venerdì 22 marzo 2019

Greta, il futuro e noi - Omar Onnis



Sì, noi. Tutti noi.
La vagonata di complottismi da quattro soldi, ma persino le critiche più ponderate, riversati sulle grandi manifestazioni di venerdì 15 marzo non possono nascondere una verità: abbiamo un grosso problema e non lo stiamo affrontando.
In molti hanno provato a spostare il focus su Greta Thunberg, diventata da promotrice a icona, quindi a oggetto principale del discorso.
Come se il problema fosse lei.
Che il mondo in cui vive la nostra specie sia in un momento difficile è sotto gli occhi di tutti.
Siamo tanti, sul pianeta, forse troppi, e soprattutto abbiamo un modo di soddisfare i nostri bisogni e una forma di condivisione delle risorse e delle informazioni che definire inefficienti è dire poco.
Sono sicuro che le civiltà aliene evolute che ci osservano, in attesa che diamo segnali di vera intelligenza, sono lì a girarsi i pollici spazientite.
È come se fossimo una specie per sua stessa natura ottusa, stupida.
Oddio, qualcuno questo sospetto lo aveva già avuto.
Potrei citare Nietzsche e/o Einstein e/o Carlo Cipolla, in proposito. Ed altri ancora. Ma ve li risparmio. Andateveli a leggere.
Fatto sta che siamo nei guai e non diamo l’idea di volercene tirare fuori tanto presto.
Eppure la banale verità delle cose è pienamente squadernata davanti a noi.
Viviamo in modo stupido e per di più, per la grande maggioranza dei nostri simili, infelice.
La questione non è nemmeno più se il clima sta impazzendo e se ciò è causato o meno da noi.
Certo che il clima sta impazzendo. Oltre ad essere un fatto di per sé nient’affatto inedito, è evidente che l’impatto della nostra specie parassita e virale ha i suoi effetti in questa partita.
Un vecchio motto degli economisti è: non esistono pasti gratis.
Peccato che siano gli stessi economisti che, nella maggior parte dei casi, continuano a propalare miti, dogmi di fede e fallacie logiche palesi sotto forma di prescrizioni cervellotiche e autolesioniste.
Fateci caso: su cosa si basano le tesi economiche dominanti? Su grandezze fisiche o comunque scientificamente misurabili? Su dati di fatto sperimentati e convalidati?
Quasi mai. O mai del tutto.
Ha ragione il grande economista eterodosso cileno Manfred Max-Neef: non si può prendere in seria considerazione, sul piano scientifico, alcuna teoria economica che non tenga conto delle leggi della termodinamica.
Invece, per lo più, gli effetti fisici e concreti, specifici o macroscopici, delle attività economiche umane sono confinati dagli economisti nella categoria nebulosa e anodina delle “esternalità”.
Come se, che ne so, il brutale sfruttamento del lavoro sottostante a un certo prezzo o l’inquinamento dovuto al trasporto inessenziale di merci non facessero parte del nostro stesso continuum spazio-temporale.
Le mobilitazioni globali, specie dei giovani, non solo non sono il problema, ma anzi sono necessarie. E devono essere intransigenti e durature.
Con obiettivi reali e strategici. Per esempio l’abbattimento del meccanismo di appropriazione rapace, della cleptocrazia come unica forma generale, legittima e necessaria di convivenza.
In effetti, continuare a imporre al mondo l’idea pazzesca che tutto debba essere sottomesso al profitto privato è un capolavoro da geni del male.
Una fetta consistente di umanità è persuasa che sia giusto e persino auspicabile che esista un’oligarchia di ricchi e potenti, a discapito del resto della specie e della biosfera stessa.
O ne è persuasa o è rassegnata a questo dato di fatto. Non cambia molto.
Eppure, a guardare la cosa con un po’ di distacco, la sua assurdità è evidente.
Un’assurdità che ormai presenta il conto. Da pagare subito oppure più in là, ma con interessi usurari.
