Sì, noi. Tutti noi.
La vagonata di complottismi da quattro
soldi, ma persino le critiche più ponderate, riversati sulle grandi
manifestazioni di venerdì 15 marzo non possono nascondere una verità: abbiamo
un grosso problema e non lo stiamo affrontando.
In molti hanno provato a spostare il
focus su Greta Thunberg, diventata da promotrice a icona, quindi a oggetto
principale del discorso.
Come se il problema fosse lei.
Che il mondo in cui vive la nostra
specie sia in un momento difficile è sotto gli occhi di tutti.
Siamo tanti, sul pianeta, forse troppi,
e soprattutto abbiamo un modo di soddisfare i nostri bisogni e una forma di
condivisione delle risorse e delle informazioni che definire inefficienti è
dire poco.
Sono sicuro che le civiltà aliene
evolute che ci osservano, in attesa che diamo segnali di vera intelligenza,
sono lì a girarsi i pollici spazientite.
È come se fossimo una specie per sua
stessa natura ottusa, stupida.
Oddio, qualcuno questo sospetto lo aveva
già avuto.
Potrei citare Nietzsche e/o Einstein e/o
Carlo Cipolla, in proposito. Ed altri ancora. Ma ve li risparmio. Andateveli a leggere.
Fatto sta che siamo nei guai e non diamo
l’idea di volercene tirare fuori tanto presto.
Eppure la banale verità delle cose è
pienamente squadernata davanti a noi.
Viviamo in modo stupido e per di più,
per la grande maggioranza dei nostri simili, infelice.
La questione non è nemmeno più se il
clima sta impazzendo e se ciò è causato o meno da noi.
Certo che il clima sta impazzendo. Oltre
ad essere un fatto di per sé nient’affatto inedito, è evidente che l’impatto
della nostra specie parassita e virale ha i suoi effetti in questa partita.
Un vecchio motto degli economisti è: non
esistono pasti gratis.
Peccato che siano gli stessi economisti
che, nella maggior parte dei casi, continuano a propalare miti, dogmi di fede e
fallacie logiche palesi sotto forma di prescrizioni cervellotiche e
autolesioniste.
Fateci caso: su cosa si basano le tesi
economiche dominanti? Su grandezze fisiche o comunque scientificamente
misurabili? Su dati di fatto sperimentati e convalidati?
Quasi mai. O mai del tutto.
Ha ragione il grande economista
eterodosso cileno Manfred Max-Neef: non si può prendere in seria
considerazione, sul piano scientifico, alcuna teoria economica che non tenga
conto delle leggi della termodinamica.
Invece, per lo più, gli effetti fisici e
concreti, specifici o macroscopici, delle attività economiche umane sono
confinati dagli economisti nella categoria nebulosa e anodina delle
“esternalità”.
Come se, che ne so, il brutale
sfruttamento del lavoro sottostante a un certo prezzo o l’inquinamento dovuto
al trasporto inessenziale di merci non facessero parte del nostro stesso
continuum spazio-temporale.
Le mobilitazioni globali, specie dei
giovani, non solo non sono il problema, ma anzi sono necessarie. E devono essere
intransigenti e durature.
Con obiettivi reali e strategici. Per
esempio l’abbattimento del meccanismo di appropriazione rapace, della
cleptocrazia come unica forma generale, legittima e necessaria di convivenza.
In effetti, continuare a imporre al
mondo l’idea pazzesca che tutto debba essere sottomesso al profitto privato è
un capolavoro da geni del male.
Una fetta consistente di umanità è
persuasa che sia giusto e persino auspicabile che esista un’oligarchia di
ricchi e potenti, a discapito del resto della specie e della biosfera stessa.
O ne è persuasa o è rassegnata a questo
dato di fatto. Non cambia molto.
Eppure, a guardare la cosa con un po’ di
distacco, la sua assurdità è evidente.
Un’assurdità che ormai presenta il
conto. Da pagare subito oppure più in là, ma con interessi usurari.
Alle élite mondiali (soprattutto europee
e nordamericane, ma non solo), trent’anni fa non era sembrato vero che fosse
svanita la minaccia socialista, incarnata più o meno coerentemente dall’Unione
Sovietica.
