Davide Grasso, andato come Lorenzo
Orsetti in Siria a combattere l'Isis, non ha commesso reati ma rischia la
"sorveglianza speciale". Aggravante: essere anticapitalista. Tra le
prove: il suo libro. Qui racconta la requisitoria del pm
L’intervento del pubblico ministero Emanuela Pedrotta il 25 marzo, in aula,
al Tribunale di Torino, mi ha colpito. L’occasione era l’udienza in cui, a nome
della procura, doveva giustificare la richiesta di espellere me e altre quattro
persone dalla città per due anni, revocarci il passaporto, metterci al confino
in un altro comune italiano, imporci di rientrare a casa ogni sera fino a un
certo orario del mattino, presentarci regolarmente all’autorità giudiziaria e
portare addosso un “libretto rosso” su cui gli agenti possano annotare i nostri
comportamenti. Oltre a questo, sospendere il nostro diritto di riunione con più
di due persone, il diritto a parlare in pubblico e quello di partecipare a
manifestazioni politiche. Benché possa apparire incredibile, si tratta di una
«misura di prevenzione», detta «sorveglianza speciale», che permette allo stato
di limitare la libertà dell’individuo senza accuse e senza processo. Rompendo
con i principi ordinari dello stato di diritto, è una norma «preventiva» che si
basa sull’idea della generica «pericolosità sociale» di certe persone. Un
obbrobrio poliziesco a tutti gli effetti, introdotto durante il fascismo, e
scandalosamente ancora nell’ordinamento italiano.
A noi, nello specifico, la «sorveglianza speciale» si applicherebbe perché
siamo stati in Siria, in diversi periodi, tra il 2016 e il 2018, per supportare
le Forze siriane democratiche (Fsd) curdo-arabe contro lo Stato islamico o
“Isis”. In aula la pm ha detto, non so su quali basi, che invece siamo andati
laggiù non per combattere l’Isis, e tantomeno per difendere la società siriana
o quelle europee, ma con l’intento di imparare a usare un fucile per usarlo in
Italia contro lo stato. Questo si evincerebbe dalle nostre reiterate
espressioni pubbliche ed esplicite di contrarietà «al capitalismo» e di
apprezzamento per il concetto di «rivoluzione». Ciò che mi ha colpito, in
particolare, è stata la citazione a piene mani in aula, da parte sua, di un
libro che ho scritto due anni fa, Hevalen.
Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria. La foto
della copertina del libro, pubblicato nel 2017 da Alegre, era già stata
inserita nella prima convocazione in Tribunale il 3 gennaio, e avevo saputo due
settimane fa dalla mia avvocatessa, Lea Fattizzo, che la procura aveva deciso a
inizio marzo di inserire fisicamente una copia del volume agli atti del
procedimento, con alcune sottolineature a matita.
Decisi, appresa questa notizia, di pubblicare un ragionamento su questo
fatto, cui stavo lavorando su un treno per Torino, il mattino dello scorso 18
marzo. Sceso dal treno, mi sono diretto al Palazzo di Città per osservare,
assieme ad altri torinesi, il minuto di silenzio previsto in ricordo di
Antonella Sesino e Orazio Conte, uccisi dallo Stato islamico quattro anni prima
al Museo del Bardo di Tunisi. Mentre osservavo la polizia municipale alzare i
gonfaloni comunali, e ascoltavo la tromba suonare il Silenzio, cercavo di
pensare a quelle due persone, in vacanza, quattro anni prima, mentre venivano
improvvisamente crivellate dai proiettili dei due sconosciuti assalitori,
probabilmente intenti a urlare il solito “Allah Akhbar” che fa di Dio qualcosa
di più grande, senz’altro, della vita di due turisti. Osservando i parenti
delle vittime tenevo bene a mente il senso di ciò che avevo fatto, a pochi
giorni dall’udienza in cui lo stato italiano avrebbe cercato di renderlo motivo
di stigma e criminalizzazione.
