mercoledì 17 aprile 2019

Julian Assange, caccia all'uomo, missione compiuta


Wikileaks: la vera storia della pubblicazione senza filtri degli archivi - Gennaro Carotenuto (settembre 2011)

Nei giorni dell’arresto di Julian Assange a Londra, ripubblico su Academia.edu una mia bre- ve nota del 2011. Chi scrive fu all’epoca delegato dal settimanale Brecha di Montevideo a viaggiare a Londra, firmare il contratto con Wikileaks, ritirare i documenti in quel momento segreti, e collaborare a collazionarli. Sono pertanto cosciente che nessun giornale, neanche il mio, rispettò quel contratto predisposto da Wikileaks, che garantiva tutti i soggetti inte- ressati. Oggi Julian Assange viene massacrato da quella stessa grande stampa che, all’epoca, fece la fila per ottenere ciò che oggi stigmatizza.

La decisione di Wikileaks di rendere disponibile per intero e senza filtri il suo archivio di 250.000 documenti diplomatici statunitensi, rappresenta una delle più grandi sconfitte nel- la storia del giornalismo. Julian Assange e il suo gruppo aveva infatti per mesi creduto che la stampa, i più grandi giornali del mondo nella fattispecie, dal New York Times al Guardian El País, avrebbe rispettato i patti, sanciti in un preciso contratto firmato da tali me- dia e presentato anche da questi come grande fattore di democratizzazione dell’informazione. Non è andata così.
Da sempre, in tutti i paesi, gli archivi diplomatici sono filtrati da alcune specifiche profes- sionalità, archivisti, diplomatici, uomini dei servizi di sicurezza che agiscono sulla base del criterio di interesse nazionale, nella forma declinata da tali apparati. Tali funzionari stabili- scono, in genere a distanza di 30 anni, quali documenti sia di interesse nazionale divulgare e quali siano ritenuti così sensibili da essere, in parte o del tutto, necessario rinviare ai po- steri, apponendo segreti di 50 o 100 anni, se non essere addirittura distrutti con procedure al di fuori della legge.
Il sogno di Wikileaks (informato di molta retorica sulla libera stampa e accecato dal dogma della pubblicità) era sostituire tali burocrazie statali con presunti rappresentanti di un inte- resse pubblico in perenne contrasto con l’interesse di “poteri forti”. Tali rappresentanti del pubblico interesse furono individuati nei giornalisti di grandi testate per lo più liberal- progressiste. Queste si impegnavano contrattualmente ad editare i documenti e inserire filtri (comunque considerati necessari dal gruppo di Assange), con l’unico criterio del ga- rantire la sicurezza delle persone nominate rispetto ad eventuali persecuzioni politiche. Ovvero: Wikileaks era cosciente che i filtri fossero necessari ed individuarono nei giornalisti i portatori di interesse pubblico in grado di apporveli. In cambio chiedevano che i giornalisti svolgessero tale ruolo onde permettere la pubblicazione dell’intero archivio. Le testate si impegnarono in tal senso.
I giornali contattati (chi scrive conosce in prima persona tale procedura per averla realizza- ta la scorsa primavera a Londra per il settimanale uruguayano Brecha, che mi delegò a firmare il contratto con Wikileaks) firmarono un contratto nel quale si impegnavano ad editare TUTTO il pacchetto di documenti a loro consegnati, e pubblicarli TUTTI sul sito di Wikileaks, indipendentemente dall’usare (e citare) il singolo documento in uno o più articoli. In cambio della prima esclusiva (l’unica cosa giornalisticamente rilevante) le testate si impe- gnavano così alla creazione di un enorme archivio pubblico che poteva essere consultato da privati cittadini ma anche da studiosi di varie discipline, storici, economisti, sociologi, politologi, specialisti di diritti umani. Per quanti dubbi si possano avere sulla sottrazione dell’archivio da parte di Bradley Manning [oggi Chelsea Manning, ndr], resta una fonte di straordinaria importanza.
Sulla base di tale preciso impegno di collazione e verifica integrale, sancito in due fitte pa- gine di contratto, le testate ricevevano i documenti su normali archivi Excel, passati brevi manu su pendrive ai delegati inviati a Londra dalle testate, tra i quali chi scrive. A seconda dell’importanza delle testate, e sulla base di criteri di suddivisione nazionale prima che te- matica, gli archivi contenevano molte migliaia di documenti, fino a 25.000 mi risulta.
