Mancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con
una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che
era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in
tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi. Per un po’ riuscì a restare in
piedi, poi una bastonata sulle ginocchia lo fece crollare sul selciato.
Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si
rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della
scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte. Mark
sperò che rompessero subito la catena del cancello, così forse l’avrebbero
lasciato in pace. Avrebbe potuto alzarsi e raggiungere la redazione di
Indymedia dall’altra parte della strada, dove aveva passato gli ultimi tre
giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia.
Proprio in quel momento un agente gli saltò addosso e gli diede un calcio
al petto con tanta violenza da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia
toracica, rompendogli una mezza dozzina di costole. Le schegge gli lacerarono
la pleura del polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 e pesa meno di 51
chili, venne scaraventato sulla strada. Sentì ridere un agente e pensò che non
ne sarebbe uscito vivo.
Mentre la squadra antisommossa cercava di forzare il cancello, per
ingannare il tempo alcuni agenti cominciarono a colpire Covell come se fosse un
pallone. La nuova scarica di calci gli ruppe la mano sinistra e gli danneggiò
la spina dorsale. Alle sue spalle, Covell sentì un agente che urlava “Basta!
Basta!” e poi il suo corpo che veniva trascinato via.
Intanto un blindato della polizia aveva sfondato il cancello della scuola e
150 poliziotti avevano fatto irruzione nell’edificio con caschi, manganelli e
scudi. Due poliziotti si fermarono accanto a Covell, uno lo colpì alla testa
con il manganello e il secondo lo prese a calci sulla bocca, spaccandogli una
dozzina di denti. Covell svenne.
Non dimenticare
Ci sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore.
Ci sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore.
Il secondo motivo è che, sette anni dopo, Covell e i suoi compagni
aspettano ancora giustizia. Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie
penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle
violenze. Ma nessuno sconterà la pena. In Italia gli imputati non vanno in
prigione fino alla conclusione dell’ultimo grado di giudizio, e le condanne per
i fatti di Genova cadranno in prescrizione l’anno prossimo. I politici che
all’epoca erano responsabili della polizia, delle guardie penitenziarie e dei
medici carcerari non hanno mai dovuto dare spiegazioni.
Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono
senza risposta e rimandano al terzo e più importante motivo per ricordare
Genova. Questa non è semplicemente una storia di poliziotti esaltati. Sotto c’è
qualcosa di più grave e preoccupante.
Questa storia può essere raccontata solo grazie al duro lavoro coordinato
da un pubblico ministero appassionato e coraggioso, Enrico Zucca. Con l’aiuto
di Covell e di una squadra di magistrati, Zucca ha raccolto centinaia di
testimonianze e analizzato cinquemila ore di video e migliaia di fotografie.
Tutte insieme raccontano una storia cominciata proprio mentre Covell giaceva a
terra sanguinante.
Come porci
I poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile.
I poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile.
Uno dei primi ad accorgersi dell’irruzione fu Michael Gieser, un economista
belga di 35 anni che si era appena messo il pigiama e stava facendo la fila
davanti al bagno con lo spazzolino in mano. Gieser crede nel dialogo e in un
primo momento si diresse verso gli agenti dicendo: “Dobbiamo parlare”. Vide i giubbotti
imbottiti, gli sfollagente, i caschi e le bandane che nascondevano i volti dei
poliziotti, cambiò idea e scappò di corsa per le scale.
Gli altri furono più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. I dieci
spagnoli accampati nell’atrio della scuola si svegliarono sotto i colpi dei
manganelli. Alzarono le mani in segno di resa, ma altri poliziotti cominciarono
a picchiarli in testa, provocando tagli e ferite e fratturando il braccio a una
donna di 65 anni. Nella stessa stanza alcuni ragazzi erano seduti davanti al
computer e mandavano email a casa. Tra loro c’era Melanie Jonasch, 28 anni,
studentessa di archeologia a Berlino, che si era offerta di lavorare nella
scuola e non aveva neppure partecipato ai cortei.