È allora che ha vibrato il mio cellulare. Era il messaggio di una
giornalista su WhatsApp. Mi chiedeva se ero in grado di confermare «il decesso
di Lorenzo». Capii subito, e mi allontanai immediatamente per restare solo.
Conservavo una speranza o un dubbio perché, di norma, le Ypg fanno in modo che
la notizia del martirio arrivi alla famiglia per loro tramite, e non per via
giornalistica. Non potevo sapere che, stavolta, era stato proprio l’Isis a dare
la notizia, perché era riuscito a impossessarsi del corpo di Lorenzo, che per
fortuna sarebbe stato recuperato dalle Ypg, con un’operazione, poche ore dopo.
Lorenzo si era arruolato nelle Ypg nel 2017, un anno dopo che io le avevo
lasciate, ed è in quel frangente che lo avevo incontrato in Siria. Stava
ricevendo proprio quell’addestramento militare che, ieri, la procura ha addotto
a ragione della nostra «pericolosità sociale».
Quel mattino del 18 marzo, quando ancora ero in viaggio in treno, i
miliziani dell’Isis fotografavano il corpo senza vita di Lorenzo per esibirlo
su internet come un trofeo. Io stavo pensando a lui. Non è una coincidenza:
pensavamo tutti molto spesso a lui. La sera prima avevo parlato di lui con dei
compagni a Treviso. Io, l’ho detto in questi giorni, sono un po’ l’opposto di
Lorenzo. Ho partecipato a una sola operazione con le Ypg, a Manbij, nel 2016. È
stata molto dura, per me – di questa durezza materiale e interiore racconta
appunto il libro Hevalen – e da allora non sono riuscito a
continuare. Sono tornato in Siria, ma come civile. Ho continuato a lottare per
la causa rivoluzionaria in Europa, ma come divulgatore di idee e informazioni,
affinché la lotta che si svolge là sia almeno conosciuta un po’ di più qua.
Lorenzo, invece, dopo la prima battaglia ad Afrin, contro la Turchia e le sue bande
jihadiste, ha affrontato un lungo percorso di approfondimento ideologico per
poi tornare al fronte più formato e convinto di prima. Stavolta la guerra era
contro l’Isis, nel deserto di Deir El Zor, tra Hajin e Baghuz, le ultime zone
infestate dal “califfato”. Anche lui, con il tempo, ha sentito la necessità di
scrivere della sua esperienza e rilasciare interviste, ma non ha mai lasciato
la Siria e non ha mai smesso di combattere.
Pensavo a Lorenzo perché tutte e tutti noi che lo conoscevamo lo pensavamo
sempre, preoccupati per lui. Sono certo che poco prima o poco dopo, o in quel
momento stesso, lo stavano pensando anche Jacopo e Eddi, che erano stati ad
Afrin con lui, Paolo, Botan e Jak, che l’avevano conosciuto in Rojava, Dilsoz,
che con lui ha condiviso così tante cose importanti, e tanti altri, in primo
luogo il papà e la mamma, sua sorella, le sue amiche e i suoi amici di Rifredi
– che un anno prima avevano fondato il comitato “Rifredi per Afrin”, sapendolo
laggiù. Tutti eravamo preoccupati per lui, come ora lo siamo per Leopoldo di
Cremona e Gaetano di Pisa, per Medya e Kawa, per tutti gli italiani e le
italiane che sono laggiù, ma anche per tutti i combattenti siriani e
internazionali – ammesso che si battano dalla parte giusta, quella confederale,
e non quella islamista o del regime. Pensavo sul treno, mentre lui era già
morto: se morisse a Baghuz, cosa succederebbe, cosa potremmo fare, cosa avremmo
fatto? Non avevamo mai avuto un italiano morto in combattimento. Tutti, da
mesi, eravamo occupati da questo pensiero. È normale che lo fossimo, come
adesso lo siamo per gli altri, non solo italiani – poiché se è
giusto soffrire in primo luogo per il proprio prossimo sentimentale, e
onorarlo, è sulla fermezza nell’onorare anche il prossimo più lontano – umano,
etico e politico – che si mette alla prova il nostro essere “hevalen”, ossia
capaci di un’amicizia molto più alta e molto più bella.