La grande stampa però, una volta ottenuti i preziosi file, selezionò e pubblicò solo quello che alle singole testate sembrava interessante, qui e ora. Quindi iniziò una lunga scherma- glia con Wikileaks. Tutte le testate, dopo essersi impegnate diversamente, sostennero di poter da sole interpretare un interesse pubblico in grado di stabilire quali fossero i soli do- cumenti dell’archivio meritevoli di pubblicazione (neanche l’1%) per condannarne all’oblio (ricensurandoli di fatto) la stragrande maggioranza, senza procedere affatto a quell’opera di collazione alla quale si erano impegnati.
Chi scrive ne ha a lungo dibattuto tra gli altri con il presidente della FNSI, Roberto Natale, in un convegno dello scorso aprile all’ “Istituto Universitario Europeo” di Fiesole. In quella e in altre occasioni non è mai stato possibile convincere la stampa che vi potessero essere alternative all’esclusività del loro ruolo di mediatori del pubblico interesse. I giornali, che non avevano dubitato un attimo nell’accettare l’impegno contrattuale preciso a rendere disponibile l’intero rispettivo spezzone di archivio, una volta utilizzati i documenti, si scher- nivano dietro un presunto diritto di stabilire loro cosa fosse d’interesse pubblico e cosa non lo fosse. Il mondo dell’informazione – senza mettere all’epoca affatto in discussione la legittimità della diffusione dell’archivio – ne valutava in maniera presentista un esclusivo valore d’uso immediato, disinteressandosi a questioni come quella della completezza, del divenire storico dello stesso concetto di human interest che ritenevano di incarnare, o dell’analisi da parte di ulteriori professionalità, quali in particolare quelle dei professionisti delle scienze umane e sociali.
D’altra parte per Wikileaks, un’organizzazione quasi clandestina, far valere le proprie ra- gioni contrattuali in un processo sarebbe stato oltre l’immaginazione e sicuramente oltre l’ingenuità e il pressapochismo di chi la dirige che, nel mettere in discussione il potere dei media tradizionali, non trovava nulla di meglio che affidarsi a questi.
Ho provato senza successo a segnalare a Julian Assange e al suo gruppo più ristretto come il giornalismo commerciale non fosse compatibile col realizzare un progetto di tal portata, ma fosse solo utile a dare la massima risonanza mondiale all’evento Wikileaks. Questi hanno usato Wikileaks per spigolare alcune note di colore (i giornali italiani amarono per esempio rivelare cosa pensasse davvero Hillary Clinton di Silvio Berlusconi) e non molto al- tro, senza cogliere la sistematicità documentaria e d’insieme di quegli archivi. Ho provato a prospettare che gruppi di accademici selezionati in giro per il mondo avrebbero potuto, con più comprensione per l’idea stessa di archivio pubblico, assolvere al compito di colla- zione. Non sono stato ascoltato, temo innanzitutto per il fattore fretta con la quale il grup- po di Wikileaks ha sempre pensato fosse indispensabile pubblicare. Presentisti anche loro. Lo scorso marzo, con meno del 5% di documenti editati dai giornali, ancora si dicevano fi- duciosi di terminare tutta la pubblicazione entro giugno. Sbagliavano, ma soprattutto si erano affidati alle persone sbagliate: la stampa mainstream.
Insipienza, mancanza di risorse e di personale formato, malafede nel pensare di aver già ottenuto quello che volevano senza poi rispettare i patti, incapacità di comprendere la dif- ferenza tra l’interrogazione di un archivio da parte di un pubblicista e quella che oggi e nel futuro possano voler fare degli studiosi, erano alla base del tradimento dei patti. I giornali semplicemente – una volta realizzati i loro scoop – non avevano interesse né risorse per compulsare, editare, eliminare i dati sensibili, pubblicare, inserire tag, parole chiave e altri elementi di classificazione su una quantità di documenti che, per ogni testata, andava dalle 5.000 alle 25.000 unità.
Adesso i giornali si scandalizzano del fatto che Wikileaks dia in pasto al volgo documenti sensibili, saltando il loro sacrale ruolo di mediatori tra notizia e opinione pubblica. È evi- dente che in tale divulgazione vi sono dei rischi e delle responsabilità gravi da parte di Wikileaks. Nel leggere l’ipocrisia del comunicato di GuardianNew York TimesEl País Der Spiegel coglie un moto di disgusto. Scrivono: “difendiamo la nostra collaborazione con Wikileaks, ma siamo uniti nel condannare la non necessaria pubblicazione dei dati completi. La decisione di pubblicare l’intero archivio senza un previo controllo è di Julian Assange, e sua soltanto la completa responsabilità delle conseguenze”. Chiunque può invece farsi un’idea precisa sulla quota di responsabilità di Wikileaks e su quella dei grandi giornali.
da qui