Alle élite mondiali (soprattutto europee e nordamericane, ma non solo), trent’anni fa non era sembrato vero che fosse svanita la minaccia socialista, incarnata più o meno coerentemente dall’Unione Sovietica.
Da qualche anno si teorizzava il neoliberismo, il dominio del profitto senza freni inibitori, la sussunzione di tutto il reale, vita compresa, alla meccanica brutale dell’estrazione di valore monetario.
La signora Thatcher aveva già imposto questo verbo demoniaco ai propri sudditi e l’establishment reazionario USA, tramite il proprio fantoccio Reagan, stava facendo lo stesso.
La fine del totem sovietico e la caduta simbolica del Muro di Berlino, salutati dalle folle illuse o drogate di scempiaggini come una promessa di libertà, erano state invece il segnale che le mani potevano essere del tutto libere, per i padroni del mondo.
Il dominio dell’accaparramento egoistico sulla politica non aveva più ostacoli.
Sappiamo cosa è successo dopo. Altro che fine della storia!
Guerre, spoliazioni, inasprimento delle condizioni di vita per masse enormi di persone, anche nei paesi ricchi, guasti ambientali su scala globale e, ormai, mutamenti climatici troppo rapidi per essere assorbiti senza conseguenze drammatiche dal sistema-Terra.
Certo, c’è stato qualche tentativo di reazione.
La mobilitazione degli studenti di venerdì scorso non è stata la prima di questo genere.
Siamo ormai talmente smemorati che non ricordiamo nemmeno le cose che sono successe a noi. Eppure molti di noi c’erano già e avevano già raggiunto una certa consapevolezza negli anni Novanta.
Gli anni del rifiuto del disimpegno, avviati proprio dalle mobilitazioni studentesche; gli anni del rigetto delle paillettes e del trash musicale anni Ottanta, sostituiti dal grunge, dal combat folk (non solo italiano), dal rock alternativo.
Gli anni della riscoperta del “politico” (a differenza del decennio precedente), quelli del subcomandante Marcos, della mobilitazione no global, dei Social Forum.
Un’onda lunga che è stata brutalmente contrastata dalle barriere della repressione violenta (pensiamo a Genova 2001), dal rilancio imperialista e dalla nuova centralità della geo-politica (dall’11 settembre in poi).
(La geo-politica pare aver sostituito ogni forma di ragionamento e di teoria, anche nel campo della sinistra. Un bel regalo al campo avverso, non c’è che dire.)
Ma c’era stata ancora la grande mobilitazione contro la guerra, così come gli ultimi scioperi di massa e – in Sardegna, per esempio – grandi mobilitazioni locali su questioni specifiche (nel nostro caso, contro l’ipotesi di una centrale nucleare e un deposito di scorie sull’isola).
Era il 2003 e lì si era un po’ arrestata l’inerzia dell’onda lunga degli anni Novanta.
Ma i problemi sono restati intatti. Anzi sono peggiorati (pensiamo alla nuova recrudescenza dell’endemica e sistemica crisi capitalista, nel 2008).
È in corso una durissima lotta di classe tra l’oligarchia planetaria, che intende perpetuare un modello stupido, ma per essa conveniente, e il resto del mondo.
Non è affatto escluso dal novero delle possibilità che questa lotta finisca con la definitiva ghettizzazione di gran parte dell’umanità, della condanna a un destino di malattia, miseria e abbruttimento della nostra specie, a vantaggio del benessere egoistico di una ristretta élite.
O pensiamo che un esito del genere non sia contemplato da chi detiene risorse, mezzi, potere?
Non è una distopia così lontana. Ci siamo già dentro almeno con un piede.
Bisogna reimporre la prevalenza del politico sull’economico e del collettivo sull’individuale.
Non per annullare le dinamiche economiche e nemmeno per deprivare gli individui delle proprie vite, delle proprie aspirazioni e speranze. Ma per rendere più efficienti ed eque le prime e più sensate e libere le seconde.
Il mezzo per raggiungere gli obiettivi generali e strategici di una nuova democrazia planetaria e di una vera libertà nell’eguaglianza e nella solidarietà non potrà essere il vecchio stato otto-novecentesco.
