Modellata secondo schemi organizzativi aziendalistici e schiacciata dal
peso insostenibile di una burocratizzazione telematica onnipresente e sempre
più invasiva, l’Università sta morendo. Sta morendo nell’indifferenza generale;
e sta morendo – spiace dirlo – con il fattivo contributo, forse non del tutto
inconsapevole, di coloro ai quali questa veneranda istituzione dovrebbe stare
più a cuore: il corpo docente e dirigente. E con l’Università stanno morendo i
valori culturali, sociali e politici alla cui elaborazione e trasmissione essa
è stata preposta per secoli. Aziendalizzazione e teleburocratizzazione sono i
nomi del morbo letale che sta uccidendo l’Università.
Diciamolo subito: non è una malattia soltanto italiana. Nell’età della
globalizzazione sono pochi i problemi esclusivamente nazionali; per lo più si
tratta di fenomeni planetari, benché connotati da specificità locali.
In Europa il punto d’avvio di questo percorso necrotico risale al c.d.
“processo di Bologna”, così denominato perché, nel 1999, i ministri
dell’istruzione dei paesi europei si riunirono proprio nel luogo in cui ha sede
la più antica Università del Vecchio Continente per sottoscrivere una
Dichiarazione che si proponeva di riformare in radice i sistemi d’istruzione
dell’Unione. Benché non esplicitata, la spinta ideale della riforma era
motivata da ragioni economiche.
L’obiettivo a cui essa mirava non consisteva nel riformare i sistemi
d’istruzione al fine di renderli più adatti alla formazione culturale
necessaria per comprendere e gestire un mondo complesso; il suo intento era
piuttosto quello di renderli più efficienti per la crescita economica interna e
più competitivi su scala mondiale. A conferma di tale orientamento, a meno di
un anno di distanza dall’incontro avvenuto in una città che un tempo era
chiamata “la Dotta”, i Capi di Stato e di Governo si riunirono a Lisbona per
approvare un documento, noto come “Strategia di Lisbona”, il cui ambizioso
progetto si proponeva di fare dell’Europa «l’economia basata sulla conoscenza [knowledge-based
economy] più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una
crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro». La via
indicata a tal fine venne tracciata poco dopo, con l’avvio del c.d. “piano
d’azione e.Europe”,consistente nel favorire l’uso, la
diffusione e la disponibilità di reti telematiche a banda larga al fine di
incrementare l’e.Governement, l’e.health, l’e.business, nonché,
appunto, l’e.learning, così da far rientrare anche l’istruzione e la
formazione culturale nel quadro – mi si consenta il neologismo – dell’e.tutto.
Aziendalizzazione e digitalizzazione sono facce della stessa medaglia.
A distanza di poco meno di un ventennio e dopo la crisi economica più
duratura e devastante che si sia abbattuta sull’economia mondiale dai tempi del
1929, si resta allibiti constatando la miopia che fin da allora attanagliava la
classe dirigente europea. Se la crisi del 2008 ci ha insegnato qualcosa è che a
essere in crisi non era solo l’economia reale, l’economy; era piuttosto
– e continua ad esserlo – la dottrina economica studiata e insegnata nelle
università di tutto il mondo, l’economics, quanto meno nella sua
versione mainstream. L’aspetto più grave, allo stesso tempo meno
percepito e meno dibattuto, della crisi del 2008 è che essa è il prodotto non
solo, e forse non tanto, dell’instabilità congenita dei mercati, quanto di una
regressione culturale che ricorda il declino dell’Impero romano e della cultura
latina. Alcuni anni prima della strategia di Lisbona e con ben altra
lungimiranza, David Harvey aveva segnalato che la produzione di conoscenza
organizzata secondo moduli aziendalistici si stava notevolmente diffondendo e
stava acquistando una base sempre più commerciale; «si consideri» – scriveva –
«la non agevole trasformazione di molti sistemi universitari del mondo
capitalistico avanzato dal ruolo di custodi del sapere e della saggezza a
quello di produttori subordinati di conoscenza per il capitale delle grandi
aziende».
Negli anni a noi più vicini, questo processo di mercificazione della
cultura e aziendalizzazione dell’Università ha subito una rapidissima
intensificazione che condurrà nel giro di qualche lustro alla sua definitiva
estinzione. Al suo posto avremo Università on line e centri di formazione
telematici nei quali un singolo docente potrà fare lezioni a un elevatissimo
pubblico di studenti sparsi sull’intero territorio nazionale, o persino
all’estero, che assisteranno alla lezione dallo schermo del loro computer o,
più probabilmente, dal display dello smartphone: sono i MOOC (Massive Open
Online Courses), corsi universitari on line e, in apparenza, gratuiti. Nel
2013 l’UE ha abbracciato con entusiasmo questo progetto e, con la benedizione
del CUN e della CRUI (Consiglio Universitario Nazionale e Conferenza dei
Rettori delle Università Italiane), oggi nel nostro paese esistono dozzine di
Università telematiche.