Da qualche anno si teorizzava il
neoliberismo, il dominio del profitto senza freni inibitori, la sussunzione di
tutto il reale, vita compresa, alla meccanica brutale dell’estrazione di valore
monetario.
La signora Thatcher aveva già imposto questo verbo
demoniaco ai propri sudditi e l’establishment reazionario USA, tramite il
proprio fantoccio Reagan, stava facendo lo stesso.
La fine del totem sovietico e la caduta
simbolica del Muro di Berlino, salutati dalle folle illuse o drogate di
scempiaggini come una promessa di libertà, erano state invece il segnale che le
mani potevano essere del tutto libere, per i padroni del mondo.
Il dominio dell’accaparramento egoistico
sulla politica non aveva più ostacoli.
Sappiamo cosa è successo dopo. Altro che
fine della storia!
Guerre, spoliazioni, inasprimento delle
condizioni di vita per masse enormi di persone, anche nei paesi ricchi, guasti
ambientali su scala globale e, ormai, mutamenti climatici troppo rapidi per
essere assorbiti senza conseguenze drammatiche dal sistema-Terra.
Certo, c’è stato qualche tentativo di
reazione.
La mobilitazione degli studenti di
venerdì scorso non è stata la prima di questo genere.
Siamo ormai talmente smemorati che non
ricordiamo nemmeno le cose che sono successe a noi. Eppure molti di noi c’erano
già e avevano già raggiunto una certa consapevolezza negli anni Novanta.
Gli anni del rifiuto del disimpegno,
avviati proprio dalle mobilitazioni studentesche; gli anni del rigetto delle
paillettes e del trash musicale anni Ottanta, sostituiti dal grunge,
dal combat folk (non solo italiano), dal rock alternativo.
Gli anni della riscoperta del “politico”
(a differenza del decennio precedente), quelli del subcomandante Marcos, della mobilitazione no
global, dei Social Forum.
Un’onda lunga che è stata brutalmente
contrastata dalle barriere della repressione violenta (pensiamo a Genova 2001),
dal rilancio imperialista e dalla nuova centralità della geo-politica (dall’11
settembre in poi).
(La geo-politica pare aver sostituito
ogni forma di ragionamento e di teoria, anche nel campo della sinistra. Un bel
regalo al campo avverso, non c’è che dire.)
Ma c’era stata ancora la grande
mobilitazione contro la guerra, così come gli ultimi scioperi di massa e – in
Sardegna, per esempio – grandi mobilitazioni locali su questioni specifiche
(nel nostro caso, contro l’ipotesi di una centrale nucleare e un deposito di
scorie sull’isola).
Era il 2003 e lì si era un po’ arrestata
l’inerzia dell’onda lunga degli anni Novanta.
Ma i problemi sono restati intatti. Anzi
sono peggiorati (pensiamo alla nuova recrudescenza dell’endemica e sistemica
crisi capitalista, nel 2008).
È in corso una durissima lotta di classe
tra l’oligarchia planetaria, che intende perpetuare un modello stupido, ma per
essa conveniente, e il resto del mondo.
Non è affatto escluso dal novero
delle possibilità che questa lotta finisca con la definitiva
ghettizzazione di gran parte dell’umanità, della condanna a un destino di
malattia, miseria e abbruttimento della nostra specie, a vantaggio del
benessere egoistico di una ristretta élite.
O pensiamo che un esito del genere non
sia contemplato da chi detiene risorse, mezzi, potere?
Non è una distopia così lontana. Ci
siamo già dentro almeno con un piede.
Bisogna reimporre la prevalenza del
politico sull’economico e del collettivo sull’individuale.
Non per annullare le dinamiche
economiche e nemmeno per deprivare gli individui delle proprie vite, delle
proprie aspirazioni e speranze. Ma per rendere più efficienti ed eque le prime
e più sensate e libere le seconde.
Il mezzo per raggiungere gli obiettivi
generali e strategici di una nuova democrazia planetaria e di una vera libertà
nell’eguaglianza e nella solidarietà non potrà essere il vecchio stato otto-novecentesco.
