E’ in arrivo la misurazione standardizzata delle soft skills degli
studenti italiani, “quella gamma di qualità personali, spesso
descritte come dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento.
Categorie come auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza,
mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, “carattere” e tutto ciò che
deriva dalla fusione “psico economica” della psicologia positiva con
l’economia
comportamentale”. Per la nuova “scienza delle soft skills” i
“tratti” del carattere degli studenti sono veri e propri indicatori
econometrici, da quantificare e ottimizzare fin dalla prima infanzia, perché
determinanti del benessere prima individuale e poi sociale. Il nostro Istituto
di Valutazione INVALSI ci lavora da tempo, in collaborazione con il prof. Vittadini,
ordinario di Statistica a Milano che già un anno fa si domandava “come
diagnosticare i problemi di carattere” degli studenti, ipotizzando di
trovare “un accordo sulle dimensioni “utili” del carattere”, che avrebbe
permesso (alle scuole) di “diagnosticare, calibrare” considerando non
solo le “dimensioni psicologiche”, ma anche “sintomi clinici, spettro
di sintomi [..] eziologia, specificità per categorie a rischio..”. Dal 12
marzo sappiamo quali progetti di misurazione standardizzata INVALSI ha già in
cantiere: problem solving collaborativo, imparare ad imparare
e pensiero creativo. Il percorso è tracciato: entro due anni i primi test
dovrebbero arrivare a un campione di scuole (studenti dagli 8 ai 17
anni). La nuova scienza dell’educazione basata “sui dati” si appresta a
includere all’interno della visione riduzionista e meccanicistica della
valutazione standardizzata anche psicologia, motivazioni, creatività,
attitudini, comportamenti, secondo l’ “illusione di uomo modulare”,
inteso come essere componibile, artefatto, con competenze hard e soft da
misurare e ottimizzare in funzione della massima espansione di sé e del proprio
tornaconto economico.
Con il termine soft skills, non cognitive skills, life
skills, o socio-emotional skills[1] si
indica “comunemente quella gamma di qualità personali, spesso descritte come
dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento. Categorie
come auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità
aperta, grinta, intelligenza sociale, “carattere” e tutto ciò che
deriva dalla fusione “psico economica” della psicologia positiva con
l’economia
comportamentale” [2].
Così il prof. Ben Williamson, della Facoltà di Scienze
sociali dell’Università di Stirling, Regno Unito, descrive il recente campo di
interesse di quella comunità transnazionale fatta di organizzazioni governative
e non, agenzie pubbliche e private, think thanks e gruppi
accademici di varie aree disciplinari[3],
capace di incidere e dettare indirizzi economico-politici in campo educativo
anche a livello nazionale[4].
Il recente investimento in termini di ricerche e risorse nel campo
delle soft skills, a dispetto del linguaggio impiegato (che fa
riferimento a temi come benessere emotivo, attitudini morali e comportamentali,
tratti della personalità, della “singolarità” umana di ciascuno etc.), va letto
tuttavia in una chiave ben precisa, ovvero nell’ottica dell’idea, oggi
dominante, di “educazione basata sui dati”, “sulle evidenze”.
Le soft skills, in poche parole, devono essere interpretate
come nuove categorie concettuali da standardizzare, misurare e
confrontare, anche in contesti diversi. Il nuovo approccio
all’educazione “basato sulle evidenze”, quella “combinazione di esperienza
professionale in ingegneria informatica, statistica, psicologia cognitiva,
neuroscienze, scienze dell’apprendimento, psicometria e bio-informatica; tecniche
e metodi come la capacità di trarre informazioni da grandi quantità di dati
(data mining), il machine learning, l’analisi predittiva e l’analisi di reti
complesse (network analysis) [..]” che ha interesse (sia
accademico/scientifico che di mercato)[5] a
“misurare e prevedere i progressi e la realizzazione [degli obiettivi] degli
studenti, ottimizzando l’apprendimento e l’ambiente in cui esso avviene”[6]converge
a grandi passi verso il campo delle soft skills.
1. Lo scenario internazionale
In quel processo che alcuni autori hanno ribattezzato “datification
delle socio-emotional skills”[7],
un ruolo chiave è stato svolto dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la
Cooperazione Economica (OCSE – OECD nei riferimenti bibliografici), come di
recente abbiamo già segnalato.
