Le regioni più
ricche del paese vogliono gestire per conto loro l'istruzione, sottraendola al
principio di solidarietà
Nelle ultime settimane, dopo un iter svoltosi in un impressionante
silenzio, l’«autonomia differenziata» ha
iniziato a essere argomento politico di un qualche interesse per i mass media,
anche in virtù dei malumori sorti almeno in una parte del partito di
maggioranza del governo.
Il progetto dell’autonomia differenziata è reso possibile dalla Riforma del
Titolo V della Costituzione che definisce le materie oggetto di una possibile
devoluzione di competenze dallo stato alle regioni. La Riforma del Titolo V è
datata 2001 (legge Costituzionale 3/2001) e targata centrosinistra (elaborata
durante il Governo D’Alema e approvata sotto il Governo Amato). Successivamente
ai referendum consultivi delle Regioni Lombardia e Veneto, tenutisi il 22
ottobre del 2017 su un quesito che chiedeva l’assenso a un generico aumento
dell’autonomia regionale (“Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite
ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”), l’attuazione dell’articolo 116 ha
subito una rapida accelerazione. Nel 2018, a fine legislatura, il governo di
centrosinistra a guida Gentiloni, attraverso il sottosegretario Bressa, ha
siglato accordi di pre-intesa con
i governatori di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (28 febbraio 2018).
L’attuale esecutivo sembra voler portare a termine il progetto, come peraltro
indicato al punto 20 del contratto di governo siglato tra Movimento 5 Stelle e
Lega. Ad accendere i riflettori sul tema ha contribuito la pubblicazione delle
nuove bozze di intesa siglate
dal presidente del consiglio Conte e dai presidenti di regione Zaia, Fontana e
Bonaccini.
La reazione c’è stata soprattutto nel mondo della scuola a partire da un
documento pubblicato il 15 febbraio e firmato da un ampio arco di forze sindacali (dalla
Cisl ai Cobas) e di associazioni sociali e studentesche.
L’ampiezza del fronte che denuncia il progetto del governo dà la misura
della portata di questa riforma. L’«autonomia differenziata» rischia di mettere
in discussione definitivamente il carattere pubblico e nazionale
dell’istruzione e di conseguenza mina, alla radice, le basi del diritto allo
studio.
Dalle bozze di intesa, soprattutto per Lombardia e Veneto, emerge che le
competenze attribuite alle Regioni riguarderanno molteplici aspetti: dalla gestione
all’assunzione del personale scolastico (dai dirigenti al personale Ata),
dall’offerta formativa all’insieme dell’attività didattica, dai sistemi di
valutazione all’alternanza scuola-lavoro (cambiata nel nome, ridotta nelle ore,
ma rimasta nella sostanza).
Le scuole di Lombardia e Veneto potranno avere docenti regionali, programmi
differenziati, concorsi locali. Le Regioni potranno fissare ogni anno il
fabbisogno occupazionale e di conseguenza indire bandi locali e assumere
direttamente il personale scolastico, che sarà dipendente delle Regioni e non
dello Stato. Si partirà dai docenti neoassunti dopo la trasformazione
dell’accordo in legge dello stato, i quali diverranno automaticamente
dipendenti regionali, gli altri saranno incentivati al trasferimento da un
aumento di stipendio che potrà essere realizzato grazie all’aumento delle
risorse a disposizione delle regioni.
Qui arriviamo a uno degli snodi cruciali di tutta la vicenda, ovvero la
ripartizione delle risorse. Si legge nella bozza di accordo che l’attribuzione
delle risorse finanziarie avverrà in termini di «fabbisogni standard, che
dovranno essere determinati entro un anno dall’entrata in vigore della legge di
approvazione dell’Intesa e che progressivamente dovranno diventare, in
un’ottica di superamento della spesa storica, il parametro di riferimento, in
relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati sul
territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali […]».
La spesa storica che va superata è quella che sinora è ricaduta nella
regione, e va superata a partire dal criterio dei tributi maturati sul
territorio regionale. Una vera e propria secessione fiscale e amministrativa.
La logica è chiara: trattenere sul territorio il residuo fiscale, ovvero la
differenza tra quanto un territorio dà e quanto riceve dall’amministrazione
centrale. Questa tabella evidenzia come le tre regioni che hanno avviato il
processo di autonomia differenziata siano ai vertici della speciale classifica
del residuo fiscale.
L’intesa con l’Emilia Romagna risulta più soft e generica nella
formulazione, interviene in modo specifico solo relativamente all’istruzione
tecnico-professionale, non struttura rigidamente il sistema delle assunzioni ed
è più moderata sul tema delle risorse. Ovviamente il progetto del Veneto e
della Lombardia, però, rischia di determinare un effetto domino, perché la loro
“secessione fiscale” incentiverà quelle degli altri, anche delle Regioni che
hanno oggi un residuo fiscale negativo, ma che domani, a secessione avvenuta,
potrebbero scontrarsi tra di loro sullo stesso problema.
Non a caso negli ultimi giorni, quasi in sordina e senza proclami, sul
piano della “regionalizzazione della scuola” si è aggiunta la Regione Friuli
Venezia Giulia. Infatti la giunta Fedriga ha messo a bilancio due milioni di
euro per finanziare il contratto (per un anno) di alcuni docenti per il
sostegno, assumere presidi e trasferire dieci amministrativi dagli uffici
regionali all’Ufficio scolastico di Trieste. L’assessora all’istruzione Alessia
Rosolen, ha dichiarato che presto l’accordo preliminare sarà firmato anche dal
Miur. La Liguria e il Piemonte hanno annunciato recentemente di star lavorando
su proprie proposte di autonomia differenziata.
