Si avvicina
una nuova tornata elettorale e si torna a parlare di tasse. Non per ricordare agli
italiani che la Costituzione ci richiama al “dovere inderogabile di solidarietà
politica, economica e sociale”, ma per assicurarci che saremo liberati da ciò
che nell’immaginario collettivo si sta affermando come un’angheria. Messaggio
indirizzato soprattutto ai più ricchi che avendo di più sono anche quelli che
hanno la sensazione di pagare di più. E poiché a determinare gli importi
fiscali è l’aliquota, ossia la percentuale di tassazione, tutti i governi
italiani degli ultimi trent’anni si sono prodigati per abbassare le aliquote
sui redditi più alti, fino ad arrivare ad oggi che si propone la flat tax,
letteralmente tassa piatta. Vale a dire aliquota unica, magari del 15%, sia che
si guadagni 20mila euro che due milioni di euro l’anno. Unico elemento d’abbattimento
il carico familiare, anch’esso però uguale per tutti, per cui il principio alla
fine non cambia. Un principio, quello della flat tax, opposto all’imposta
progressiva che spacchetta ciò che guadagniamo in scaglioni applicando a ciascuno
di essi aliquote differenziate. Molto basse sui primi gradini per diventare
sempre più alte su quelli aggiuntivi. Una gradualità basata sulla constatazione
che il reddito risponde a bisogni diversi via via che cresce: le quote più
basse non possono essere toccate o devono essere toccate poco perché servono
per i bisogni fondamentali. Viceversa le quote che si aggiungono sono
accantonate o spese per beni di lusso, per cui possono essere
tassate più pesantemente senza paura di compromettere la vita delle famiglie,
ma anzi migliorandola perché si arricchiscono di servizi pubblici. Dunque la
progressività è un principio fondamentale di equità, che però i sostenitori
della flat tax contestano sulla base di due argomentazioni: ostacola la
crescita e incentiva l’evasione. Ma è proprio così?
Secondo
certe teorie è bene che i soldi rimangano in tasca a chi ne ha molti per avere
chi investe invece che consumare. E poiché l’investimento è ritenuto sinonimo
di crescita, la conclusione è che la concentrazione fa bene alla collettività.
Ma in un articolo apparso il 5 gennaio 2019 sul New York Times, Paul Krugman
dimostra che negli Stati Uniti il massimo livello di crescita si è avuto negli
anni sessanta del secolo scorso, quando sopra il milione di dollari (valore di
oggi) si pagava una tassa del 70%. Il fatto è che la crescita è un fenomeno
complesso che si avvera solo se si realizzano varie condizioni che stanno in
equilibrio fra loro: capitali che investono, ma anche adeguata capacità del
sistema di assorbire ciò che viene prodotto; altrimenti i capitali non si
indirizzano verso gli investimenti produttivi, ma verso quelli finanziari che
oltre certi limiti mandano il sistema in tilt come è successo nel 2008. Per
questo l’equa distribuzione dei redditi è un importante fattore di
stabilizzazione.
Ed anche
rispetto all’idea che le alte aliquote favoriscono l’evasione fiscale, ci sono
studi che smentiscono questo luogo comune. Mettendo a confronto i livelli di
pressione fiscale con i livelli di economia sommersa esistenti nei vari paesi
(dati Ocse e Fondo Monetario Internazionale), Rocco Artifoni dell’associazione
Ardep, dimostra che non esiste correlazione automatica fra i due fenomeni
perché ci sono Paesi con alta pressione e bassa evasione fiscale e al contrario
Stati con bassa pressione e alta evasione fiscale. Ad esempio Francia e Svezia,
rispettivamente con pressioni fiscali del 46,2% e 44% del Pil hanno entrambi un
tasso di economia sommersa attorno all’11%. Viceversa l’Italia, con una
pressione del 42,4% ha un sommerso pari al 22,97% del Pil, in buona compagnia
con Messico e Turchia che registrano economie sommerse rispettivamente del 28%
e del 27,4% pur avendo pressioni fiscali del 16,2% e del 24,9% del Pil.
