Un’immagine mi ha colpito di recente, come una mano che ti afferra alla gola, o
uno schiaffo che risveglia bruscamente. È un volto terribilmente nudo. Privo di
emozioni. È posto leggermente obliquo, piegato verso il basso. Il
capo, coperto da un cappellaccio scuro attraversato da una freccia e ornato da
un distintivo d’argento, spicca sullo sfondo ocra al di sopra di una casacca
rossa su cui è appuntata una spilla a forma di balestra. Le labbra sono una linea
sottile. Una leggera barba vela la guancia destra. Il naso carnoso ha una
volgarità plebea. Ma è soprattutto lo sguardo che colpisce, parzialmente velato
dalle palpebre appesantite: è uno sguardo inerte, senza traccia di bagliori,
come se guardasse il nulla o, peggio, una cosa indifferente: “un” nulla.
Da esso non trapela alcun segno, non solo di misericordia, ma di qualsiasi
sentimento. È come se provenisse da un luogo vuoto, deserto di ogni
interiorità. Come dire? «Da una cosa».
Il quadro, di piccole dimensioni (appena 28 centimetri per 21) è esposto
nella sala 81 del Prado a Madrid col titolo “El ballestero“, ed è
attribuito a Hieronymus Bosch, il pittore che, come ha scritto frate José de
Sigüenza – uno che se ne intendeva, storico, poeta, teologo, inquisitore, primo
priore del monastero dell’Escorial dove erano ospitati molti dipinti di Bosch –
«solo, ebbe l’ardire di dipingere l’uomo come è dal di dentro» mentre tutti gli
altri si limitavano «a ritrarlo come è dall’esterno». Ed è questa osservazione che
mi ha fatto capire perché quell’immagine non solo mi avesse colpito così
profondamente, ma continuasse a perseguitarmi come un’ossessione, persino nel
sonno: perché era la rappresentazione fisica, materializzata, di quell’entità
astratta eppure così potente, che chiamiamo odio. Anzi, di un
particolare tipo di odio (potremmo forse considerarlo “puro”): l’odio secco (senza
“umori”). Scevro da passioni “umane” e da motivi dichiarabili. Come dire?
L’odio come stato naturale dell’essere. Non l’odio della vittima
verso il suo aggressore. O l’odio dell’amato tradito: l’odio che confina con
l’amore, o meglio come risvolto dell’amore, l’odio “nella” relazione (l’odio
dell'”umano troppo umano”). Ma l’odio senza soggetto (senza interiorità da
parte di chi lo prova). L’odio come “cosa”. O condizione reificata (tra
“cose”): l’odio senza relazione… È l’odio che il Male prova
verso il Bene per il solo fatto della diversità. Che la bruttezza prova per la
bellezza. Che l’ottusità prova per l’intelligenza. Che il vuoto prova per la
pienezza, per il solo fatto che quella è ciò che gli manca. È l’odio che
vediamo ritornare carsicamente oggi (di qui la ragione della mia ossessione:
quello sguardo è lo stesso che ci restituiscono i nostri monitor quando vi
compare il volto “nudo” di Matteo Salvini tra i tanti politici haters come
lui, e che incontriamo ogni giorno per strada nelle sue infinite rizomatiche
incarnazioni).
Studi successivi, con la tecnica dell’analisi dendrocronologica (volta a
misurare con certezza la datazione del supporto ligneo) attribuiranno “El ballestero” alla
scuola di Bosch più che direttamente al Maestro, ma gli stessi studi permettono
di risalire al prototipo di quel volto, questo sì attribuibile con certezza a
Bosch, e ben visibile nella celebre Incoronazione di spine (detta
anche Cristo deriso) esposta alla National Gallery di Londra e
databile al 1485: il balestriere è uno dei quattro sgherri che circondano
Cristo (è quello in alto a destra) e gli impongono deridendolo l’umiliazione
della corona di spine. Indossa lo stesso cappellone di laniccio nero, su cui è
appuntato un rametto di quercia anziché lo stemmino, ha anch’egli il capo
leggermente piegato verso il basso, verso la sua vittima a cui cinge con un
braccio le spalle e che osserva con la stessa espressione vuota, d’indifferenza
assoluta, attraverso le medesime palpebre pesanti, a labbra serrate (unica
differenza: porta al collo un collare chiodato, come i mastini feroci e la
tunica è nera) mentre tiene nell’altra mano un bastone. Al di sotto di lui,
sempre sul lato destro, un aguzzino alza le braccia per chiudere il sudario,
mentre sul lato sinistro un giannizzero dal braccio coperto dalla corazza pone
sul capo del Cristo la corona di spine e, più sotto, un quarto uomo, più
anziano, lo guarda «con fissità malsana».