La morte di Lorenzo ha fatto riflettere le persone. Ha illuminato persino
la nostra piccola vicenda giudiziaria, mandando in tilt il
povero sostituto procuratore, che il 25 marzo si è presentato in aula per
inscenare una confusa protesta contro le nostre dichiarazioni di questi giorni.
Sembrava sul banco degli imputati lui, non noi: come è giusto che sia.
Purtroppo poi, però, i microfoni sono stati accesi per la pm Pedrotta che,
diversamente da lui, per rompere l’accerchiamento ha deciso di colpire alla
cieca. Ha ritenuto elegante dire che, se fossero ancora vivi, non avrebbe
inquisito Lorenzo Orsetti e Giovanni Asperti, l’altro caduto italiano. Saranno
senz’altro sollevati da questa rassicurazione che, ad ogni modo, sarà difficile
da provare. La pm ha poi proseguito isolando i nostri casi e, per quanto mi
riguarda, ha affermato che io sono particolarmente pericoloso «perché, a p. 156
del libro Hevalen», ho raccontato di aver ricevuto un addestramento
relativo all’irruzione in appartamenti e di aver combattuto in uno scenario
urbano. «Uno scenario urbano, giudice. Uno scenario urbano!». Sì, è vero: e non
è stato divertente. Non è stato bello. È stato molto difficile. «Cito ancora
dal suo libro», ha continuato la pm. «La rivoluzione è brutta, ma necessaria:
Grasso si rende conto che è un fatto negativo, eppure continua a propugnarla».
Eravamo allibiti. È vero: benché la rivoluzione cui ho partecipato nella
Siria del nord sia stata anche brutta, in certi momenti, resto convinto che
fosse necessaria, e che sia necessario difenderla. Se l’accusa è questa, sono
colpevole. Il problema però, è un altro: è l’idea che ammettere l’esistenza del
male dopo averlo vissuto, e descriverlo, sia motivo di pericolosità. Il
capovolgimento diametrale del nostro messaggio a opera della procura delinea un
nichilismo proprio della nostra società – l’incapacità dell’occidente di avere
rispetto, non dico empatia, per i drammi del resto del mondo – che la dott.ssa
Pedrotta involontariamente incarna, pur con una mediocrità difficile da negare.
Ha proseguito dicendo che la «nobile causa» per cui ci siamo schierati non può
costituire un «lasciapassare» giudiziario: e chi l’ha mai chiesto? Del resto
lei, in questo procedimento, ha scelto proprio la strada delle «misure di
prevenzione» che permette vigliaccamente di non contestarli, gli eventuali
reati (perché non ne abbiamo commessi, in relazione alla Siria). Le condanne,
peraltro di lievissima entità, che tre di noi hanno subìto in passato, sempre
per motivi politici, sono state regolarmente scontate. «Signor giudice: costoro
non possono difendere la società occidentale, perché affermano di essere contro
il capitalismo». Ancora. Punti cardinali, modi di produzione: c’è chi il nesso
lo vede così, su un mappamondo dove la carta fisica e quella politica sono la
stessa cosa. Siamo – vogliamo essere – nelle mani di gente del genere?