Vediamo bene come esso sia stato e sia ancora una facile leva di potere nelle mani di chi detiene ricchezze e risorse.
E dove esso è dominato da una sola forza politica o da un’oligarchia intoccabile, sia pure nominalmente comunista (come in Cina), in realtà là vige solo una forma di capitalismo ancora più spietata e senza limitazioni.
Bisogna combattere contro tutte le forme di prevaricazione e di negazione della democrazia. Bisogna abbattere il modello predatorio, ivi compreso il suo corollario neo-coloniale.
In Sardegna ne sappiamo qualcosa. Siamo sulla linea del fronte, meglio che ce ne rendiamo conto.
I giovani sardi fanno bene a mobilitarsi per il clima, ma spero e auspico che si rendano conto che la loro mobilitazione deve incidere prima di tutto sulle proprie vite, sui propri luoghi.
È indispensabile la ri-pubblicizzazione di tutti beni comuni e di tutte le strutture e infrastrutture di rilevanza collettiva.
Sono ambiti in cui deve essere espulso come un virus il concetto stesso di profitto privato.
Che sia l’acqua, l’istruzione, la salute, le comunicazioni, il diritto alla mobilità, la salubrità ambientale, la cultura, è necessario riportare a stretto contatto i bisogni fondamentali con le risorse e i mezzi che li soddisfano, fuori dalla logica dell’arricchimento egoistico.
Bisogna ridisegnare il nostro paradigma politico in termini non gerarchici, ma solidali; non dall’alto in basso, ma in termini di sussidiarietà.
Autogoverno delle comunità, un nuovo municipalismo che diventa un nuovo confederalismo a un livello più alto, fino a trovare una forma di coordinamento almeno a livello continentale per la garanzia dei diritti universali.
A questo bisogna puntare. A partire dalle comunità locali e dalle realtà storico- territoriali specifiche (come la Sardegna).
Non siamo sprovvisti di orizzonti politici visibili, né di dotazioni teoriche già assemblate.
Democrazia radicale, autodeterminazione solidale, neo-municipalismo e confederalismo, sviluppo su scala umana sono già concetti e orizzonti ampiamente teorizzati e in parte anche operanti.
È solo un fatto di consapevolezza da diffondere e radicare, e di forza morale a cui attingere.
Senza la lotta non otterremo nulla. Chi domina la scena oggi vuole dominarla ancora per un pezzo e non cederà a buon mercato.
Per di più, l’oligarchia imperante, pur nelle sue varie fazioni, detiene una potentissima egemonia culturale, che andrà scardinata usando in parte i suoi stessi mezzi, in parte inventandoci qualcosa di nuovo.
Anche qui, non siamo all’anno zero.
La reazione oligarchica, tecnocratica e cleptocratica è già in moto e si sta servendo abilmente delle sue pedine populiste, razziste, fasciste e “sovraniste” per legittimarsi ancora.
Ne vanno fatte emergere le contraddizioni, i trucchi retorici, vanno evidenziati gli aspetti inaccettabili della situazione odierna.
Naturalmente non dobbiamo fissarci in dogmatiche prescrittive o attardarci in questioni nominalistiche. Errori già fatti da non ripetere.
Vedremo se la storia finalmente troverà qualche allievo un po’ meno distratto.
Alla fin fine, dovremo ringraziare tutte le Greta del mondo e coloro che ne seguiranno l’esempio, se riusciremo a cambiarne il corso.
Il corso che già oggi, per troppi esseri umani, si sta compiendo sotto forma di sofferenze e privazioni ingiustificabili, e che sta rendendo l’unico pianeta abitabile a nostra disposizione un pianeta inospitale.
Non so se basterà una nuova presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno. Onestamente non credo.
Di sicuro serve costruire una forte alternativa popolare, di massa, diffusa, globale e solidale. E rivoluzionaria. A partire dai nostri luoghi e dalle nostre comunità.
Non vedo alternative, se non la passiva accettazione del disastro.

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