Il passaggio dalle Università tradizionali ai MOOC sarà meno traumatico di
quanto possa credersi, e lo sarà perché poco appariscente. Già oggi, infatti,
le Università che ancora mantengono le lezioni c.d. “frontali” e che
preferiscono all’incontro virtuale quello reale, consentendo così a docenti e
allievi di guardarsi negli occhi, sono per il resto interamente telematizzate.
La distanza fra i due modelli sta diventando sempre più esigua. D’altra parte,
in un’epoca in cui pressoché tutti gli Stati devono fare i conti con crescenti
vincoli di bilancio, perché mai pagare gli stipendi a un nutrito corpo docente
se un singolo professore può, da solo, fare lezione a una platea sterminata? O
perché mai assumere docenti a tempo pieno se, analogamente a quanto avviene
nelle aziende, anche le Università possono ricorrere a contratti a termine e a
incarichi esterni? Quanto, poi, all’accertamento dell’identità personale dello
studente richiesta al momento dell’esame, essa avverrà mediante il
riconoscimento dell’iride realizzato grazie a fibre ottiche installate sul
display.
Ovviamente, una volta registrati, quei dati personali resteranno – insieme
a mille altre tracce – in eterno nel cloud e nutriranno
i big data. Algoritmi e data mining penseranno a
fare il resto, cioè a elaborare perfetti profili di milioni di individui
appositamente preparati per ricevere pubblicità commerciale e “spinte gentili”
capaci di orientare i comportamenti politici e sociali dell’umanità Dio solo sa
verso quali direzioni. Con felice opzione linguistica, Richard Thaler e Cass
Sunstein – due noti “architetti delle scelte”, campioni del neoliberismo –
hanno chiamato nudge queste morbide costrizioni. Del resto, se
le aziende navigano a vele spiegate verso l’industria 4.0, intensamente
robotizzata e gestita dall’intelligenza artificiale, perché mai un’Università
pensata come un’azienda non dovrebbe seguire lo stesso itinerario di
modernizzazione? Già oggi molti esami, ivi compresi i famigerati test
d’ingresso all’Università, sono congegnati in modo tale da poter essere
valutati da computer e algoritmi.
Cosa ha portato a questo naufragio? C’è una potente ideologia sottostante a
questo processo di aziendalizzazione e telematizzazione del mondo, un’ideologia
che oggi risulta vincente su scala planetaria proprio perché, dopo la sbornia
ideologica che ci ha accompagnato nel secolo scorso, riesce a rendersi
impalpabile e invisibile, a presentarsi come approccio deideologizzato, come
orientamento puramente pragmatico, pratico ed empirico, come concreta “cultura
del fare” che non costringe, ma spinge gentilmente: è
l’ideologia neoliberista, un’ideologia invasiva che mette al centro della sua
visione del mondo l’efficienza, la crescita economica e il profitto, ed eleva
dunque l’impresa a modello organizzativo esemplare sul quale plasmare l’intero
ordine sociopolitico, senza escludere dal suo raggio d’azione le istituzioni
culturali. Il neoliberismo è una forma di biopolitica il cui obiettivo
primario, in larga parte già coronato da successo, consiste nel generare una
mutazione antropologica orientata a riplasmare ogni valore umano e ogni categoria
culturale al fine di renderle leggibili solo all’interno di un quadro di
riferimento strettamente economico.
Ovunque nel mondo le Università sono state risucchiate in questo vortice e
l’istruzione, sia scolastica che universitaria, è stata piegata alle logiche
del mercato e modellata su categorie quantitative, accantonando la qualità.
Nell’Unione Europea sono stati introdotti gli ECTS, European Credit
Transfer and Accumulation System, vale a dire il sistema di crediti, meglio
noti in Italia come CFU (crediti formativi universitari), sicché la prima cosa
che gli studenti imparano è che anche la formazione, la cultura e il sapere si
contano e ricadono nelle categorie dell’economico: producono “crediti” e
“debiti”.
In stretta analogia con la logica dello scambio mercantile, ciascun corso
di laurea (fra triennali e magistrali oggi in Italia sono ben 4454) per
rispondere alla “domanda” di istruzione deve dotarsi di una specifica “offerta
formativa”, i cui insegnamenti vengono “erogati”, come se i docenti universitari
fossero, appunto, erogatori, analoghi alle pompe di benzina o ai distributori
automatici di bevande e merendine. E non c’è da stupirsene: i professori
universitari non sono più persone che rispondono alla vocazione del docere;
sono “punti organico”. Non si tratta di mera sciatteria linguistica, ma di una
sofisticata strategia studiata ad arte per colonizzare la mente. In un’ottica
di questo tipo, va da sé che si chiamino “prodotti” i risultati dello studio e
delle ricerche dei docenti – di quei pochi docenti che, malgrado il peso
insostenibile di innumerevoli pratiche burocratiche on line cui devono
attendere quotidianamente, trovano ancora il tempo e la voglia di studiare.