Attraverso il suo Centro di Ricerca ed Innovazione Educativa (CERI),
l’OCSE ha svolto un poderoso lavoro di raccolta e stabilizzazione di un
gran corpo di ricerche di tipo psicometrico sulle competenze socio-emozionali,
il cui scopo è stato quello di costruire un “apparato” di
oggettività e di consenso internazionale attorno all’idea che un certo
insieme di tratti psicologici, atteggiamenti o elementi del carattere degli
studenti possano essere tradotti in una nuova metrica di indicatori quantificabili,
standardizzabili e sistematizzabili in scale e referenziali, che li rendano
confrontabili anche tra contesti diversi, esattamente come è accaduto nel tempo
per le hard skills (le competenze base in lingua, matematica e
scienze misurate dai test OCSE-PISA). Contribuire a costruire la nuova
“scienza delle soft skills”, un mix tra scienza
dei dati e scienze psicologiche: questa la missione dell’OCSE.
Nel 2014, il rapporto “Fostering and mesuring skills: improving cognitive and
non cognitive skills to promote lifetime success” è
tra i primi sul tema, e tra gli autori vede nomi autorevoli come quello del
prof. J. J. Heckman, economista americano celebre per la sua “Equazione di
Heckman”, che misura il ritorno in investimento in funzione
della qualità e della tipologia di programmi educativi attuati nella prima
infanzia (già incontrato qui); nel 2015 segue “Skills for
social progress: the power of socio-emotional skills”, in cui,
in apertura si afferma che “ciascuno è in grado di riconoscere l’importanza
delle competenze sociali ed emotive, tuttavia c’è ancora mancanza di
consapevolezza su cosa sia utile (what works) per
accrescerle, misurarle e promuoverle”[8],
poi si formalizza l’assunto-base dell’intero quadro concettuale: cioè che “misurare le
competenze sociali ed emozionali è arduo, ma possibile e affidabile”[9]. Nel rapporto “Social and
emotional skills for student success and well-being” del 2018,
viene presentato il progetto denominato Study of Socio Emotional Skills(SESS),
basato sul ben noto modello “Big Five”, che categorizza in 5 macro domini –
“[aventi] valore predittivo e relazioni con importanti
risultati nella vita”[10] –
i diversi tratti delle personalità umane: apertura mentale, regolazione delle
emozioni, collaborazione, performatività, impegno con gli altri. Sebbene il
modello Big Five “derivi da ricerche sugli adulti”, l’OCSE riporta un
gran numero di esempi di ricerche internazionali che, pur misurando diversi
tratti “del temperamento della prima infanzia”[11],
possono significativamente essere ricondotti (well fitting) alle
macro-categorie Big Five. D’altra parte, “le socio-emotional skills
[sono] malleabili”; e siccome i “cambiamenti sostanziali
avvengano nella prima infanzia e nell’adolescenza”,
è fondamentale agire precocemente per promuovere le “giuste” soft skills.
Le “evidenze mostrano come interventi pianificati
e sistematici [..] possano migliorarle con successo”[12].
L’OCSE non si limita a farsi garante e promotrice della misurabilità e
della “scientificità” delle soft skills di bambini e
adolescenti, ma compie un passaggio ulteriore: investe le soft skills di
imperativi economici, trasformando le competenze trasversali degli studenti in
veri e propri indicatori econometrici, determinanti e predittori del benessere
prima individuale e poi sociale.
Le soft skills sono “attributi personali, disposizioni
relativamente stabili, indipendenti dalle capacità cognitive, potenzialmente
reattivi ad interventi esterni, dipendenti da fattori di contesto e vantaggiosi
per un vasto range di risultati nella vita (life outcomes)”[13] la
cui rilevanza è “dimostrabile per un ampio range di
obiettivi [..pertanto..] importante oggetto di interesse politico” [14]:
così afferma il rapporto “Personality matters: relevance and assessment of
personality characteristics”, 2017.
“Scientificità” e rilevanza politica, basate sull’oggettività di metodi
standardizzati di misurazione e comparazione di tratti della personalità umana
trasformati in nuova priorità economica, perché capaci di incidere sulla produttività
individuale e sociale. Un vero e proprio “realismo metrico”[15],
che dietro l’apparente neutralità e indipendenza dell’ apparato di codifica
numerica costruito e impiegato, omette l’immenso processo di disciplinamento,
semplificazione e riduzione necessari per tradurre la complessità psicologica e
la singolarità umana in variabili matematiche. Il progetto dell’OCSE è ben
sintetizzato dall’ immagine seguente (Fig.1),
rappresentazione concreta del life long learning, della costruzione
del soggetto competente, il cui percorso di vita è una scalata verso la vetta
del life outcome – il successo – che si svolge all’interno di
un sistema immutabile, rappresentato dal “sole” del contesto socio-economico…
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