Il “personaggio del Prado” è dunque un crocifissore di Cristo. Uno dei
suoi derisori. Esso comparirà anche, come particolare, in altre opere di Bosch,
sicuramente nella Salita al Calvario di Madrid, datata 1498 (sta
subito dietro all’uomo con la corda, con lo stesso copricapo e lo stesso
stemma), e forse, minuscolo, è riconoscibile nell’uomo solo affacciato dal
posteriore squarciato dell’Uomo-albero del Giardino delle delizie…
Ma è sicuramente l’Incoronazione di spine la “sua” opera: quella in
cui trova il suo ruolo e si rende evidente la sua “natura”, costituendosi come
prototipo di un’infinità di riproduzioni “di scuola”, nelle quali, tutte,
“quel” volto ritorna, con gli stessi tratti e gli stessi colori del “ritratto”
del Prado, dal Trittico della passione di Valencia al
celebre Christ crowded with thorns with donor di Anversa, in
copia anche a Filadelfia, Huston, Bruxelles, Digione, Berna, fino al medaglione
di Rio. In quella composizione straordinaria per potenza evocativa Bosch non
aveva inteso solo riprodurre un episodio della “storia sacra” – un singolo
caso, estremo, di malvagità umana – ma rappresentare una condizione universale
del mondo, o meglio del suo tempo “caduto”, pervaso da un male generale che
sembra aver spento “l’umano”, disseccate le fonti…
Lo descrivono, quel vuoto “cosmico” creatosi tra l’uomo e l’uomo, la
disposizione delle figure, il gioco dei colori e della luce, la disseminazione
sapiente dei simboli e, appunto, la posa e soprattutto gli sguardi dei
“protagonisti”. Si pensi all’espressione del Cristo, intensa nella sua serenità
– destinata com’è a «rivelare i tratti divini della figura umana creata a
immagine e somiglianza di Dio (Genesi I, 26-27)» –, per differenza da
quella dei suoi aguzzini (che quel soffio divino dell’umano hanno perduto),
inerte pur nell’aggressiva ostilità: «Cristo – è stato annotato da uno dei più
stimati interpreti dell’opera pittorica di Bosch, Stefan Fischer – è passivo
all’esterno e attivo all’interno, mentre le sue guardie sono attive
all’esterno ma interiormente morte» [Hieronymus Bosch. L’opera
completa]. È la perfetta rappresentazione iconica di una “umanità ideale”
presa in ostaggio dal suo stesso lato oscuro, dalla sua “Ombra” direbbe Carl
Gustav Jung. Al medesimo modo la disposizione spaziale della
composizione, costruita da una raffinata regia nella polarizzazione tra il
centro interamente occupato dal Salvatore mentre i suoi persecutori presidiano
in cerchio tutte le parti periferiche, parla di una drammatica scissione
dell’umano (o “dall’umano”): quella del Cristo è l’unica figura posta
frontalmente, mentre gli altri quattro sono ritratti o di profilo o in
posizione obliqua; quello di Gesù è il solo sguardo “diritto”, volto a guardare
negli occhi l’osservatore del dipinto andando “oltre” il quadro, quasi a
cercare, nella sua solitudine, lo sguardo di un’umanità postera, futura e
diversa da quella – irrimediabilmente perduta – dei contemporanei, mentre gli
occhi dei suoi derisori sono sfuggenti, non si lasciano interrogare, men che
meno “incontrare”… Il colore infine: il bianco del sudario, brillante e
caldo, stacca rispetto alle tinte contrastanti (verde-rosso-blu) e opache dei
bruti che lo circondano [è ancora Fischer a sottolinearlo], quasi che la luce