«Grasso racconta di aver parlato con un suo compagno siriano che si diceva
disposto a combattere anche in Italia». È vero, era Heval Zagros. Arabo, di
Raqqa, molto giovane, quasi analfabeta, lavoratore già a quindici anni in
officina, se ne era andato dalla sua città perché i miliziani islamisti gli
avevano mancato di rispetto, dandogli dell’infedele (ho scoperto poi che
neanche sapeva cosa volesse dire). Era comparso nel video che avevo mandato
dalla Siria, assieme a una compagna curda. Diceva di voler liberare la sua
città e la Siria, poi la Turchia, l’Iran e l’Iraq, quindi la Palestina e il
Libano. «E se un giorno il popolo italiano avrà bisogno, aiuterò anche in
Italia». Era come Lorenzo, uno di quelli per cui aiutare anche il prossimo più
lontano è importante. Quando gli chiesi se credeva in Dio, disse: «Una volta,
ora non più. Se le donne e i bambini sono felici, io non ho bisogno di Dio». La
morte due anni fa, durante l’avanzata per liberare la sua città, che non ha mai
rivisto, gli ha risparmiato di essere al mondo lunedì; quando qualcuno ha
nominato il suo esempio fulgido, e il suo sacrificio per la nostra sicurezza e
libertà, come motivo di preoccupazione per «l’ordine pubblico», mentre sono
proprio i nemici che l’hanno ucciso, i miliziani dell’Isis, a dire di voler
ritornare in Italia. La procura di Torino sarebbe in grado di far ridere anche
i morti.
Mi chiedo quale spazio sia rimasto per formulare un ragionamento, per
abbozzare un’analisi. È possibile, ancora, posizionarsi politicamente in modo
diverso dalle aspettative del potere costituito? Perché oltretutto, grazie al
sacrificio di migliaia di italiani (i nostri avvocati lunedì lo hanno
ricordato) questo, dal 1945, non è più un reato. Un’idea ha forza e utilità
soprattutto nella misura in cui si situa in rapporto critico con il reale, se
ne astrae e lo giudica: proprio come fanno i giudici, ma in modo diverso; in
modo libero, sebbene magari costretto entro certi argini dall’esperienza e
dalla logica, o magari dal senso del ridicolo, ma senza toga. Non parlo
delle mie idee. Parlo di qualsiasi idea. Sentire risuonare in
un’aula di Tribunale passi di un mio libro mi ha colpito di più in questo caso
perché per me, l’ho detto a tanti e tante volte, Hevalen non è
“un libro”, è altro. È un resoconto, è la mia vita stessa nel suo momento più
significativo e più duro. Per questo per me quel libro è, lo ammetto, in
qualche modo, un libro o un diario sacro, ma nel senso originario
di sacer: maledetto da Dio o dagli déi, come era per i romani;
e Hevalen maledice infatti, e dice male, di tutti gli
déi, gli déi maledetti che si sono portati via gli uomini e le donne, non
ultimi i miei compagni in Siria. Non mi interessa cosa pensi di Hevalen la
procura di Torino. È una questione privata purtroppo.
«Grasso scrive in apertura che il suo resoconto è reticente. Cosa avrà
voluto dire, signor giudice? Sarebbe bello che ci spiegasse in cosa egli è
stato reticente». Sarebbe bello? Non lo so. Non so neanche se un pubblico
ministero sia effettivamente in grado di concepire un senso letterario di
«reticente». In fondo è per cose come queste che la donna e l’uomo di legge
sono, in un senso molto profondo, i primi ad apparire spesso socialmente o
politicamente pericolosi. Mi sono chiesto, mentre diceva quelle parole: se
questa persona si fosse trovata dove mi sono trovato io, quando ho attraversato
qualcosa di simile a ciò che Lorenzo ha vissuto negli ultimi istanti di vita –
avrebbe voluto, avrebbe potuto raccontarlo? Esiste uno spazio per l’essere
umano, per la sua scelta, uno spazio vuoto, una pagina bianca o un istante di
silenzio anche per proteggere o difendere ciò che arreca più dolore, lo spazio
sensibile, intimo, colmo di dubbi, che sentiamo di dover schermare
dall’intervento altrui, quale che sia, e dal giudizio di chi non
conosce e non può comprendere? Non ci sono soltanto condanne. Ci sono anche
assoluzioni che la legge non è in grado di dare. Di fronte a esse provoca
amarezza che un libro finisca, per un giorno, nelle mani sbagliate – ma aiuta
pur sempre a comprendere fino a che punto può spingersi la mancanza di rispetto
di cui è disposto a macchiarsi lo stato.
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