Sopravvissuto all’era dei social network - Benedetto Vecchi

Le immagini del suo arresto, da parte dei poliziotti di Scotland Yard, sigillano con il marchio dei voltagabbana la fine di un’era dell’attivismo on line. Solo, stanco, invecchiato era ormai diventato per l’Ecuador un ospite ingombrante che causava non pochi problemi alle sue relazioni con gli Stati uniti.
Washington, e il Pentagono in particolare, voleva fortissimanente la testa di Assange, dopo che WikiLeaks aveva diffuso i materiali su un’operazione sporca sfuggita di mano ai soldati americani provocando la morte di alcuni civili e giornalisti iracheni. Termina così una vicenda che ha le sue radici nel mediattivismo in Rete. Assange aveva spregiudicatamente tessuto la tela di alleanze e relazioni con i media mainstream e leader politici autoritari e ostili alla libera circolazione delle informazioni (il russo Putin) portando alla ribalta segreti fino ad allora inconfessabili.
Per anni, la sua organizzazione, WikiLeaks, è stata sinonimo di un attivismo digitale portabandiera della trasparenza, eletta a parola d’ordine radicale contro il segreto militare, industriale e la manipolazione della realtà da parte dei media. Nelle sue scorribande in Rete e fuori, Assange ha incontrato inaspettati compagni di strada tra gli hacker più politicizzati e radicali (Anonymous), registi radical (Ken Loach) e i migliori giornalisti investigativi su piazza (Glenn Greenwald), coinvolgendo militari Usa (Chelesea Manning) e creando le condizioni affinché personaggi come Edward Snowden decidessero di rivelare le malefatte della National Security Agency (Nsa).
La sua vita spericolata, assieme all’accusa di stupro in Svezia, ha attirato sulla sua testa non poche critiche anche della sua parte. Un accentratore che non ha esitato a cacciare chi metteva in dubbio le sue decisioni, Un egocentrico indifferente alle ragioni della sua organizzazione. Giudizi che hanno determinato un calo di consenso verso WikiLeaks, portandolo a fare scelte molto poco trasparenti, come quando ha accettato di lavorare a una televisione russa pagata da Putin; o quando ha contattato l’entourage di Donald Trump, ventilando la possibilità di passare mail e documenti che avrebbero messo in cattiva luce Hillary Clinton durante le presidenziali del 2016.
Ogni volta, Assange, ha rivendicato il suo operato come il mezzo per rompere l’assedio al quale era costretto dai servizi segreti statunitensi, risultando tuttavia poco credibile. Sta di fatto che si è alla fine ritrovato solo. C’è solo da sperare, adesso, che non venga estradato negli Usa dove è accusato di attentato alla sicurezza nazionale, un capo di accusa che apre sicuramente le sbarre della prigione con una probabilità assai alta che i suoi carcerieri possano buttare via le chiavi della sua cella. Un esito da respingere, perché l’operato di WikiLeaks è stato comunque prezioso.