Sono “prodotti” – e prodotti particolarmente apprezzati sul mercato universitario
– persino le lauree, perché la produttività delle aziende universitarie viene
misurata, tra l’altro, in ragione del rapporto fra numero di iscritti e numero
di laureati, ossia fra la materia prima che entra nel sistema produttivo, l’input,
e i titoli sfornati, l’outputo, appunto, il prodotto, che in questo caso
viene chiamato “capitale umano” perché costituisce – assieme ai più
tradizionali “terra”, “capitale” e “lavoro” – uno dei fattori di produzione.
Per valutare “prodotti” e “produttività” del sistema, esiste ovviamente una
vasta rete di agenzie di rating, sia nazionali che internazionali, che
emettono responsa sulla qualità ed affidabilità di Atenei,
Dipartimenti e Corsi di laurea ed è sulla scorta di queste quotazioni che i
Governi distribuiscono i fondi pubblici, peraltro sempre più esigui. Atenei e
Dipartimenti sono perciò spinti sul terreno della concorrenza reciproca,
esattamente come qualsiasi azienda. Come per queste ultime, il criterio guida è
“scannatevi a vicenda, quanto più intensamente e celermente potete”. I criteri
e i parametri mediante i quali le agenzie del rating universitario misurano
l’“eccellenza” – parola magica che in realtà fa rabbrividire – sono
strettamente aziendalistici. Sia sul terreno della ricerca che su quello della
didattica, vi predomina di gran lunga il profilo quantitativo rispetto a quello
qualitativo, difficile da misurare, mentre è decisamente più facile – e
infinitamente più cretino – affidarsi a criteri bibliometrici, citazionali e di
classificazione delle riviste. Due cose accomunano le poco note agenzie del
rating universitario alle più note Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch: sia
le une che le altre sono viziate da pesanti conflitti d’interesse e in entrambi
i casi i responsa che emettono hanno la stessa affidabilità di
quella un tempo attribuita all’oracolo di Delfi. Cionondimeno sono attesi e
venerati con la stessa fiducia che un tempo nutriva la fede in Apollo. Che la
credulità sia diffusa nella confraternita di economisti e operatori finanziari
sempre in attesa del verbo di Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sorprende
poco; che un’analoga fiducia nel rating universitario sia diffusa anche presso
il ceto intellettuale e i professori universitari stupisce di più.
Lo strumentario per realizzare il controllo e il successivo rating delle
Università è molto nutrito ed è, ovviamente, rigorosamente telematico. C’è la
VQR (Valutazione della Qualità delle Ricerca); la SUA-RD (Scheda Unica
Annuale per la Ricerca Dipartimentale); l’AVA (Autovalutazione e Accreditamento
dei corsi di studio); per tacere, infine, della farneticante normativa che
disciplina procedure e merito dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, l’ASN.
Esistono, inoltre, dozzine di altri acronimi altisonanti e indecifrabili (il
GOMP, l’IRIS …) e altri infiniti adempimenti burocratici, variabili da Ateneo
ad Ateneo e da Dipartimento a Dipartimento, ai quali i docenti devono attendere
ogni giorno. Il risultato di questa iperburocratizzazione debordante e ottusa è
che i docenti sono costretti a dedicare la maggior parte del proprio tempo e
delle proprie energie intellettuali a un profluvio di adempimenti burocratici
che, nei rari casi in cui non nuocciono all’Università, sono decisamente
inutili: servono solo a sottrarre tempo ed energie allo studio e alla
didattica.
Occorre dirlo e dirlo con forza e chiarezza: la digitalizzazione telematica
ha spianato un’autostrada alla marcia trionfale della iperburocratizzazione
dell’Università. Il web, al cui fascino irresistibile e perverso pochi riescono
a sottrarsi, ha spalancato all’ANVUR – l’organismo che governa e controlla
l’Università con poteri di gran lunga maggiori di quelli del Ministero
dell’Istruzione – sconfinate praterie da conquistare e colonizzare con armi
telematiche. Quel che lascia esterrefatti è che Atenei e Dipartimenti ne
seguono le orme con entusiasmo, nella convinzione – non so se più stupida o più
ingenua – che digitalizzare la burocrazia significhi ridurla, renderla più
snella, leggera, agile e impalpabile. Il risultato è stato invece quello di
farle assumere dimensioni elefantiache. Negli anni Settanta, quando ero
studente presso la Facoltà (come si chiamava allora) di Scienze Politiche, il
personale tecnico-amministrativo contava sì e no quattro o cinque addetti che
riuscivano ad espletare le loro funzioni in modo esemplare. L’attuale
Dipartimento omonimo presso il quale ora insegno, che è all’avanguardia sulla
via del “progresso” telematico, annovera non meno di due dozzine di dipendenti
i quali, malgrado la loro incondizionata dedizione e l’indiscutibile
professionalità, arrancano con fatica per attendere agli infiniti adempimenti
telematico-burocratici cui sono quotidianamente sottoposti, analogamente al
corpo docente.
