua più parlata dopo il mandarino,
l’inglese, lo spagnolo e l’arabo. Quest’ultima lingua è parlata in
Africa da oltre 150 milioni di persone – soprattutto nel Nord Africa e nelle
regioni del Sahel. Spicca comunque
l’inglese in Africa (anche perché tra i Paesi anglofoni rientra la
Nigeria con i suoi 190 e oltre milioni di abitanti). Lo parlano 700
milioni di africani.
E attenzione, è proprio il diffondersi del mandarino
che accredita tale discorso: cioè che la lingua ha valore in quanto strumento non tanto di
cultura e comunicazione ma di dinamiche politiche, economiche e di potere. Ha
cominciato il Sudafrica, poi l’Uganda e il prossimo anno saranno i giovani
kenyoti a dover imparare a scuola la lingua
cinese come vero e proprio programma di studi. Perché se la
Cina è diventata l’interlocutore privilegiato dei leader africani sul fronte
degli investimenti è la rivoluzione
culturale quella che incide sulle menti e che rimane nel tempo.
E se è l’educazione che trasmette l’identità di un Paese, di una nazione,
allora ha una grande importanza la lingua attraverso la quale si insegna o le
lingue che si inseriscono nei curricula scolastici.
La diversità linguistica passa per l’insegnamento. Una
scuola in Mali. AFP/Joel Saget
Certo, ci sono segnali di attenzione, come si diceva,
e arrivano dall’Africa. Qualche tempo fa dalla prima edizione del Salone della
scrittura e del libro in lingua francese ospitato a Bamako sono emerse
importanti considerazioni. In
Mali la biblioteca nazionale è costituita da libri in francese per il 99% e
da libri in lingue africane per il restante 1%. Le proposte sono ovvie: dotare
gli scolari di libri scritti nella propria lingua, spingere editori a
pubblicare libri in lingue locali e dare spazio alle case editrici che decidono
di farlo, e via discorrendo. Ma le buone intenzioni si scontrano anche con la
miopia della politica. Nel 2007 il Mali – con Amadou Toumani Touré – si era
dotato di un dipartimento
ministeriale per la promozione delle lingue nazionali, dipartimento
cancellato quando, nel 2012, il presidente è cambiato.
Ci sono concorsi letterari per scrittori che scrivono
nella propria lingua madre, come il Mabati Cornell Kiswahili
Prize. O il noto Jalada, collettivo panafricano di scrittori. E ci sono ambiti
accademici, ad esempio Stellenbosch University e Cape Peninsula University of Technology (CPUT),
entrambe in Sudafrica, dove il materiale di studio, per molte facoltà, è in inglese, isiXhosa e afrikaans.
Sembrano gocce
nell’Oceano. Un piccolo passo contro le falcate delle lingue dei Paesi
potenti (vedi la Cina negli ultimi anni). Rimane però interessante
guardare a quel fenomeno di “ricostruzione” del linguaggioutilizzando e
miscelando alle lingue imposte forme tutte nuove e originali: il pidgin, per esempio e tutta quella lingua parlata che
nelle diverse aree si arricchisce di forme e parole locali.
Una sorta di ribellione, di resistenza fatta in maniera
naturale, senza pensarci, senza sforzarsi, così come avviene quando si parla la
lingua madre. Ci sono situazioni, ambienti e luoghi dove si parlano le lingue
ufficiali, ma nello stesso tempo queste lingue quasi non si riconoscono,
mescolate come sono a modi di dire propri di quel posto, di quella cultura, di
quella popolazione. Una maniera per fare emergere quella parola così importante
(quando non viene strumentalizzata) che si chiama identità.
da qui
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