In una situazione dove la Rete è diventata medium universale, Assange ha intuito il potenziale controinformativo che aveva. Con un lavoro meticoloso di verifica delle informazioni, ha messo on line documenti mai smentiti, senza mai mettere in pericolo la vita di nessuno, sia che si trattasse di documenti e mail di compagnie petrolifere dove si potevano leggere la corruzione di esponenti politici africani (in Kenya o in Nigeria, ad esempio); o quando manager di imprese finanziarie inglesi con sedi in Asia raccontavano con spavalderia le loro speculazioni che magari impoverivano intere regioni del pianeta per arricchire quell’un per cento delle élite globali. Ma la bestia nera di WikiLeaks è rappresentata dal Pentagono, raccogliendo materiali sulla guerra sporca in Iraq o quella contro il terrorismo islamico, ambiti nei quali l’esercito americano non ha certo brillato per rispetto della popolazione civile. Allo stesso tempo non ha esitato a bussare alle porte delle redazioni mainstream proponendo collaborazioni per diffondere sulla carta gli stessi documenti pubblicati sul sito di WikiLeaks.
Assange è stato cioè flessibile, pragmatico, poco incline a comportamenti settari. Questo il suo merito, assieme al fatto di aver risollevato dal fango dell’arricchimento personale le nobili bandiere hacker sulla libera circolazione delle informazioni, legittimando così le azioni anche di Anonymous. Al di là del successo planetario del film V per vendetta, la maschera di Guy Fawkes non sarebbe diventata il simbolo dei movimenti sociali che è diventata se WikiLeaks non avesse dichiarato di aderire, anche se per breve tempo, alla frase di Anonymous «Noi siamo legione».
Di strada ne ha dunque fatta molta Julian Assange da quando giovane attivista australiano, in nome del cypherpunk, faceva l’agit prop a favore dell’anonimato in Rete e contro lo strapotere di governi e imprese, sbarcando anche, agli inizi di questo millennio, al forum sociale di Porto Alegre, dove, da dietro un banchetto improvvisato, distribuiva i materiali della sua nascente organizzazione. Era dovuto riparare nell’ambasciata dell’Ecuador, dove un presidente si professava populista, di sinistra e antimperialista per poi diventare un populista neoliberista amico degli Usa. Solo, con i fondi di WikiLeaks bloccati. Ma soprattutto era cambiata la Rete.
Ormai la trasparenza radicale è garantita da Facebook, Twitter, Instagram, mentre Whatsapp, in nome della privacy, usa un software che impedisce di leggere i messaggi, garantendo l’anonimato. Insomma quelle stesse corporation che Assange vedeva con il fumo agli occhi. È l’ironia della storia il fatto che il suo arresto sia accaduto in diretta, perché con la Rete la trasparenza deve essere garantita a chiunque. Ad attivisti radicali come a spregiudicati venditori di socialità in forma di spazi pubblicitari.