Mentre
l’effetto positivo della flat tax su crescita ed evasione è tutto da
dimostrare, si può dire per certo che impoverisce le casse pubbliche. Nel caso
italiano c’è chi parla di 50 miliardi, chi di 15, ma tutti concordano che una
perdita ci sarebbe e che sarebbe importante. Del resto già le controriforme
attuate dal 1983 al 2017, che hanno ridotto la cumulabilità dei redditi ed
abbassato l’aliquota più alta dal 72 al 43%, hanno prodotto gravi distorsioni.
Secondo una ricerca di Cadtm su fisco e debito, nel solo 2016 il trattamento
fiscale più favorevole rispetto al 1980 ha consentito ai percettori di redditi
superiori ai 250.000 euro di trattenere per sé 4,7 miliardi di euro, invece che
versarli allo stato. Una conferma di come un fisco poco progressivo o
addirittura piatto contribuisca fortemente ad accrescere le distanze fra i più
ricchi e il resto della popolazione. E se non bastasse può essere utile un
raffronto storico: nel 1991, quando la controriforma era già in corso, ma non
in fase così avanzata come oggi, l’1% delle famiglie più ricche possedeva il
6,2% del patrimonio complessivo detenuto dalle famiglie. Nel 2015, la loro
quota la troviamo quasi raddoppiata all’11,7%.
L’assurdo è
che mentre in Italia si propone la flat tax, negli Stati Uniti si sta
tornando a discutere della necessità di aumentare di nuovo le aliquote sui
redditi più alti se non al 91%, come esisteva fino al 1963, almeno al 70%, come
era previsto fino al 1981. La principale esponente di questa istanza è la
deputata democratica Alexandra Ocasio-Cortez, che chiama in causa più esigenze
compresa quella di garantire maggiori entrate alle casse federali considerato
che gli Stati Uniti sono il paese che in termini assoluti ha il debito pubblico
più alto del mondo. Ma più che una questione di soldi, l’onorevole
Ocasio-Cortez ne fa un problema di democrazia, di coesione sociale, perfino di
felicità. Negli Stati Uniti le disuguaglianze hanno raggiunto livelli da
brivido anche grazie a un fisco accomodante: l’1% più ricco ormai detiene il
40% di tutto il patrimonio posseduto dalle famiglie. Una concentrazione di
ricchezza che si traduce inevitabilmente in una concentrazione di potere
economico e politico. Del resto non c’è bisogno di andare oltre oceano per
constatare come ricchi magnati, proprietari di testate televisive e
giornalistiche, riescano ad arrivare alle massime cariche dello stato grazie
alle enormi somme investite nelle campagne elettorali, ormai non più definibili
competizioni politiche, bensì esercizi di marketing.
Ma le
disuguaglianze sono un acido che corrode la società ancora più nel profondo,
perché intacca l’anima delle persone. Nel suo volume Why men rebel , il sociologo americano Ted Gurr
introduce il concetto di “frustrazione da deprivazione relativa” per descrivere
quel sentimento di insoddisfazione mista a risentimento che si prova verso chi
ha di più, non per meriti conquistati sul campo ma in forza di privilegi e
posizioni di rendita. E se la rabbia diventa estesa e profonda può
sfociare in vere e proprie proteste che a seconda della piega che
prendono possono diventare anche violente. Così le disuguaglianze conducono
alla disgregazione sociale anche per la perdita di fiducia che si insinua fra
le persone. Una ricerca condotta nel 2016 da Eric Gould per conto del Fondo
Monetario Internazionale conferma: “le disuguaglianze abbassano il sentimento
di fiducia verso gli altri, non solo negli Stati Uniti, ma in tutte le economie
avanzate”. E se la preoccupazione del Fondo è per le ripercussioni che
l’abbassamento di fiducia può avere sulla crescita economica, la nostra
preoccupazione è per la felicità delle persone, perché senza fiducia non può
esistere coesione sociale e senza coesione sociale non può esistere
solidarietà, l’unica che permette anche ai più deboli di trovare un po’ di
serenità.
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