Melanie non riesce ancora a ricordare cosa accadde. Ma molti testimoni
hanno raccontato che i poliziotti l’aggredirono e la colpirono alla testa con
tanta violenza che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la
circondarono continuando a picchiarla e a prenderla a calci, sbattendole la
testa contro un armadio e alla fine lasciandola in una pozza di sangue.
Katherina Ottoway, che vide la scena, ricorda: “Tremava tutta. Aveva gli occhi
aperti ma rovesciati all’insù. Pensai che stesse morendo, che non sarebbe
sopravvissuta”.
Nessuno dei ragazzi che erano al piano terra sfuggì al pestaggio. Come ha
scritto Zucca nella sua requisitoria: “Nell’arco di pochi minuti, tutti gli
occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza. I gemiti dei feriti si
univano agli appelli a chiamare un’ambulanza”. Per la paura, alcune vittime
persero il controllo dello sfintere. Poi gli agenti si diressero verso le
scale.
Nel corridoio del primo piano trovarono un piccolo gruppo di persone, tra
cui Gieser, che stringeva ancora il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di
sdraiarsi, per dimostrare che non facevamo nessuna resistenza, così mi sdraiai.
I poliziotti arrivarono e cominciarono a picchiarci, uno dopo l’altro. Io mi
riparavo la testa con le mani e pensavo: ‘Devo resistere’. Sentivo gridare
‘basta, per favore’ e lo ripetevo anch’io. Mi faceva pensare a quando si
sgozzano i maiali. Ci stavano trattando come animali, come porci”.
I poliziotti abbatterono le porte delle stanze che si affacciavano sui
corridoi. In una trovarono Dan McQuillan e Norman Blair, arrivati in aereo da
Stansted, vicino Londra, per manifestare a favore di “una società libera e
giusta dove la gente possa vivere in armonia”, spiega McQuillan. Avevano
sentito la polizia al piano terra e insieme a un amico neozelandese, Sam
Buchanan, avevano cercato di nascondersi con le loro borse sotto dei tavoli in
un angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione nel locale e
li illuminò con una torcia. McQuillan scattò in piedi, alzò le mani e cominciò
a ripetere “Calma, calma”, ma non servì a fermare i poliziotti. McQuillan ne
uscì con un polso rotto. “Sentivo tutto il loro veleno e il loro odio”, ricorda
Norman Blair.
Gieser era in corridoio: “Intorno a me era tutto coperto di sangue. Un
poliziotto gridò ‘Basta!’ e per un attimo sperammo che tutto sarebbe finito. Ma
gli agenti non si fermarono, continuarono a picchiare di gusto. Alla fine
ubbidirono all’ordine, ma erano come dei bambini a cui si toglie un giocattolo
contro la loro volontà”.
Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci.
Secondo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti
pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva
lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava
importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente
sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si
sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo
l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che
erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio.
Le ruppero il polso.
Un crescendo di violenza
Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello.
Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello.
In questo crescendo di violenza ci furono momenti in cui i poliziotti
scelsero l’umiliazione. Un agente si mise a gambe aperte davanti a una donna inginocchiata
e ferita, si afferrò il pene e glielo avvicinò al viso. Poi si girò e fece la
stessa cosa con Daniel Albrecht, che era inginocchiato lì accanto. Un altro
poliziotto interruppe un pestaggio per prendere un coltello e tagliare i
capelli alle vittime, tra cui Nicola Doherty. Un altro chiese a un gruppo di
ragazzi se stavano bene e quando uno disse di no, partì un’altra scarica di
botte.
Alcuni riuscirono a sfuggire alla violenza, almeno per un po’. Karl Boro
scappò sul tetto, ma poi fece l’errore di rientrare nella scuola e subì lo
stesso trattamento degli altri. Riportò gravi lesioni alle braccia e alle
gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica. Jaraslav Engel, polacco,
riuscì a uscire dalla Diaz arrampicandosi sulle impalcature, ma fu preso sulla
strada da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa, lo
scaraventarono per terra e rimasero a fumare mentre il suo sangue scorreva
sull’asfalto.