dell’empatia tra l’uomo e l’uomo fosse tutta rifluita fuori da essi, verso la
figura centrale, l’unico essere “umano” rimasto (l’Ecce Homo!), quello
destinato a salvarne – in croce – la traccia…
Dunque è così. Lo sguardo di un Matteo Salvini e dei tanti e tanti come
lui oggi, dei costruttori di muri, dei sigillatori di porti, dei dipanatori di
filo spinato (di quelle stesse spine di quell’originaria corona di dolore),
degli inquisitori della solidarietà e dei persecutori di chi salva, è lo stesso
dei crocifissori di Cristo, dei suoi derisori e incoronatori di spine, insomma,
degli spregiatori della “umanità dell’uomo”, come li vide un pittore visionario
alla fine del XVI secolo. In un tempo, cioè, solo in apparenza abissalmente
lontano dal nostro, in realtà ricco di assonanze, a cominciare dal suo essere
un “tempo sospeso” tra due mondi (“e tra due ere”, canterebbe Guccini): tra
un’età feudale ormai esaurita e una modernità non nata. Tra il mondo statico
nella sua dimensione di hortus conclusus a scorrimento lento e
ciclico che era ormai finito e l’universo dalla spazialità esplosa e dalla
temporalità lineare della neu-zeit, del moderno non ancor
incominciato, cosicché nella terra di nessuno apertasi tra quel “non più” e
“non ancora” poteva irrompere tutto il repertorio del lato oscuro dell’umanità,
con la potenza pervasiva dell’Ombra a lungo controllata dal Cristianesimo e ora
libera di serpeggiare contagiosa come i bacilli della peste diffusa dalle
guerre secolari.
Può sembrare visionario e allucinatorio – psicotico – il «mondo di
Hieronymus Bosch, popolato di mostriciattoli e di demoni, streghe e
fattucchiere, mostruose creature del male e bizzarre metamorfosi di una natura
sconvolta, quasi che la cifra dell’artista fosse l’esasperato uso di
“grottesco” e “drolerie” per soddisfare un gusto popolare e
plebeo. Ma in realtà, la sua, è la rappresentazione terribilmente fedele (e
“alta”) di un immaginario condiviso ed egemonico in un mondo in cui il male (il
“disordine”) è giunto a contaminare capillarmente ogni interstizio della vita
e, appunto, “niente è più vero” e “tutto vacilla”: la corruzione giunge a
conquistare il cuore stesso dell’istituzione posta a guardia della virtù (la
Chiesa), il sapere si perverte e tradisce chi lo coltiva, il peccato
sembra governare le città mentre le cose si ibridano con le persone,
l’animalità con l’umanità, il celestiale con l’infero, nella disseminazione di
uomini dal corpo d’insetto (i cosiddetti grillen), bestie dal corpo
di strumento musicale, abitazioni dalle sembianze corporee, demoni col saio
monacale e monaci dal ghigno demoniaco. È il mondo in cui non si distinguono
più le persone dalle cose. Anzi ognuno tratta ogni altro come “cosa”. È, in
questo, assai simile al mondo in cui siamo tornati a precipitare oggi. Anche
questo – “nostro” – mondo, sospeso tra un non più e un non
ancora. Anche questo ammalato di “indifferenza”, non solo nel senso
dell’assenza di “Sentimento” ma in quello di assenza di “confine”, di
delimitazione tra umano e disumano, oggetto e soggetto, cosa e persona. Affetto
da quella medesima sindrome terminale che porta a trattare ogni altro essere
vivente come materiale inerte da usare e gettare o distruggere e smaltire.