I probabili effetti della secessione fiscale sono evidenti, soprattutto sul
terreno della scuola, ma ovviamente questa analisi potrebbe essere estesa agli
altri settori inclusi nel processo di autonomia differenziata, a partire dalla
sanità.
Innanzitutto sarà la fine di un sistema unitario d’istruzione e di diritto
allo studio. È chiaro che le scuole si differenzieranno sempre più
radicalmente, ben oltre gli effetti già determinati dall’autonomia scolastica.
Il divario Sud-Nord non potrà che aumentare, il valore legale del titolo di
studio sarà sempre più in contraddizione con la realtà di una scuola eterogenea
nei programmi, negli strumenti e nelle risorse. C’è da chiedersi cosa resterà,
in questo quadro, degli articoli 33 e 34 della Costituzione. Come della
contrattazione nazionale. È infatti evidente che con l’autonomia differenziata
passerà una versione regionale delle “gabbie salariali”, con i salari di alcune
aree del nord che cresceranno, o resteranno stabili, e quelli del centro-sud
che diminuiranno. I lavoratori saranno messi ancora più in competizione tra
loro, la loro unità sarà ulteriormente spezzata, e la resistenza che la scuola
ha in questi anni proposto all’allungamento dell’orario di lavoro piuttosto che
alla 107 (la Legge sulla “Buona scuola” del governo Renzi), sarà più facilmente
aggirata e battuta.
La logica liberista si fonde pienamente con quella leghista che le fornisce
il consenso necessario per perpetuarsi e approfondirsi. La narrazione leghista
passa infatti dal prima gli italiani al prima il nord, dal prima il nord al
prima la mia regione, ed è probabile, come qualche esponente politico ha fatto
ventilare, che si possa passare anche dal prima la mia regione al prima la mia
città. Ma tutti questi “prima”, potenzialmente in contraddizione tra loro,
svelano in realtà il vero significato unitario di questo discorso politico, che
potrebbe essere sintetizzato in un semplice “prima i ricchi”. In questa
autonomia non c’è veramente nulla dell’idea di un giusto rafforzamento degli
enti locali, di un potenziamento della democrazia di prossimità, come
«l’autonomia scolastica» (Legge 59 del 15 marzo 1997) in questi anni non è
certamente stata uno strumento capace di rafforzare la gestione delle scuole da
parte delle diverse componenti che la abitano e la costruiscono ogni giorno. L’obiettivo
delle due autonomie è invece convergente, ossia contribuire alla messa in
competizione di tutti i fattori della società: il lavoro, la scuola, la sanità,
le regioni, le città… È la logica di quel liberismo asimmetrico che
si è affermato a partire dagli anni Ottanta e che ha spacciato per efficienza
una competizione esasperata che ha avuto come effetto principale una
radicalizzazione mondiale delle differenze economiche e sociali e una
protezione tutt’altro che liberista dei profitti e del capitale finanziario.
La narrazione degli enti locali efficienti contro Roma ladrona è ormai una
narrazione stanca e sempre meno credibile. Le Regioni hanno già dimostrato in
questi anni di non essere un’alternativa alla mala gestione della spesa
pubblica, ma semmai sono parte del problema. Basta ricordare la lunga serie di
processi e inchieste che hanno attraversato in lungo e in largo gli enti locali
dell’intero paese. Il problema della corruzione potrebbe essere scalfito solo
da un ripensamento radicale della democrazia, attraverso il controllo reale dei
cittadini e del mondo del lavoro sulla spesa, costruendo nuove istituzioni in
cui il pubblico sia visto e vissuto come comune e non come una parte che si fa
stato perseguendo interessi neanche troppo nascosti.
L’autonomia differenziata, oltre che per il merito, è inaccettabile anche
per la procedura parlamentare prevista per la sua approvazione: senza
possibilità da parte del parlamento di emendare i disegni di legge del
consiglio dei ministri per attuare le “intese” tra governo e Regioni. Non solo,
una modifica degli accordi potrà avvenire solo attraverso il reciproco consenso
delle parti e nessun referendum potrà intervenire nel merito degli accordi.
Sulla procedura però sarà battaglia, le interpretazioni giuridiche sono
tutt’altro che convergenti.
Così come sarà necessaria una battaglia nel merito, sapendo però indicare
un’altra strada. È evidente che nelle Regioni a residuo fiscale positivo potrà
avere un certo consenso la prospettiva di aumenti stipendiali finanziati
attraverso la sottrazione di risorse al Sud. L’opposizione a tale progetto
dovrà rompere questa dinamica, avendo la capacità di indicare strade diverse
per aumentare le risorse disponibili per la scuola, partendo dalle grandi
ricchezze che il liberismo asimmetrico protegge e da quel costo del debito
pubblico che garantisce rendita al capitale finanziario e sposta risorse
costantemente dal Mezzogiorno alle grandi banche del Nord del paese.
(*Giovanna Caltanissetta è docente di Lettere in Istituti tecnici e
professionali. Danilo Corradi è dottore di ricerca in storia, insegnante di
filosofia e storia al liceo, è docente a contratto presso l’università di Tor
Vergata. È coautore tra l’altro di Capitalismo tossico)
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