Vediamo bene come esso sia stato e sia
ancora una facile leva di potere nelle mani di chi detiene ricchezze e risorse.
E dove esso è dominato da una sola forza
politica o da un’oligarchia intoccabile, sia pure nominalmente comunista (come
in Cina), in realtà là vige solo una forma di capitalismo ancora più spietata e
senza limitazioni.
Bisogna combattere contro tutte le forme
di prevaricazione e di negazione della democrazia. Bisogna abbattere il modello
predatorio, ivi compreso il suo corollario neo-coloniale.
In Sardegna ne sappiamo qualcosa. Siamo
sulla linea del fronte, meglio che ce ne rendiamo conto.
I giovani sardi fanno bene a mobilitarsi
per il clima, ma spero e auspico che si rendano conto che la loro mobilitazione
deve incidere prima di tutto sulle proprie vite, sui propri luoghi.
È indispensabile la ri-pubblicizzazione
di tutti beni comuni e di tutte le strutture e infrastrutture di rilevanza
collettiva.
Sono ambiti in cui deve essere espulso
come un virus il concetto stesso di profitto privato.
Che sia l’acqua, l’istruzione, la
salute, le comunicazioni, il diritto alla mobilità, la salubrità ambientale, la
cultura, è necessario riportare a stretto contatto i bisogni fondamentali con
le risorse e i mezzi che li soddisfano, fuori dalla logica dell’arricchimento
egoistico.
Bisogna ridisegnare il nostro paradigma
politico in termini non gerarchici, ma solidali; non dall’alto in basso, ma in
termini di sussidiarietà.
Autogoverno delle comunità, un nuovo
municipalismo che diventa un nuovo confederalismo a un livello più alto, fino a
trovare una forma di coordinamento almeno a livello continentale per la
garanzia dei diritti universali.
A questo bisogna puntare. A partire
dalle comunità locali e dalle realtà storico- territoriali specifiche (come la
Sardegna).
Non siamo sprovvisti di orizzonti
politici visibili, né di dotazioni teoriche già assemblate.
Democrazia radicale, autodeterminazione
solidale, neo-municipalismo e confederalismo, sviluppo su scala umana sono già
concetti e orizzonti ampiamente teorizzati e in parte anche operanti.
È solo un fatto di consapevolezza da
diffondere e radicare, e di forza morale a cui attingere.
Senza la lotta non otterremo nulla. Chi
domina la scena oggi vuole dominarla ancora per un pezzo e non cederà a buon
mercato.
Per di più, l’oligarchia imperante, pur
nelle sue varie fazioni, detiene una potentissima egemonia culturale, che andrà
scardinata usando in parte i suoi stessi mezzi, in parte inventandoci qualcosa
di nuovo.
Anche qui, non siamo all’anno zero.
La reazione oligarchica, tecnocratica e
cleptocratica è già in moto e si sta servendo abilmente delle sue pedine
populiste, razziste, fasciste e “sovraniste” per legittimarsi ancora.
Ne vanno fatte emergere le
contraddizioni, i trucchi retorici, vanno evidenziati gli aspetti inaccettabili
della situazione odierna.
Naturalmente non dobbiamo fissarci in
dogmatiche prescrittive o attardarci in questioni nominalistiche. Errori già
fatti da non ripetere.
Vedremo se la storia finalmente troverà
qualche allievo un po’ meno distratto.
Alla fin fine, dovremo ringraziare tutte
le Greta del mondo e coloro che ne seguiranno l’esempio, se riusciremo a
cambiarne il corso.
Il corso che già oggi, per troppi esseri
umani, si sta compiendo sotto forma di sofferenze e privazioni
ingiustificabili, e che sta rendendo l’unico pianeta abitabile a nostra
disposizione un pianeta inospitale.
Non so se basterà una nuova presa della
Bastiglia o del Palazzo d’Inverno. Onestamente non credo.
Di sicuro serve costruire una forte
alternativa popolare, di massa, diffusa, globale e solidale. E rivoluzionaria.
A partire dai nostri luoghi e dalle nostre comunità.
Non vedo alternative, se non la passiva
accettazione del disastro.
Nessun commento:
Posta un commento