È quanto uno psicanalista nostro contemporaneo dallo sguardo profondo
quasi come quello di Hieronimus – Luigi Zoja – ha chiamato La morte del
prossimo, vedendo in essa il passo successivo alla nietzscheana “morte di
dio”, e ricollegandola, come già si è visto a proposito della rappresentazione
crudele di Bosch, allo sguardo e agli “occhi degli altri”. «Dopo la morte
di Dio, – scrive infatti, – la morte del prossimo è la scomparsa della seconda
relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È
un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il
suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli sta
vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la
conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni
società guardare i morti causa turbamento». In realtà il prossimo aveva
incominciato a morire assai presto, pochi, pochissimi anni dopo la
proclamazione filosofica della morte di Dio, nel secondo decennio del
Novecento, con la strage industrializzata della Grande guerra, e ancora, un
quarto di secolo più tardi, con l’apertura dei cancelli di Auschwitz, fabbrica
meccanizzata della morte di massa, dove mai come prima gli uomini furono
“lavorati” come cose. E dove con il medesimo sguardo inerte dei derisori di
Cristo si praticò l'”odio secco” – l'”odio senza soggetto” o senza la coscienza
di questo – predicato da Hitler quando nel suo Mein Kampf scriveva
che «dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con la coscienza pulita,
dobbiamo distruggere in maniera tecnico-scientifica», come negli inceneritori
si smaltiscono “scientificamente” i rifiuti, o negli altoforni si fondono i
rottami. La si vide, la si toccò e la si patì dunque, come una nuova peste nera,
quella morte del prossimo. Ma si pensò che quello fosse un unicum,
un terribile incidente della Storia: una sorta di caso d’eccezione,
irripetibile nella sua abissale inumanità. Invece ce la ritroviamo di fronte –
e dentro – quella indifferenziazione tra persone e cose che si fa indifferenza
per l’altro – ogni altro – e costituisce la curvatura interiore della morte del
prossimo, oggi, peste silenziosa, senza più nemmeno il frastuono del delirio
ideologico, al polo opposto dell’eccezione, come normalità. Stato normale
dell’essere. Zoja ci dice appunto che «col volgere del secolo XX in secolo XXI»
si è superata anche la seconda soglia dopo quella della morte di Dio, si è
consumata pienamente la morte del prossimo: l’«uomo metropolitano» – non l’uomo
accecato da ideologie perverse, non l’uomo travolto da una qualche utopia
negativa, ma l’uomo “normale” che abita lo spazio centrale dell’universo
contemporaneo, quello in cui risiede egemone lo spirito del mondo – «si
sente sempre più circondato da estranei». Non porge più lo sguardo
all’altro – non lo “guarda” come fosse un uomo – e non è “visto” (come tale)
dall’altro. È l’uomo che ha smarrito anche l’ultimo briciolo di empatia. Che ha
fatto dell’egoismo da vizio che era una virtù teologale.
Difficile dire dove e quando abbia avuto inizio quella “lunga marcia”
dell’estraneità egoistica ed egocentrica verso la sua attuale egemonia (intesa,
per citare Luciano Gallino, come «potere esercitato con il consenso di coloro
che vi sono sottoposti»). Forse già nel 1947, come scrive lo stesso Gallino,
sulle pendici di «una montagnola svizzera», il Mont Pelerin, dove un gruppetto
di economisti allora relativamente controcorrente (Friedrich von Hayek, Milton
Friedman, Maurice Allais…) aveva fondato la Mont Pelerin Society (MPS),
un think tank votato all’affermazione di un credo assoluto
incentrato sulla minimizzazione dell’intervento dello Stato, sulla piena
libertà di circolazione dei capitali e soprattutto su un individualismo
atomistico e assoluto che riduce l’uomo a mero soggetto economico e ne cancella
il legame sociale in nome della competitività per l’utile. O forse nel 1987
quando Margareth Thatcher, sintetizzando quel dogma, proclamò che la società
non esiste, esistono solo individui («There is no such thing as society.
There are individual men and women»), e disvelò ufficialmente e
pubblicamente il nuovo statuto del mondo entrato ormai compiutamente nell’epoca
della “finanziarizzazione”: di quella forma estrema e probabilmente terminale
del capitalismo in cui (è ancora Gallino che parla) domina la «ricerca
ossessiva di sempre nuovi campi della vita sociale, dell’esistenza umana e
della natura da trasformare il più rapidamente possibile in denaro».