Due studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels
Martensen, furono tra gli ultimi a essere presi. Si erano nascosti in un
armadio usato dagli addetti alle pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia
che si avvicinava sbattendo i manganelli sulle pareti delle scale. La porta
dell’armadio venne aperta, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una
decina di poliziotti schierati a semicerchio intorno a lui. Zuhlke attraversò
di corsa il corridoio e si nascose nel bagno. I poliziotti la videro, la
seguirono e la trascinarono fuori per i capelli. In corridoio, l’aggredirono
come cani addosso a un coniglio. Fu colpita alla testa e poi presa a calci da
ogni parte finché sentì collassare la gabbia toracica. La rimisero in piedi
appoggiandola a una parete dove un poliziotto le dette una ginocchiata
all’inguine mentre gli altri continuarono a prenderla a manganellate. Scivolò
giù, ma la picchiarono ancora: “Sembrava che si divertissero, quando gridavo di
dolore sembrava che godessero ancora di più”.
I poliziotti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite
di Martensen. Zuhlke venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale
a testa in giù. Alla fine, trascinarono la ragazza nell’ingresso del piano
terra, dove avevano ammassato decine di prigionieri insanguinati e sporchi di
escrementi. La gettarono sopra ad altre due persone. Non si muovevano e Zuhlke,
tramortita, chiese se erano vivi. Nessuno rispose e lei rimase supina. Non
muoveva più il braccio destro ma non riusciva a tenere fermi il braccio
sinistro e le gambe, che si contraevano convulsamente. Il sangue le gocciolava
dalle ferite alla testa. Un gruppo di poliziotti le passò accanto: uno dopo
l’altro si sollevarono le bandane che gli coprivano il volto e le sputarono in
faccia.
Mussolini e Pinochet
Perché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti.
Perché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti.
Covell e decine di altre vittime dell’irruzione furono portati all’ospedale
San Martino, dove i poliziotti camminavano su e giù per i corridoi, battendo il
manganello sul palmo delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi e di non
guardare dalla finestra, lasciandoli ammanettati. Poi, senza che fossero stati
medicati, li spedirono all’altro capo della città nel centro di detenzione di
Bolzaneto, dove erano trattenute decine di altri manifestanti, presi alla Diaz
e nei cortei.
I primi segnali che c’era qualcosa di più grave possono sembrare banali.
Alcuni poliziotti avevano vecchie canzoni fasciste come suoneria del cellulare
e parlavano con ammirazione di Mussolini e Pinochet. Diverse volte ordinarono
ai prigionieri di gridare “Viva il duce” e usarono le minacce per costringerli
a intonare canzoni fasciste: “Uno, due, tre. Viva Pinochet!”.
Le 222 persone detenute a Bolzaneto furono sottoposte a un trattamento che
in seguito i pubblici ministeri hanno definito tortura. All’arrivo furono
marchiati con dei segni di pennarello sulle guance e molti furono costretti a
camminare tra due file di poliziotti che li bastonavano e li prendevano a
calci. Una parte dei prigionieri fu trasferita in celle che contenevano fino a
30 persone. Qui furono costretti a restare fermi in piedi davanti al muro, con
le braccia in alto e le gambe divaricate. Chi non riusciva a mantenere questa
posizione veniva insultato, schiaffeggiato e picchiato. Mohammed Tabach, che ha
una gamba artificiale e non riusciva a sopportare la fatica della posizione,
crollò. Fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe e, più tardi, un
pestaggio particolarmente feroce.
Norman Blair ricorda che mentre era in piedi nella posizione che gli
avevano ordinato una guardia gli chiese: “Chi è lo stato?”. “La persona davanti
a me aveva risposto ‘Polizei’, così detti la stessa risposta. Avevo paura che
mi pestassero”.