Sulla crisi dei sistemi d’istruzione superiore e universitaria esiste una
robusta letteratura, sia italiana che straniera, e a essa non si può che
rinviare chiunque abbia voglia di saperne di più. C’è tuttavia un aspetto
cruciale sul quale questa letteratura non insite a sufficienza. I maggiori
responsabili della catastrofe universitaria non sono né i governi, né la crisi
economica che ha costretto a drastici tagli di bilancio; non lo sono nemmeno i
burocrati in sé, che si limitano ad applicare norme che non hanno fatto loro e
che non hanno interesse a giudicare; ancor meno responsabili sono gli studenti,
i quali sono solo le vittime di un sistema perverso. I responsabili maggiori
del collasso dell’Università – addolora dirlo – sono i docenti universitari
che, salvo sporadiche e deboli proteste, non hanno mosso un dito per impedire
la catastrofe aziendalistico-telematica dell’Università. Per qualche ragione
difficile da comprendere, hanno passivamente assecondato il sistema, rendendosi
complici del tracollo. Ammaliati dal fascino di un presunto “progresso” che
fluttua nel cloud su ali telematiche; catturati dall’immagine di una certa
efficienza aziendalistica incarnata dalla figura del manager, adempiono con
zelo tutte le prescrizioni di una normativa il cui obiettivo ultimo, e neanche
troppo nascosto, è lo smantellamento dell’Università.
Come molte altre istituzioni, la vecchia Università era certamente piena di
molti e gravi difetti, fra i quali spiccava il nepotismo familistico. Ma era
anche piena di pregi e di alte qualità: non ha mai pensato che la cultura fosse
merce; non ha mai creduto di essere un surrogato degli uffici di collocamento
sul mercato del lavoro e non ha mai imposto agli studenti tirocini gratuiti a
beneficio di enti pubblici e aziende private; ha invece provveduto alla
formazione piuttosto che all’informazione e, infine, ha tenacemente difeso la
sua autonomia contro ogni invadenza burocratica. Certamente l’Università
italiana non era peggiore di quelle di altri paesi, così come non era peggiore
la scuola che, malgrado tutto, continua ancora a essere una fra le migliori al
mondo. Per correggere i difetti di cui soffriva l’Università si sono prescritte
cure peggiori del male che si voleva curare, cure che hanno però il fascino del
cambiamento, dell’innovazione, del progresso. Disgustato dalla
teleburocratizzazione dell’Università trasformata in azienda, un professore
dell’Ateneo genovese, Accademico della Crusca, si è dimesso e il suo gesto
esemplare dovrebbe essere seguito in massa. Invece i più si adeguano, avallando
così le istanze della burocratizzazione telematica. Sono pochi i docenti che
non si piegano alla VQR, alla SUA, all’AVA, alle regole dell’ASN e agli altri
infiniti adempimenti che stanno schiacciando l’Università; pochi quelli che si
rifiutano di far parte di commissioni di valutazione di pari o di altri organi
di controllo e accreditamento; pochi, troppo pochi, quelli disposti a imboccare
la strada della disobbedienza civile e del boicottaggio del sistema, che è
forse l’unica strada che resta per arrestare la deriva.
«Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata
globale» – scriveva qualche anno fa Martha Nussbaum; e proseguiva: «Non mi
riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008. In quel caso,
almeno, tutti si sono resi conto della crisi in atto e molti governi nel mondo
si sono dati freneticamente da fare per cercare delle soluzioni […]. Mi
riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio,
come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa
per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione». La
citazione è piuttosto lunga e chiedo venia al lettore; ma quel che segue merita
di essere riportato tale e quale. «Sono in corso radicali cambiamenti riguardo
a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani, e su tali
cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte
dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando,
in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a
mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto
il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché
cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e
comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre
persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo».
Sante parole. Ma siamo sicuri che le “docili macchine” incapaci di “pensare
da sé e criticare la tradizione” stiano solo dall’altra parte della cattedra?
Forse è giunto davvero il tempo d’intonare il Requiem.
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