Allo stesso modo si potrebbe ragionare a lungo sulle cause di questa
(nuova) caduta agli inferi dell’in-humanitas. Zoja ad esempio insiste
molto sull’immane impatto sulla condizione umana della rivoluzione tecnologica
di fine millennio, intreccio di informatica e telecomunicazioni,
rappresentazione digitale e velocità comunicativa. In sostanza virtualità e
accelerazione, la prima a rendere presente l’assente (il lontano), la seconda a
rendere assente il presente (il prossimo), con gli inevitabili corollari:
l’inflazione della distanza, la smaterializzazione dei corpi, la saturazione
dello spazio di prossimità da parte di icone più che di persone, il
sovraccarico di stimoli che si trasforma in azzeramento dell’emozione,
l’assunzione della tecnica a pressoché esclusivo fattore di mediazione tra gli
uomini. E in un mondo in cui la quasi totalità delle relazioni umane è
mediata dalla Tecnica «il prossimo smette presto di consegnarci sfumature
umane, e quindi di emozionare». Finisce per apparire un avatar come gli altri,
sia che si accoppii in ogni posizione su youporn o che crepi sgozzato da un
tagliagole di Daesh in un sito jihadista o ancora che affoghi a qualche miglia
dalle nostre coste tra i relitti di un barcone. Lo spettacolo indifferenziato
della passione del prossimo (le infinite ostensioni di sé degli altri e le
infinite salite al calvario del prossimo) si traduce – per la
smaterializzazione del contesto – nella comune indifferenza. Nell’estinzione
della com-passione. E se ancora nel cuore nero del Novecento poteva accadere
che presenziando a un massacro Himmler si sentisse male, oggi nessuno si
stupirebbe se un ministro della Repubblica, di fronte all’immagine in diretta
di un naufragio, non trovasse altro di meglio che sparare un tweet d’irrisione
dei “taxisti del mare”… Oppure, nella ricerca delle cause, si può puntare il
dito sulla epocale sconfitta del lavoro, che si è consumata quasi
silenziosamente negli ultimi decenni del secolo scorso, con la “reconquista” da
parte del padronato del territorio sociale perduto nel precedente ciclo
economico e conflittuale (il cosiddetto ciclo fordista) e con la cancellazione
non solo delle conquiste sociali ottenute dai lavoratori ma della stessa
immagine del Lavoro come forma di status, titolo di legittimazione della
cittadinanza, struttura materiale di una relazionalità cooperativa. Quel ruolo
è stato azzerato dai grandi processi di smaterializzazione della produzione
sociale, dalla decostruzione dei giganteschi stabilimenti industriali, dalla
delocalizzazione dei processi, dalla polverizzazione della forza-lavoro. E
sostituito da un’altra entità, più astratta, meno coesiva, ma anche più
pervasiva. Non più il Lavoro ma il Denaro è diventato il grande mezzo di
mediazione tra gli individui, il numeratore del loro valore e il marcatore
delle loro (effimere) reciproche relazioni. E anche questo è un pezzo di quel
dispositivo non solo ideologico, ma pratico-operativo, che chiamiamo per
semplicità neo-liberismo. O finanz-capitalismo.
Sta di fatto che con l’affermazione di quel paradigma non solo economico
ma antropologico-culturale nella forma del «pensiero unico» si è compiuta la
piena decostruzione del «soggetto umano» con la radicale riduzione della
«persona» all’«individuo», per dirla con Emmanuel Mounier, laddove, nel lessico
della corrente di pensiero da lui fondata e chiamata appunto «personalismo»,
per «persona» si intende l’uomo «in relazione» – l’uomo integrato nella rete
dei suoi rapporti sociali nel quadro di una consapevole reciprocità – mentre
l’«individuo» è, appunto, l’uomo (non più pienamente tale) nella sua
incomunicante solitudine, condannato alla dura pena di un’esistenza
alienata («la desolazione dell’uomo senza dimensione interiore,
incapace di incontri») e alla mediocrità spirituale («l’uomo
che ha perso il senso dell’Essere e che si muove solo fra cose, e cose
utilizzabili, private del loro mistero»). Un’esperienza “estrema”, o comunque
liminare, per il Mounier degli anni Trenta e per i combattivi collaboratori
di “Esprit”, convinti che quella fosse una battaglia ancora tutta
da combattere e da poter vincere. L’esperienza “quotidiana” dell’uomo comune
oggi, che considera la propria alienazione normalità e la propria mediocrità
spirituale vita.
Lo sguardo inerte del “ballestero” che ci osserva da tutti i monitor e ci
rimbalza dagli occhi sfuggenti del nostro prossimo morto ci dice che quella
battaglia è stata combattuta e persa. Che nel mondo dell’individualismo
assoluto prodotto dalla controrivoluzione neo-liberista l’antropologia
prevalente – per lo meno la più pervasiva – è quella dei derisori di Cristo. E
che se non si saprà ricostruire una sia pur embrionale e rizomatica rete di
“persone” – donne e uomini capaci di relazione –; se non si saprà, cioè,
spezzare il maleficio di quel paradigma letale che ha disseccato le fonti
interiori della socialità e del legame oltre che le basi materiali di
un’economia sostenibile – questi potrebbero essere davvero “gli ultimi giorni
dell’umanità”.
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