Stefan Bauer osò dare un’altra risposta: quando una guardia che parlava
tedesco gli chiese di dove era, rispose che veniva dall’Unione europea e aveva
il diritto di andare dove voleva. Lo trascinarono fuori, lo riempirono di botte
e di spray al pepe sulla faccia, lo spogliarono e lo misero sotto una doccia
fredda. I suoi vestiti furono portati via e dovette tornare nella cella gelida
con un camice d’ospedale.
Tremanti sui pavimenti di marmo delle celle, i detenuti ebbero solo qualche
coperta, furono tenuti svegli senza mangiare e gli venne negato il diritto di
telefonare e a vedere un avvocato. Sentivano pianti e urla dalle altre celle.
Uomini e donne con i capelli rasta vennero brutalmente rasati. Marco
Bistacchia fu portato in un ufficio, denudato, costretto a mettersi a quattro
zampe e ad abbaiare. Poi gli ordinarono di gridare “Viva la polizia italiana!”.
Singhiozzava troppo per ubbidire. Un poliziotto anonimo ha dichiarato al
quotidiano La Repubblica di aver visto dei colleghi che urinavano sui
prigionieri e li picchiavano perché si rifiutavano di cantareFaccetta nera.
Minacce di stupro
Ester Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale.
Ester Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale.
Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, che aveva difeso con il
suo corpo la compagna, era coperto di tagli e lividi. Gli misero dei punti in
testa e sulle gambe senza anestesia. “Fu un’esperienza molto dolorosa e
traumatica. Dovevano tenermi fermo con la forza”, ricorda. Tra le persone
condannate il 14 luglio ci sono anche alcuni medici della prigione.
Tutti hanno dichiarato che non fu un tentativo di costringere i detenuti a
confessare, ma solo un esercizio di terrore. E funzionò. Nelle loro testimonianze,
i prigionieri hanno descritto la sensazione d’impotenza, di essere tagliati
fuori dal mondo in un luogo senza legge e senza regole. La polizia costrinse i
prigionieri a firmare delle dichiarazioni. Un francese, David Larroquelle, ebbe
tre costole rotte perché non voleva firmare. Anche Percivati si rifiutò: gli
sbatterono la faccia contro la parete dell’ufficio, rompendole gli occhiali e
facendole sanguinare il naso.
All’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta. Il giorno dopo il
pestaggio Covell riprese conoscenza all’ospedale e si accorse che una donna gli
stava scuotendo la spalla. Pensò che fosse dell’ambasciata inglese, poi quando
l’uomo che era con lei cominciò a scattare foto si rese conto che era una
giornalista. Il giorno dopo il Daily Mail pubblicò in prima pagina una storia
inventata di sana pianta secondo cui Covell aveva contribuito a pianificare gli
scontri (ci sono voluti quattro anni perché il Mail si scusasse e risarcisse
Covell per aver violato la sua privacy).
Mentre alcuni cittadini britannici venivano pestati e trattenuti
illegalmente, i portavoce del primo ministro Tony Blair dichiararono: “La
polizia italiana doveva fare un lavoro difficile. Il premier ritiene che lo
abbia svolto”.
Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una
serie di menzogne. Perfino mentre i corpi insanguinati venivano trasportati
fuori dalla Diaz in barella, i poliziotti raccontavano ai giornali che le
ambulanze allineate nella strada non avevano nulla a che fare con l’incursione,
che le ferite dei ragazzi erano precedenti all’incursione, e che l’edificio era
pieno di estremisti violenti che avevano attaccato gli agenti.
Il giorno dopo, le forze dell’ordine tennero una conferenza stampa in cui
annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state
accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla
devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto
tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato, Covell compreso. I
tentativi della polizia d’incriminarlo per una serie di reati gravissimi sono
stati definiti “grotteschi” dal pubblico ministero Enrico Zucca.
Nella stessa conferenza stampa, furono esibite quelle che la polizia
descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti
avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli
zaini, 17 macchine fotografiche, 13 paia di occhialini da nuoto, 10 coltellini
e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe molotov che, come ha
concluso in seguito Zucca, erano state trovate in precedenza dalla polizia in
un’altra zona della città e introdotte alla Diaz alla fine del blitz.