La «minaccia» di WikiLeaks per i potenti: informare tutti - Tariq Ali

L’ho incontrato nuovamente poche settimane fa. Lenin Moreno, il successore di Correa, aveva capitolato a tutti i livelli, davanti all’impero statunitense.
L’ambasciata era diventata un carcere, la salute di Julian si era deteriorata. Non aveva dubbi sul fatto che Moreno avrebbe risposto positivamente alla richiesta di espellerlo dall’ambasciata. La richiesta di estradizione da parte di Washington non era più un segreto.
E IERI L’AMBASCIATA lo ha consegnato alla polizia britannica. Se vivessimo in un mondo dove le leggi sono rispettate, Assange sarebbe processato per violazione delle norme sulla cauzione (un reato non grave), multato o tenuto in carcere per poche settimane e poi rilasciato per permettergli di far ritorno nella sua Australia. Ma sia il Regno unito che l’Australia sono satrapi imperiali, acquiescenti alle richieste degli Stati uniti. Lo Stato segreto (non così segreto) in entrambi i paesi lavora in stretto contatto con i padroni statunitensi, o meglio ai loro ordini.
Perché lo vogliono così tanto? Perché serva da esempio. Vogliono imprigionarlo e isolarlo come monito, così da evitare che altri seguano il cammino di WikiLeaks. Chelsea Manning è stata nuovamente arrestata perché ha rifiutato di testimoniare contro di lui davanti al Grand Jury. Dal momento che i servizi segreti russi e cinesi sono piuttosto al corrente delle mosse degli Usa nella maggior parte del mondo, la minaccia posta da WikiLeaks consisteva nel fare arrivare le informazioni a ogni cittadino in possesso di un computer, in qualunque parte del mondo.
LA POLITICA ESTERA degli Stati uniti e dell’Unione europea e le loro guerre post-11 settembre si sono fondate su menzogne, promosse dalle reti televisive e dai media globali e spesso credute dalla maggioranza dei cittadini nordamericani ed europei. Le informazioni che smascherano queste bugie smontano le scuse – i diritti umani, la democrazia, la libertà… – avanzate per giustificare le guerre. WikiLeaks ha esposto tutto questo, pubblicando documenti classificati in grado di illuminare a giorno le motivazioni reali.
È UN RECORD INCREDIBILE. Allo stato attuale, WikiLeaks ha pubblicato tre milioni di documenti diplomatici e altre registrazioni del Dipartimento di Stato, per un totale di oltre due miliardi di parole. Un corpus incredibile e insuperabile che se fosse stampato arriverebbe a migliaia di volumi, qualcosa di completamente nuovo nel mondo. Ecco dove Internet diventa una forza sovversiva, in grado di sfidare le reti di propaganda dell’ordine esistente. Assange e i suoi colleghi hanno dichiarato apertamente che i loro bersagli principali erano l’impero statunitense e le sue operazioni globali.
La risposta delle istituzioni Usa è stata isterica e comica. La Libreria del Congresso ha bloccato l’accesso Internet a WikiLeaks. Gli Archivi nazionali statunitensi hanno bloccato anche l’accesso al proprio database riguardo alla parola «WikiLeaks». Il tabù è diventato assurdo, come un cane che abbaia insensatamente a qualunque cosa, anche alla propria coda.
COME HA DETTO Julian Assange: «Nel marzo 2012, il Pentagono ha addirittura creato un filtro automatico per bloccare i messaggi di posta elettronica, compresi quelli destinati al Pentagono, che contenessero la parola WikiLeaks». E così, i procuratori del Pentagono che accumulavano le prove contro l’analista di intelligence statunitense Manning, accusata di essere la fonte di WikiLeaks, non riuscivano a ricevere importanti email da parte del giudice o della difesa. Il governo britannico ripete che rispetterà le leggi. Vedremo. Il Dipartimento della giustizia statunitense ha dichiarato che negli Usa Assange potrebbe essere condannato a cinque anni di carcere. Diane Abbot, membro influente del governo ombra di Jeremy Corbyn, ieri ha detto in Parlamento: «Vogliamo sottolineare che la ragione per la quale parliamo di Julian Assange questo pomeriggio – siccome l’unica imputazione che potrebbe essergli mossa in questo paese riguarda la violazione dei termini della cauzione – ha interamente a che vedere con le attività di denuncia di Julian Assange e di WikiLeaks.
Questo lavoro ha smascherato guerre illegali, omicidi di massa, uccisioni di civili e casi di corruzione su grande scala, e ha messo Assange nel mirino dell’amministrazione statunitense.» Abbot ha aggiunto: «Julian Assange non viene perseguito per proteggere la sicurezza nazionale degli Stati uniti, ma perché ha esposto i crimini delle amministrazioni statunitensi e delle relative forze armate»
I PROSSIMI GIORNI e settimane ci diranno. Intanto, WikiLeaks e il suo fondatore meritano la solidarietà di tutti coloro i quali ritengono che i cittadini del mondo non debbano essere trattati come bambini e che la maggior parte dei politici nell’orbita statunitense ed europea non siano degni di fiducia e cerchino in tutti i modi di evitare che le loro menzogne, la loro corruzione siano resi noti al mondo.

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