Queste bugie facevano parte di un più ampio tentativo di inquinare i fatti.
La notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti entrò nell’edificio di
fronte alla Diaz dove c’era la redazione di Indymedia e dove, soprattutto, un
gruppo di avvocati stava raccogliendo le prove degli attacchi della polizia ai
manifestanti. Gli agenti andarono nella stanza degli avvocati, li minacciarono,
spaccarono i computer e sequestrarono i dischi rigidi. Portarono via tutto ciò
che conteneva fotografie e filmati.
Poiché i magistrati rifiutavano di incriminare gli arrestati, la polizia
riuscì a ottenere l’ordine di espellerli dal paese, con il divieto di tornare
per cinque anni. In questo modo i testimoni furono allontanati dalla scena. In
seguito i giudici hanno giudicato illegali tutti gli ordini di espulsione, così
come i tentativi d’incriminazione.
Nessuna spiegazione
Zucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”.
Zucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”.
Senza Zucca, senza la determinazione dei magistrati italiani, senza
l’intenso lavoro di Covell per trovare i filmati sull’incursione alla Diaz, la
polizia avrebbe potuto sottrarsi alle sue responsabilità e ottenere false
incriminazioni e pene detentive contro decine di vittime. Oltre al processo per
i fatti di Bolzaneto, che si è appena concluso, altri 28 agenti e dirigenti
della polizia sono sotto accusa per il loro ruolo nell’incursione alla Diaz. Eppure,
la giustizia è stata compromessa.
Nessun politico italiano è stato chiamato a rendere conto dell’accaduto,
anche se c’è il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno le
avesse promesso l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti
venivano picchiati e a quanto sembra non vide nulla, o almeno nulla che
ritenesse di dover impedire. Secondo molti giornalisti, Gianfranco Fini – ex
segretario del partito neofascista Msi e all’epoca vicepremier – si trovava nel
quartier generale della polizia. Nessuno gli ha mai chiesto di spiegare quali
ordini abbia dato.
Gran parte dei rappresentanti della legge coinvolti nelle vicende della
scuola Diaz e di Bolzaneto – e sono centinaia – se l’è cavata senza sanzioni
disciplinari e senza incriminazioni. Nessuno è stato sospeso, alcuni sono stati
promossi. Nessuno dei funzionari processati per Bolzaneto è stato accusato di
tortura: la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni funzionari di
polizia che all’inizio dovevano essere accusati per il blitz alla Diaz hanno
evitato il processo perché Zucca non è riuscito a dimostrare che esisteva una
catena di comando. Ancora oggi, il processo ai 28 funzionari incriminati è a
rischio perché Silvio Berlusconi vorrebbe far approvare una legge per rinviare
tutti i procedimenti giudiziari che riguardano fatti accaduti prima del giugno
2002. Nessuno è stato incriminato per le violenze inflitte a Covell. E come ha
detto Massimo Pastore, uno degli avvocati delle vittime, “nessuno vuole
ascoltare quello che questa storia ha da dire”.
La lezione della Diaz
È una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”.
È una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”.
Cinquantadue giorni dopo l’irruzione nella Diaz, diciannove uomini usarono
degli aerei pieni di passeggeri per colpire al cuore le democrazie occidentali.
Da quel momento, politici che non si definirebbero mai fascisti hanno
autorizzato intercettazioni telefoniche a tappeto, controlli della posta
elettronica, detenzioni senza processo, torture sistematiche sui detenuti e
l’uccisione mirata di semplici sospetti, mentre la procedura dell’estradizione
è stata sostituita dalla “consegna straordinaria” di prigionieri.
Questo non è il fascismo dei dittatori con gli stivali militari e la
schiuma alla bocca. È il pragmatismo dei nuovi politici dall’aria simpatica. Ma
il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando il potere si sente
minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque.
(Traduzione di Maria Giuseppina Cavallo.
Questo articolo è stato pubblicato sul Guardian il 17 luglio 2008, con il
titolo “The bloody battle of Genoa”)
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